I primi Black Sabbath sono una band inarrestabile, la cui creatività viene rapidamente messa a disposizione del pubblico: l’esordio omonimo, pubblicato in Inghilterra nel febbraio 1970 e negli Stati Uniti a giugno dello stesso anno, viene subito seguito da un secondo album, “Paranoid”, pubblicato in patria nel settembre e negli Stati Uniti quattro mesi dopo, nel gennaio 1971.
Nel luglio 1971 si aggiunge anche “Master Of Reality”, così da totalizzare tre album in 17 mesi. D’altronde il capolavoro con cui hanno delineato alcuni tratti dell’heavy-metal e del doom è stato registrato in poche ore, seguendo uno stile che riduce al minimo gli interventi di perfezionamento e post-produzione. Sull’onda degli entusiasmi di certo pubblico per “Black Sabbath”, e nonostante le feroci stroncature di molta critica, Ozzy Osbourne e compagni cercano di capitalizzare il discreto posizionamento nella classifica inglese, dove arrivano fino all’ottavo posto, tornando in studio già nel giugno del 1970.
Quando si trovano a registrare, però, c’è bisogno di un filler di circa tre minuti e così il chitarrista Tony Iommi propone un suo riff, semplice e ficcante, sul quale il bassista Geezer Butler scrive all’impronta un testo che Ozzy Osbourne legge praticamente quando stanno già provando, live in studio, con i nastri in movimento. Il brano è semplice e diretto, costruito su una pentatonica di Mi che funge da locomotiva di una canzone fortemente chitarristica, che attorno a questo strumento nasce e si sviluppa. Il testo, che non cita mai la parola “paranoid” e che pare debba il suo titolo a uno dei soprannomi affibbiati a Butler, è un perfetto esempio del malessere giovanile tanto spesso centrale nella storia dell’heavy-metal. La prima strofa è, in questo senso, iconica:
Finished with my woman
'Cause she couldn't help me with my mind
People think I'm insane
Because I am frowning all the time
Sostanzialmente una canzone sulla depressione, “Paranoid”, che in una versione iniziale comprendeva anche un “The” nel titolo, è diventata l’unica grande hit dei Black Sabbath, grazie alla sua immediatezza. Su Spotify totalizza quasi il doppio degli ascolti del secondo brano più ascoltato della band, peraltro sempre nella scaletta di questo secondo album, “Iron Man”.
Arrivata al quarto posto nella classifica dei singoli nel Regno Unito, con ottimi posizionamenti anche in Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Svizzera, Austria e Sudafrica, “Paranoid” è, anche dopo decenni dalla sua prima pubblicazione, uno dei classici dell’heavy-metal, un brano che ricorre fra gli studenti di chitarra in cerca di cover con cui fare pratica e uno dei punti di svolta per l’intero genere, cristallizzandone, anche con un certo successo commerciale, un modello semplice e vincente. Gli stessi Black Sabbath utilizzeranno il medesimo approccio compositivo per molti altri brani, partendo da un riff di chitarra distorta e poi costruendo su questo nuove canzoni, anche ben più articolate di “Paranoid”.
È quest’ultimo il caso di un altro classico dell’album, la già citata “Iron Man”, che inizialmente venne chiamata “Iron Bloke”. Se “Paranoid” si ferma dopo 2:48, questa volta si sfiorano i sei minuti di durata. A rubare la scena è, ancora una volta, la chitarra elettrica distorta e assordante di Tony Iommi. “Iron Man” è un brano che già nel suo celebre inizio (affidato a otto battiti meccanici, una voce filtrata e una corda del Mi grave maltrattata) ci racconta dell’allontanamento della band dal blues. Quest’ultimo non prevede niente di meccanico o di artificiale, ma anzi predilige una narrazione fatta di sangue, sudore e lacrime. Se nel blues si racconta il proprio vissuto, qui siamo nel pieno della narrazione fantascientifica, un'avventura che comprende viaggi nel tempo, tempeste magnetiche, colpi di scena e tragiche morti:
He was turned to steel
In the great magnetic field
When he traveled time
For the future of mankind
In questo senso, “Iron Man” è forse il più credibile manifesto dell’heavy-metal, non solo per il titolo e non unicamente per l’assolo, dal trasporto morriconiano sul finale. "Iron Man" ha vissuto una seconda giovinezza con il famoso film Marvel omonimo del 2008, nel quale è stata inserita nei titoli di coda, anche se il parallelo con l'eroe dei fumetti si ferma al nome. Il canale televisivo VH1 ha premiato il brano come la migliore canzone heavy-metal di tutti i tempi, una di quelle decisioni che anche chi dissente non faticherà a giustificare.
