Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

30/11/2011

Credit Crunch

C'è un mostro che si aggira per le banche. Ha chele potentissime in gradi di stritolare qualunque società. Crunch, crunch. Assorbe denaro come un magnete e non lo restituisce se non a carissimo prezzo. E' il Credit Crunch. Una parola che diventerà familiare come lo spread. Credit Crunch significa che non si fa credito a nessuno, che la liquidità in circolazione sta diventando come l'acqua nel deserto. Il fido bancario che copriva i costi di gestione delle aziende in attesa dei pagamenti da parte dei clienti è diventato un miraggio. L'azienda deve anticipare gli stipendi, l'Iva, le tasse sul presunto reddito del prossimo anno e ogni forma di commodity. Finché i soci o gli azionisti riescono a mettere mano al portafoglio regge, poi schianta.
Le banche hanno spesso più debiti che soldi e i debiti non si possono prestare. Si possono però mettere sul mercato sotto forma di bond. Il gioco funziona sino a quando i bond bancari venduti e rimborsati si equivalgono. Poi può saltare il banco. Le banche europee hanno venduto 413 miliardi di dollari di bond nel 2011. Hanno dovuto rimborsare 654 miliardi in scadenza. E' rimasto un cratere di 241 miliardi di dollari di mancanza di disponibilità (*). Le banche non sono più in grado di comprare titoli pubblici per salvare gli Stati e non riescono neppure a vendere i loro titoli.
Falliranno prima gli Stati o le banche? O entrambi? Nel frattempo muoiono le aziende a decine di migliaia per mancanza di ossigeno. Il debito aziendale è una catena di Sant'Antonio. La prima azienda della catena che va in asfissia finanziaria strangola la seconda che a sua volta strangola la terza e così via. Lo Stato chiede anticipi, le banche negano prestiti o li concedono a tassi usurai o ipotecando la azienda. Ma se muoiono le aziende chi pagherà i costi enormi della macchina dello Stato e gli stipendi dei bancari? Il debito non si mangia.
Negli scorsi anni sono stati concessi mutui a tasso variabile per le abitazioni anche al 90% del capitale. Moltissime famiglie che li hanno contratti non sono più in grado di pagarli. Le case vanno all'asta o alle banche. Chi abiterà queste case? Un'obbligazione bancaria, un titolo azionario? E gli sfrattati che hanno perso, oltre all'appartamento, la quota di capitale versata che fine faranno? Al Credit Crunch non si può reagire con la Taxation Crunch come si appresta a fare il Governo. Ogni organismo ha il suo punto di collasso e l'Itala ha già una forte tachicardia. E' necessaria una moratoria per i mutui delle prime case, l'abolizione immediata dell'anticipo dell'Iva e della tassazione sul reddito presunto delle aziende sull'anno successivo. L'Italia ha bisogno di respirare. Loro non molleranno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.
(*) fonte Dealogic/Ft

Fonte.

I conti non tornano!

Bloomberg ha svelato che la Fed ha "pompato" liquidità per 7700 miliardi di dollari (*) nel complesso, a tutte le istituzioni bancarie americane, per superare la crisi. Cioè, hanno premuto un tasto e hanno creato valore dal nulla. Lo hanno fatto di nascosto, per non allarmare i mercati. Così mi sono chiesto cosa sarebbe successo se tutti quei soldi, anziché darli alle banche, li avessero dati alla gente. In fin dei conti era la gente a non riuscire a pagare il mutuo, mica le banche.


  In america ci sono più o meno 528 milioni di persone. Sono quasi 15 mila dollari a testa. Pochini. Però il ragionamento, fatto così, non fila, perché stiamo dando 15 mila dollari anche ai neonati. Allora ragioniamo sul numero di famiglie, che sono circa 115 milioni. Fanno 67 mila dollari a nucleo familiare. Già meglio. Con 67 mila dollari regalati, anzi "pompati", una famiglia può avviare un'attività in proprio, lavorare e dare lavoro, facendo ripartire il volano dell'economia.
 Se poi restringiamo la "pompa" alle sole famiglie in crisi, coinvolte nei maledetti subprime, allora capite che la crisi sarebbe stata risolta in quattro e quattr'otto. Ma soprattutto: la gente ora avrebbe una casa e, molto probabilmente, un lavoro.

 Già, ma così poi sarebbero fallite le banche...

