Capolavoro è il disco prima del quale le cose andavano in un modo e dopo in un altro, la portata non misurabile in parametri del tipo “meglio” o “peggio”: l’intera geografia cambia, traiettorie vengono ridisegnate, nascono nuovi sottogeneri, dal nulla si crea una nuova scena, nuovi dresscode, nuove norme. Calculating Infinity è un capolavoro. Come Sad Wings of Destiny, Iron Maiden, Apocalyptic Raids, o in altri ambiti Pet Sounds, Suicide, Unknown Pleasures: come loro riesce a rendere plausibile un enigma altrimenti imperscrutabile; come loro verrà mitizzato, venerato, reso oggetto di innumerevoli tentativi di imitazione (tutti falliti), esattamente come loro resta e rimane un esemplare unico, con tutte le caratteristiche degli esemplari unici: indecifrabile e popolare, orecchiabile e commerciabile nonostante l’intrinseca complessità escheriana, perfetto in ogni dettaglio e infallibile come il meccanismo dell’orologio di Kant.
Esistevano predecessori – Iceburn, Hephaestus; Don Caballero, 2; Botch, American Nervoso; gli stessi Dillinger Escape Plan con l’EP omonimo d’esordio uscito nel 1997 – ma nessuno altrettanto capace di mescolare le carte in tavola in maniera altrettanto definitiva, al punto da teorizzare un suono nuovo che da allora in poi verrà chiamato mathcore; una rivoluzione copernicana. Nel momento stesso dell’uscita, Calculating Infinity diventa all’istante un classico, un totem, un nuovo dogma. È il ponte più radicale tra metal, hardcore, free jazz, grind, fusion; alla base una lucidità spietata, una totale chiarezza delle proprie idee che terrorizza. Tutt’altra storia rispetto all’escursione situazionista di John Zorn nei bassifondi con i Naked City, dove gli altri erano jazzisti cattedratici e un vocalist giapponese completamente sciroccato: questo non è un giochetto da dopolavoro prima di tornare alla cosa vera, qui si ridisegnano universi.
L’attacco di Sugar coated sour, il primo pezzo, è l’equivalente del riff stoppato di It’s a long way to the top if you wanna rock’n’roll, dei primi quindici secondi di Smells like teen spirit: qualcosa che abbiamo avuto davanti agli occhi da sempre, che nessuno prima è riuscito a svelare, e ora diventa una verità ovvia. Tutti i pezzi del disco sono così. Non esiste un solo passaggio meno che capitale, inderogabile, obbligatorio; arrivare alla fine, come sminare una bomba atomica. E non annoia, e subito dopo lo rifaresti.
Il successo è immediato, raccoglierne i frutti si rivelerà più lungo e molesto del previsto, il conto da pagare un salasso che non si augurerebbe al peggior nemico: Adam Doll, bassista e compositore principale delle musiche, rimane paralizzato dal collo in giù poco prima di entrare in studio, a seguito di un incidente stradale da Darwin Award (l’urto è lieve ma in quel momento si era chinato a raccogliere un CD caduto nell’abitacolo; spina dorsale fratturata). Le linee di basso verranno registrate da uno dei due chitarristi. Leggere le note di copertina in cui ringrazia la famiglia e gli altri del gruppo per averlo aiutato a superare “l’anno più difficile della mia vita” è reale e fa sentire in colpa per avere le ossa integre e ridefinisce il concetto di eufemismo fino alla base.
Nel tour mondiale conseguente all’uscita del disco Dimitri Minakakis, membro fondatore nonché tra i più grandi cantanti in senso assoluto, perde interesse e molla il gruppo in maniera amichevole per tornare a studiare: è la fine dei Dillinger Escape Plan come progetto con un senso, con una sola appendice. Ancora molto bene il successivo EP Irony Is a Dead Scene, le ultime musiche scritte da Adam Doll, Mike Patton alla voce, poi soltanto merda dopo merda dopo merda su disco; in compenso rimangono micidiali dal vivo fino alla fine, un vero spettacolo nonostante il materiale.
Si sono sciolti il 29 dicembre 2017 dopo l’ultimo concerto a New York City; Calculating Infinity il lasciapassare per tutte le invereconde porcate che verranno poi, comunque destinato a rimanere nel tempo fino alla smaterializzazione dell’ultimo device e oltre. (Matteo Cortesi)
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