Il terzo classico, e sia detto senza poter essere tacciati di generosità, è il maestoso brano in apertura, “War Pigs”. Marcatamente di protesta, schierato apertamente contro la guerra come anche altre canzoni dei Black Sabbath, doveva inizialmente incentrarsi sulla “Notte di Valpurga”, un'antica celebrazione pagana della primavera che avveniva la notte tra il 30 aprile e il 1º maggio e che ha una particolare valenza nel culto delle streghe. Geezer Butler considera la celebrazione una specie di Natale per i satanisti e proprio partendo dall’idea del male più assoluto ha sviluppato un brano contro la guerra. Anche quando il titolo è stato cambiato, perché ritenuto eccessivamente satanico, i riferimenti a streghe e maligno del testo sono rimasti intatti. Sono gli anni del Vietnam e, nonostante in Inghilterra il servizio militare non fosse più obbligatorio, molti giovani come Butler temevano di poter essere richiamati al fronte a combattere una guerra percepita come insensata.
Nei suoi otto minuti scarsi, che comprendono la coda intitolata “Luke’s Wall”, "War Pigs" ha tutto quello che si può chiedere a un classico dell’heavy-metal, sin dai suoi primi due minuti, con i fendenti di chitarra iniziali, lenti profondi e duri, e poi quel gioco di stop’n’go che ha fatto storia, con i versi iniziali giustamente entrati nelle antologie del rock:
Generals gathered in their masses
Just like witches at black masses
Evil minds that plot destruction
Sorcerers of death's construction
In the fields, the bodies burning
As the war machine keeps turning
Death and hatred to mankind
Poisoning their brainwashed minds
Dopo, però, un groove
che è una delle ultime rimanenze blues dell’album funge da pretesto per
aumentare la tensione, in attesa del primo assolo e soprattutto come
anticipazione della seconda parte, che ripercorre in buona sostanza la
prima, salvo evolvere verso un più articolato e psichedelico assolo di
Iommi, prima imperniato su una frase melodica e quindi, anche per
effetto delle iniezioni ritmiche di Bill Ward alla batteria, più
liberamente ed epicamente sviluppato in un canto tragico dello
strumento, secondo un epos che nella discografia dei Black Sabbath è meglio espresso solo nella già analizzata "Iron Man".
A
questi tre classici si uniscono altri cinque brani che non possono
forse stare alla pari ma, non per questo, mancano di motivi di
interesse.
In ordine di scaletta, il primo è “Planet Caravan”,
l’omaggio psichedelico dell’album cantato attraverso un amplificatore
Leslie. È idealmente accoppiabile con “Solitude”, che sarà inserita nel
successivo album “Master Of Reality” (1971), ma rispetto a quella è più
luminosa nei suoi riflessi allucinati e cosmici e più creativa nel
contesto del loro canzoniere, essendo il primo brano in cui la band
rinuncia ai panni di metallari per allargare gli orizzonti. La canzone
ha un suo culto e non a caso è stata coverizzata dai Pantera oltre a essere stata utilizzata in una missione Nasa nel 2020.
Altri
due brani sono invece meno famosi ma fondamentali per l’heavy-metal, a
livello di tematiche e di suoni. Il primo, “Electric Funeral”, è un
concentrato di immagini apocalittiche dettato dalle tensioni nucleari
dell’epoca, praticamente il prototipo di classici apocalittici come “Raining In Blood” e di tanti incubi atomici messi in musica metal negli anni Ottanta. I versi iniziali sono un modello copiato infinite volte:
Reflex in the sky
Warn you you're gonna die
Storm coming, you better hide
From the atomic tide
Flashes in the sky
Turns houses into sties
Turns people into clay
Radiation, minds decay
L’altro brano è “Hand Of Doom”, un esercizio di tensione e un nuovo show chitarristico, con in più un minaccioso giro di basso e un testo che descrive l’incubo della droga.