(*): da Milano Finanza

« Nel recente Global Financial Stability Report, il Fondo Monetario Internazionale ha aggiornato a 4.100 miliardi di dollari l’entità delle svalutazioni del totale delle istituzioni finanziarie su scala mondiale per il periodo 2007-10. Le perdite si riferiscono al totale delle istituzioni finanziarie. Limitando l’analisi alle sole banche, il Fondo stima perdite per il periodo 2009-10 di poco più di 1.600 miliardi di dollari, di cui più di un terzo nell’Eurozona (poco più di 900 miliardi di dollari ovvero quasi 700 miliardi di euro, l’8% del Pil nominale).»

Ma allora, se il totale delle istituzioni finanziarie ha perso 4100 miliardi, e per di più su scala mondiale, allora questi 7700 miliardi che la Fed ha dato alle banche nella sola America, a chi sono andati? Cioè, in parole povere: chi si è fottuto almeno 3600 miliardi di dollari?

Fonte.

Fukushima: il direttore della Tepco è gravemente malato.

Dopo il caso dell'attore che mangiò un'insalata di Fukushima e che adesso ha una leucemia, arriva un'altra notizia che fa tremare. Yoshida fu fra i primi ad intervenire sul luogo dell'incidente

Dopo il caso dell'attore che mangiò un'insalata di Fukushima e che adesso ha una leucemia, arriva un'altra notizia che fa tremare. Yoshida fu fra i primi ad intervenire sul luogo dell'incidente
Masao Yoshida, il direttore dell'impianto nucleare di Fukushima pesantemente danneggiato dallo tsunami dell'11 marzo, si e' dimesso dall'incarico per malattia. Ignote le motivazioni del suo ricovero in ospedale, mentre la societa' Tepco, che gestisce diversi impianti nucleari nel Paese, rifiuta di dare dettagli invocando la privacy. Il 56enne manager, accorso immediatamente sul luogo della grave crisi nucleare, dando indicazioni anche contrarie gli ordini dell'azienda poi rivelatesi esatte, verra' rimpiazzato da Takeshi Takahashi.

Senza dubbio il pensiero ricorre ai danni provocati dal nucleare. Yoshida è stato fra i primi ad intervenire dopo l'incidente di Fukushima, e adesso è in condizioni di salute molto gravi. Dopo il caso dell'attore che mangiò un'insalata di Fukushima e che adesso ha una leucemia, arriva un'altra notizia che fa tremare.

Fonte.

Meno male che il disastro giapponese era sotto controllo. Se avessero detto che stava andando tutto a puttane ci saremmo dovuti aspettare come minimo una serie multipla di sindromi cinesi!

Un po' di lattuga radioattiva bisognerebbe mandarla anche sulla tavola di Veronesi.

The sidewinder sleeps tonite


In una giornata pesante un po' di musica leggera è d'obbligo. Sempre di classe ovviamente.

29/11/2011

Meno treni, più armi: la death economy di Finmeccanica.

Credo che non abbia tutti i torti Alan D. Altieri quando parla della Death Economy, economia di morte, avvertendoci che nella storia umana "è sempre stato l’unico metodo conosciuto di espansione economica".[1]

Viene difficile spiegare altrimenti per quale ragione un'azienda a partecipazione pubblica come Finmeccanica (il 30,2% del capitale è posseduto dal Ministero del Tesoro) debba prosperare con la vendita di armi e sistemi di difesa e abbandonare invece il settore ferroviario e del trasporto pubblico locale.
Risale infatti a metà novembre l'annuncio della probabile dismissione di Ansaldo Breda e Menarini Bus perché, ha affermato l'amministratore delegato della holding Giuseppe Orsi, "i settori strategici sono aerospazio e difesa, elettronica per la difesa e la sicurezza" e non "energia e trasporti".[2]
AnsaldoBreda è l'unica impresa ferroviaria italiana rimasta, in grado di produrre veicoli completi e non solo componentistica: Fiat è uscita dal settore nel 2000, con la vendita di Fiat Ferroviaria alla multinazionale a base francese Alstom, mentre un'altra azienda storica, Firema, è in amministrazione controllata dall'agosto del 2010.
Siamo dunque all'ultimo atto dello smantellamento dell'industria ferroviaria italiana, che pure ha avuto un passato nobile. Con conseguenze pesanti sui posti di lavoro, come dimostrano gli scioperi e le manifestazioni di questi giorni dei lavoratori e delle lavoratrici delle aziende coinvolte.
Che AnsaldoBreda abbia qualche problema è un dato di realtà. Parlano da sole le puntuali contestazioni, da parte delle ferrovie danesi e di quelle olandesi, dei più recenti prodotti forniti dall'azienda del gruppo Finmeccanica.
Ma questo chiama in causa, semmai, il modo in cui l'azienda è stata gestita, come sono stati scelti i suoi gruppi dirigenti, perché è stato disperso il know-how e quindi, trattandosi di un'azienda a partecipazione pubblica, pone problemi squisitamente politici.
Ma non giustifica la sua dismissione e la scelta di centrare Finmeccanica sulla produzione di strumenti di morte.
Lo stesso scenario si ritrova nel settore della produzione di autobus: dopo la decisione di Irisbus (Fiat), nella persona del solito Marchionne, di chiudere lo stabilimento di Valle Ufita e di spostare tutta la produzione in Francia, Menarini Bus rimane l'unica fabbrica italiana di veicoli per il trasporto pubblico su gomma, se si escludono alcune realtà con quote di mercato veramente marginali.
Ma c'è di più. Spiega ancora l'ad di Finmeccanica: se i potenziali acquirenti esprimessero interesse anche per il settore del segnalamento ferroviario, in cui opera Ansaldo Sts, "potremmo prendere in considerazione la cessione dell'intero settore ferroviario".
È candidata alla dismissione dunque anche la quota (pari al 40%) di partecipazione della holding in Ansaldo Sts, azienda leader mondiale nella progettazione e produzione di apparati e sistemi per il controllo della circolazione dei treni e delle metropolitane.
Non occorre particolare dietrologia per capire che è questo il "gioiellino" su cui si potrebbe concentrare l'attenzione degli eventuali compratori, i quali, se "costretti" ad acquisire anche AnsaldoBreda e Menarini Bus, non si farebbero grandi remore a disfarsene il prima possibile.
Insomma, il paradosso della death economy è il seguente: l'Italia si confermerà uno dei maggiori e più raffinati produttori di armi e altri strumenti di morte, ma non progetterà e costruirà più nessun veicolo per il trasporto pubblico.
La contraddizione insanabile tra le esigenze del profitto capitalistico e i bisogni sociali si manifesta, ancora una volta, nella maniera più palpabile.
Ma non è niente di nuovo: è ciò di cui ci parla il movimento NO-TAV quando denuncia l'inutilità e la dannosità dell'opera che devasterà la Val di Susa. Un progetto sovradimensionato rispetto alla domanda di trasporto realisticamente prevedibile, pensato e difeso militarmente nel nome degli interessi delle grandi imprese di costruzione.
Ed ecco ancora il paradosso mortifero: ci sono i soldi per un'opera faranoica, ma non ci sono per far circolare autobus e treni. Il governo Berlusconi ha deciso, per il 2012, un taglio complessivo dei trasferimenti destinati al trasporto pubblico locale pari a 1655 milioni di euro. Il "salvatore della Patria" Mario Monti non ha ancora fatto sapere se e come intende rimediare. Sono a rischio di soppressione metà dei treni regionali circolanti nel nostro paese e decine di migliaia di posti di lavoro.

Gli ultimi giorni di Pompei.