Come per “Electric Funeral”, anche in questo caso una serie di miglioramenti nelle tecniche di registrazione e un affinamento del concetto stesso di heavy-metal avrebbero forse permesso a questi brani di esprimere pienamente il loro potenziale, portandoli ai livelli del trittico “Paranoid”-“Iron Man”-“War Pigs”. Gli appassionati e tante band, però, hanno saputo individuare in queste composizioni un modello da studiare ed elaborare. La “Hand Of Doom” che gli Slayer e la “Electric Funeral” che i Pantera hanno registrato per il tribute album “Nativity In Black II” (2000), per esempio, suggeriscono quanto brani come questi siano nel Dna di tante formazioni successive.
A chiudere la scaletta due brani molto diversi fra loro: lo strumentale “Rat Salad” è una jam costruita attorno all’assolo di batteria di Bill Ward, secondo un modello interpretato da tante altre formazioni hard’n’heavy dell’epoca e oggi un po’ obsoleto (si pensi a “Moby Dick” dei Led Zeppelin o “The Mule” dei Deep Purple); “Fairies Wear Boots” (conosciuta nell’edizione statunitense come “Jack The Stripper/Fairies Wear Boots”) è un altro brano chitarristico, elaborato e avventuroso anche nel testo, della stessa risma di “Iron Man” e “War Pigs”, ma senza un riff leggendario e per questo fermo un gradino sotto.
Insieme all’esordio omonimo e al successore “Master Of Reality”, “Paranoid” ha contribuito a formare l’idea stessa di heavy-metal.
In quanto opera centrale di una trilogia, contiene qualcosa che appartiene ancora al primissimo periodo della formazione ma anche alcuni degli elementi che si possono ascoltare nel terzo, altrettanto importante, album. Se “Black Sabbath” ha segnato la nascita di un evoluto hard’n’heavy sulfureo e spettacolare ancora in contatto con il blues, “Paranoid” ha traghettato quel suono pienamente nell’heavy-metal, delineando anche alcune tematiche e soluzioni tipiche del genere, soprattutto nel reparto chitarristico, anticipando peraltro le maggiori aperture ad altre sonorità del suo successore. Ha inoltre sostituito molto dell’orrore gotico degli esordi con tematiche sociali quali guerra e dipendenze, pur affrontate con qualche ingenuità, e cercato nella potenza, e non nella velocità, la sua dimensione caratterizzante.
Quando si potrà avere sia potenza sia velocità, queste idee diventeranno il punto di partenza per una nuova ondata di metallari inglesi, e quando si vorrà esasperare solo l’aspetto lugubre dei lenti, distorti riff di Iommi, allora le varie “Iron Man”, “Electric Funeral”, “Hand Of Doom” diventeranno il punto di partenza per tante band stoner, sludge e doom. Pensare che gli Electric Wizard, titolari del capolavoro “Dopethrone” (2000), debbano il loro titolo proprio a una crasi fra “Electric Funeral” e un brano dell’esordio dei Black Sabbath, “The Wizard”, restituisce bene l’idea della fondamentale influenza della formazione inglese.
Unico vero successo in classifica per i Black Sabbath, "Paranoid" ha venduto nei decenni successivi oltre 4 milioni di copie solo negli Stati Uniti: un tipico caso di long seller, che ha resistito all’astio dei critici contemporanei.
Cinquant’anni dopo è da considerarsi non solo un classico dell’heavy-metal ma di tutto il rock degli anni Settanta, anche se la sua influenza sarà esercitata soprattutto nei due decenni successivi. E tutto questo nonostante la copertina, una foto scattata da Keith Macmillan di Roger Brown, sia stata concepita con l’idea che il seguito di “Black Sabbath” dovesse chiamarsi “War Pigs” senza aver nulla a che vedere con il titolo poi scelto, “Paranoid”. Sarà Osbourne a commentare a modo suo la cosa, in un’intervista del 1998 di Phil Alexander:
What the fuck does a bloke dressed as a pig with a sword in his hand got to do with being paranoid, I don't know, but they decided to change the album title without changing the artwork
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