Partiamo dal principio che l'italiano è un frustrato. Lotta per sopravvivere in ogni istante della sua giornata. Accumula, subisce, inghiotte, tutto in silenzio. Non capisce (o capisce troppo bene) e si adegua per ragioni di forza maggiore a una società matrigna. La scuola dei figli, il mutuo, il posto di lavoro. Gli rimangono pochi traguardi e come un cavallo rintronato trotta dietro alle carote della pensione, del tfr, dell'assistenza sanitaria, di un lavoro qualunque esso sia. Da tempo è un separato in casa della democrazia. Al suo posto decidono i partiti, i mercati, le borse con i quali non ha alcuna relazione. Swap, derivati, hegde fund, spread, bund, cds sono parole di un nuovo vocabolario. Una neolingua incomprensibile che gli fa paura, di alieni della finanza venuti a distruggere il suo mondo. E' un cane di paglia che può prendere fuoco in qualunque momento. L'italiano sente, con il suo istinto arcaico e animalesco, che è in arrivo una tempesta nella quale perderà quelle poche certezze che lo aiutavano a inghiottire rospi su rospi. Senza pensione, senza casa, senza lavoro. Anche un topo di campo se costretto in un angolo in mancanza di una via di fuga si rivolta e morde.
Il vulcano spento sta per riaccendersi ed è inevitabile. Che tipo di vulcano sarà? Dove si dirigeranno le sue colate di lava? Sul sistema finanziario? Sui partiti? Su qualunque cosa incontreranno? Bisogna porsi queste domande ora, prima che l'esasperazione diventi normalità e coinvolgere i cittadini nelle decisioni, dare degli esempi. Sperare che l'ordine pubblico possa essere mantenuto con le forze dell'ordine è utopico. Il vulcano è continuamente alimentato dalla mancanza di partecipazione degli italiani a ogni decisione che li riguardi. I referendum sono ignorati. Il finanziamento pubblico ai partiti e il nucleare (la prima volta) cassati dalla volontà popolare sono stati reintrodotti, e ora si ricomincia discutere della privatizzazione dell'acqua. Siamo in attesa del responso oracolare di un signore che ha come spalla un banchiere che ci dirà il 5 dicembre che sacrifici fare. E' come la Lotteria di Capodanno all'incontrario. Cosa c'entriamo noi in tutto questo? Qualcuno ci ha interpellato mentre i governi bruciavano il nostro futuro indebitando la nazione? Qualcuno ci ha spiegato perché a giugno eravamo fuori dalla crisi e adesso siamo in pre default? E perché questi incapaci siedono ancora in Parlamento pagati profumatamente? E perché i vitalizi parlamentari saranno aboliti solo dalla prossima legislatura e non da questa? E perché il cittadino non conta mai nulla? Il vulcano ribolle, ribolle...

Fonte.

Paura e delirio in Europa.

L'Osce si dice certa che l'Italia entrerà in recessione nel 2012. L'agenzia di rating Moody's lancia un catastrofico allarme di "default multipli" in tutta Europa. La Germania prepara un piano segreto per tornare al marco in caso di collasso generale. Collasso che per il governo britannico è ormai solo "questione di tempo", tanto da prevedere l'evacuazione dei propri cittadini da Italia e Spagna in caso di disordini. Scenari da incubo che dovrebbero allarmate i mercati e affondare le borse, che invece volano.
Chiediamo una spiegazione a Stefano Squarcina, funzionario europarlamentare della Sinistra Unita Europea.


Come si spiega l'euforia dei mercati di fronte a queste allarmanti previsioni? Il mondo finanziario è preda di una sindrome da sadismo?
In questo momento la dimensione politico-mediatica sta prevalendo su quella tecnico-finanziaria. Si sta creando il panico in maniera tale da poter più facilmente introdurre un più rigido governo europeo dell'economia che, in condizioni normali, non sarebbe mai stato possibile per via negoziale. Questo è il disegno: un disegno ideologico volto a imporre in Europa un ben preciso modello economico basato sullo smantellamento dello stato sociale, sulle privatizzazioni e sulla precarizzazione del lavoro. Il panico serve a spingere sull'acceleratore, e i mercati festeggiano perché questo disegno sembra sul punto di realizzarsi.

In che modo? Può spiegarci meglio?
Le borse salgono perché nelle ultime ore, dopo giorni di incertezza e tensione tra Berlino, Parigi e Bruxelles, circolano voci insistenti su un possibile accordo tra Francia e Germania che Sarkozy e Merkel dovrebbero annunciare nei prossimi giorni, prima del summit europeo del 9 dicembre. Pare che abbiano raggiunto un compromesso sulla modifica rapida del Trattato di Lisbona che accrescerebbe il controllo dell'Ue sulle politiche economiche dei singoli Stati. Si vocifera anche di un patto di stabilità intergovernativo tra i Paesi più forti dell'euro, ovvero Germania, Francia, Austria, Olanda, Lussemburgo e Finlandia, che creerebbe di fatto un euro di prima classe.

E che fine farebbero i Paesi di seconda classe che rimanessero fuori da questo club? Verrebbero abbandonati alla loro sorte uscendo dall'euro?
No, l'uscita di uno o più Paesi dall'euro è solo uno spauracchio. Lo scopo è sempre quello di aumentare la pressione politica sui Paesi più deboli affinché si allineino alle politiche economiche di austerità dettate dalla Ue.

E gli eurobond? Non erano questi l'unica soluzione alla crisi insieme al rafforzamento della Bce?
Dopo aver incassato il rafforzamento dei poteri dell'Ue, la Germania cederà anche su questo. Anche perché ormai sono gli stessi mercati a volere gli eurobond: banchieri e speculatori si sono resi conto che se crolla l'euro, alla lunga, ci rimettono pure loro.

Fonte.

Bancarotta pilotata o disordinata?

In finanza, quindi Piazza Affari, Londra, Tokyo e Wall Street, si parla di default multiplo già da giugno e infatti noi ne abbiamo parlato qui su Cadoinpiedi. C'è anche un programma che è iniziato quest'estate di ricerca da parte sia della Germania che della Francia, quindi diciamo i paesi al centro dell'Euro, per trovare una soluzione nel caso in cui Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Irlanda non ce la facciano. Un team di avvocati lavora già da diversi mesi e questo programma è quasi completo, il che vuole dire che c'è la possibilità che questo Euro si spacchi e che quindi una parte che diciamo è la parte del Nord Europa, quella che ha seguito una politica fiscale di maggiore austerità negli ultimi dieci anni, si ricostituisca intorno a un Euro che sarà un Euro forte. Il resto andrà in default . In Italia di queste cose non se ne è parlato perché non se ne è voluto parlare e in realtà se uno parlava con chiunque operava sulle piazze affari internazionali che l'Italia potesse andare in default era una possibilità. Certamente una possibilità abbastanza remota a giugno però oggi siamo quasi arrivati al momento cruciale.

Io quello che posso dire è quello che alcuni avvocati di questo team che stanno lavorando al possibile default mi hanno detto è che succederà un po' com'è successo in Argentina, potrebbero chiudere le banche per una settimana, i depositi potrebbero essere congelati, si potrà prelevare una certa quantità di denaro quotidianamente (in Argentina erano l'equivalente di 250 dollari) e in questa settimana di "congelamento" ci sarà la conversione dall'Euro alla moneta che si vuole scegliere, per esempio l'Italia potrebbe tornare alla lira. Però questo comporterà anche dei cambiamenti a livello pratico. Dopodiché i risparmiatori italiani chiaramente si ritroveranno le lire. Questo significa che se uno vive in Italia e non va all'estero non ha grossi problemi, al contrario la debolezza della moneta sarebbe un danno. Certo, chi ha i soldi fuori, chi ha gli Euro fuori, sarà avvantaggiato perché ci sarà una svalutazione della lira e il tasso di cambio sarà il tasso di cambio che verrà deciso chiaramente dalle autorità monetarie e anche dalle autorità europee. Credo sarà molto vicino al tasso di cambio al quale la moneta è entrata e quindi 1936,27 lire. Chiaramente ci sarà una svalutazione e quindi questi soldi varranno di meno alla fine della settimana di conversione di quanto valevano all'inizio.

Poi c'è questa notizia che l'Fmi smentisce gli aiuti all'Italia...

Questa notizia molto probabilmente è stata passata a chi l'ha pubblicata perché mercoledì c'è l'asta dei Btp decennali e quindi si voleva in un certo senso rassicurare i mercati. E infatti oggi FMI ha smentito qualsiasi aiuto. Questa mattina alla borsa di Londra ci sono state già delle reazioni abbastanza negative perché chiaramente si pensa che gli italiani l'abbiano pubblicata appositamente. E questa è una cosa gravissima perché dà proprio l'impressione anche della poca professionalità del mercato italiano. Del resto il problema fondamentale qui è un problema di fiducia, nel senso che non si ha più fiducia nei confronti dell'Euro. Pensiamo anche a quello che è successo giovedì scorso, con i tedeschi che non sono riusciti a piazzare i loro Bund, ma non solo questo. Il rendimento è arrivato ai livelli del rendimento dei Gilt, quindi dei buoni inglesi. I buoni inglesi hanno un solo elemento di vantaggio rispetto ai Bund: sono in sterline e non in Euro.
Ho paura che non ce la faremo a riprenderci, nel senso che questo multiplo default sia in realtà uno scenario molto possibile che vedrà non solo la Grecia e l'Italia ma anche la Spagna e il Portogallo (forse solo l'Irlanda si salverà perché in Irlanda si è fatta una politica completamente diversa e gli indicatori economici sono abbastanza positivi) uscire dall'euro e uscire in modo disordinato.

L'ultimo elemento di preoccupazione è questo processo di ricapitalizzazione imposto alle banche che è in preparazione a Basilea 3 e quindi quello che sta succedendo sui mercati adesso è anche una riduzione drastica della liquidità disponibile sui mercati. Il che vuol dire che abbiamo un effetto di sfiducia nei confronti dell'Euro che si sovrappone a una contrazione della liquidità, quindi ci sono meno soldi in circolazione e c'è anche meno volontà di investire in obbligazioni. Le banche vendono la maggior parte delle loro obbligazioni per poter ricostituire la loro liquidità. Per cui vediamo che la Bce per esempio nel mese di settembre ha acquistato quasi 600 miliardi di obbligazioni da parte di tutta quanta l'Europa di cui 100 dalla Francia e 100 dall'Italia e il rimanente dal resto dei paesi europei, perché le banche li scambiano in cambio per poter ricostituire il proprio contante. Quindi c'è una crisi anche all'interno del mercato delle obbligazioni che non riesce a assorbire tutto quello che praticamente gli viene dato. Abbiamo due elementi: la sfiducia ma anche un elemento strutturale che è appunto la mancanza di liquidità.

Fonte.

Il patatrac è dietro l'anglo, non capisco per quale motivo la gente sì accanisca a non volerlo riconoscere. Prima ne prendiamo atto meglio ne usciremo, magari con qualcosa di radicalmente innovativo rispetto al sistema attuale che sta mandando in pezzi le nostre vite.

Russia: back to the roots!

Mosca ha lasciato fare Usa e Nato in Libia, ma sulla Siria sta assumendo una posizione molto diversa. Mentre gli Stati Uniti muovono le loro portaerei e preparano i piani di una no-fly zone, la Russia invia a Damasco missili terra-aria S-300 e proprie navi da guerra per pattugliare le coste e intercettare forniture d'armi per le forze antigovernative che giungono via mare dalla Turchia e dal Libano.
Per sottolineare il proprio nervosismo rispetto ai nuovi piani di guerra occidentali, il Cremlino minaccia di contrastare lo scudo missilistico americano in Europa orientale schierando missili balistici tattici Iskander nell'enclave russa di Kalinigrad, tra Polonia e Lituania, e a Krasnodar, a ridosso del confine ucraino.
Nel frattempo Mosca accelera il progetto di restaurazione della nuova versione di Unione sovietica. Il 18 novembre i presidenti di Russia, Bielorussia e Kazakistan hanno firmato l'accordo per la costituzione, entro il 2015, della cosiddetta 'Unione eurasiatica', alla quale dovrebbero aderire anche Tagikistan e Kirghizistan.
Ma è sul fronte politico interno che la Russia pare indirizzata a un ritorno al passato. La rielezione di Vladimir Putin al Cremlino il prossimo 4 marzo appare scontata, ma la sua popolarità è in forte calo e questo potrebbe spingerlo ad assumere posizioni più in linea con il nostalgico vento che soffia sulla Russia.
Tutti i sondaggi per le elezioni parlamentari del 4 dicembre prevedono un crollo del partito putiniano Russia Unita, e un netto rafforzamento delle opposizioni comuniste e nazionaliste, entrambe su posizioni radicalmente antiamericane e antiliberiste.
Secondo l'ultima rilevazione dell'istituto Levada Center, alla Duma il partito di Putin rischia di scendere da 315 a 252 seggi, mentre il Partito comunista di Zuganov salirebbe da 57 a 94 seggi e i nazionalisti di Zhirinovsky da 40 a 59. Anche i socialdemocratici di Russia Giusta guadagnerebbero seggi, salendo da 38 a 44.
Secondo altri sondaggi, condotti dagli istituti russi Wciom e Fom, in termini di percentuali di voto Russia Unita scenderebbe addirittura dal 64 per cento delle elezioni del 2007 al 40 per cento: un tracollo di preferenze che, se si verificasse realmente, porterebbe il partito di Putin a soli 180 seggi sui 450 totali della Duma.

Fonte.

Durban, conferenza sul clima, chi rema contro?

Il mondo è distratto dalla crisi economica e ha accantonato quella ambientale. I governi pensano a come accendere il camino di casa mentre l'appartamento va a fuoco. La chiamano crescita. Dicono che è necessaria per il Pil, per il benessere. Non un solo Stato occidentale ha messo in discussione l'attuale modello di sviluppo. Anzi, nuovi alfieri (più affidabili) di questa economia moribonda stanno sostituendo i vecchi politici alla guida dei governi in tutta Europa. Da almeno 20 anni è in corso una guerra mondiale per l'energia, dai tempi di Bush padre e la guerra in Iraq. L'ultimo conflitto per l'oro nero si è svolto in Libia dove avvengono massacri nell'indifferenza dei nuovi colonialisti. Più energia, più consumi, più potere economico. In questo ventennio di sangue per il predominio delle risorse e di disastri ambientali, si sono susseguite le conferenze per il clima. Rituali, liturgie, prese per il culo. L'ultima fu quella di Copenhagen, la prossima si terrà da lunedì a Durban, in Sudafrica. Si dovrà approvare il "Green Climate Fund", un fondo di 100 miliardi di di dollari da qui al 2020, per aiutare i Paesi in via di sviluppo a combattere i cambiamenti climatici dovuti all'effetto serra. Gli Stati Uniti, che non hanno mai ratificato il protocollo di Kyoto, non hanno firmato l'accordo e con loro l'Arabia Saudita che vuole più contributi per i Paesi produttori di petrolio per la perdita di ricavi dovuti alle misure contro il surriscaldamento globale. Arabia Saudita e USA, il produttore e il consumatore. Obama si sta sbiancando, assomiglia sempre più a Giorgdabliùbush. Nel frattempo il costo del carbone sta diminuendo ed è sempre più utilizzato dalle economie in crisi. Stiamo segando il ramo su cui siamo seduti.
Le multinazionali, le vere grandi elettrici dei governi, vogliono mantenere lo status quo. Il loro obiettivo è il profitto. Greenpeace ha pubblicato un rapporto per Durban "Who is holding us back?" (Chi rema contro?). Chi sono queste multinazionali? "Soltanto negli Stati Uniti, ogni anno si spendono 3,5 miliardi di dollari in attività di lobby a livello federale. Royal Dutch Shell, Edison Electric Institute, PG&E, Southern Company, ExxonMobil, Chevron, BP e ConocoPhillips sono nella lista dei 20 più grandi lobbisti. L'organizzazione non governativa 350.org stima che il 94% dei contributi dell'US Chamber of Commerce siano stati usati per sostenere candidati che negano l'esistenza dei cambiamenti climatici. Associazioni di categoria di settori specifici, come l'American Petroleum Institute, la Canadian Association of Petroleum Producers, l'Australian Coal Association, l'Energy Intensive User Group in Sud Africa o le associazioni europee dell'acciaio e della chimica come la Cefic, la BusinessEurope e l'Eurofer hanno preso apertamente posizione contro le misure per tagliare le emissioni di gas serra e fatto campagne per l'utilizzo indiscriminato di fonti fossili di energia."
Si discute di debito economico, ma il vero debito lo abbiamo con la Terra che non ci farà alcuno sconto.

Fonte.

26/11/2011

Last caress

Prove (conclamate) di dittatura finanziaria.

1. L’inverno 2011-12 non si preannuncia caldo soltanto sul piano del conflitto sociale-politico, ma anche e soprattutto sul piano dei mercati finanziari e creditizi.
La situazione è aggravata paradossalmente dalla doppia velocità con cui il piano della governance istituzionale e finanziaria si muove. Quando si tratta di imporre politiche di riordino dei conti pubblici con manovre recessive del tipo lacrime e sangue, i tempi di decisione, in nome dell’emergenza, sono assai rapidi. Quando si tratta, invece, di coordinare politiche di intervento a sostegno dell’indebitamento degli stati colpiti dalla speculazione, allora i tempi si allungano a dismisura.
Tutto ciò non stupisce. Rientra nella solita politica dei due tempi. Un primo tempo di sacrifici, di subalternità alle logiche dominanti del potere economico-finanziario, in attesa di un secondo tempo, che non arriverà mai.  Aspettando la prossima crisi…
Abbiamo già visto una simile dinamica quando si è costruita l’unione monetaria europea, spacciata ideologicamente come il coronamento del sogno di una unione europea politica e sociale. Niente di più falso e oggi ne vediamo i perversi effetti. All’epoca, inizio anni ’90, l’ineluttabile necessità di ottemperare ai parametri di Maastricht (l’”emergenza di entrare in Europa”) ha segnato il turning point decisivo per la svolta nelle politiche di distribuzione del reddito (un travaso “istituzionalizzato” dai redditi da lavoro ai redditi da capitale) e per l’avvio irreversibile del processo di precarizzazione del lavoro e della vita. Oggi, l’emergenza  si chiama crisi del debito sovrano (l’”emergenza di restare in Europa”). E si tratta di una situazione che, a differenza di quella dei primi anni ’90, vede un vuoto di azione a livello istituzionale europeo.
I motivi che stanno alla base del costante gap decisionale delle autorità istituzionali europee e mondiali si possono riassumere nella volontà politica di “non decidere” (“laissez faire”). Con riferimento all’Europa, le strutture politico-istituzionali (Bce, Ecofin, Commissione Europea) hanno del tutto perso quella (scarsa) autonomia che potevano vantare qualche decennio fa. Nonostante le dichiarazione di Barroso (l’ultima pochi giorni fa, 21 novembre, tese a dimostrare la volontà della politica europea a risolvere la crisi, magari introducendo titoli pubblici europei (Eurobond) in grado di sostituire i titoli di stato nazionali), le istituzioni europee continuano ad essere docili strumento rispetto alle compatibilità dettate dall’oligarchia finanziaria e dalle (colluse) società di rating.

2. Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 trilioni di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 trilioni di dollari, le borse di tutto il mondo 50, i derivati 466 (otto volte di più della ricchezza reale). Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica di rilevare è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione.
Nel mercato bancario, dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500 (dati Federal Reserve). Al I° trimestre 2011, cinque società d’affari (J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche  (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati (dati OCC, Office of Comptroller of the Currency).
Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate.
Da questi dati, possiamo arguire che in realtà i mercati finanziari non sono qualcosa di imparziale e neutrale, ma sono espressione di una precisa gerarchia: lungi dall’essere concorrenziali, essi nascondono una piramide, che vede, al vertice, pochi operatori finanziari in grado di controllare oltre il 65% dei flussi finanziari globali e, alla base, una miriade di piccoli risparmiatori e operatori finanziari che svolgono una funzione passiva. Tale struttura di mercato consente che poche società (in particolare le dieci citate in precedenza) siano in grado di indirizzare e condizionare le dinamiche di mercato. Le società di rating (spesso colluse con le stesse società finanziarie), inoltre, ratificano, in modo strumentale, le decisioni oligarchiche che di volta in volta vengono prese.
Quando si leggono affermazioni del tipo “sono i mercati a chiederlo”, “è il giudizio dei mercati” e amenità del genere, dobbiamo renderci conti che tali cosiddetti mercati, presentati ideologicamente come entità metafisica, neutra e quindi oggettiva, non sono altro che espressione di un preciso potere.
La vera governance politica non sta più nelle istituzioni politiche, ma nella gerarchia finanziaria. Essere stato un fedele servitore negli anni ’90, ai tempi della costruzione monetaria e monetarista dell’Europa, non ha consentito alle istituzioni europee di mantenere voce in capitolo. Il servilismo si è trasformato in servitù.

3. La spirale della speculazione si muove nell’ottica del massimo guadagno a brevissimo periodo. La politica economica necessità di un arco temporale più lungo. Tale iato è uno dei fattori strutturali che rendono l’instabilità endemica. Fintanto che la governance finanziaria comanda la governance politica e fintanto che le istituzioni politiche, in nome del “laissez-faire”, operano perché tale primato permanga, la situazione di crisi economica non può essere risolta.
L’attività speculativa si concentra in quei settori economici dove si registra un aumento dei rapporti di debito e credito a maggior intensità di rischio. Dopo la crisi dei subprime, un terreno fertile si è rivelato il debito sovrano dei paesi europei: un debito (che di sovrano in realtà ha veramente poco) che si è alimentato proprio per coprire le falle del mercato finanziario in seguito alla crisi del 2008.
Il meccanismo della speculazione è il seguente. Alcune grandi società finanziarie iniziano a vendere i titoli di Stato dei paesi che, a loro giudizio (d’accordo con le società di rating) corrono il rischio di avere difficoltà di finanziamento. Ne consegue il deprezzamento del valore dei titoli, inducendo aspettative negative sul loro valore atteso nel futuro. I tassi d’interesse relativi all’emissione dei nuovi titoli inizia a crescere, ampliando il differenziale (spread) con l’interesse sui titoli di Stato considerati più sicuri (come quelli tedeschi). Tale tendenza si autoalimenta sino a creare un’emergenza (shock economy, direbbe Naomi Klein) che obbliga la Banca Centrale ad intervenire comprando i titoli di Stato in cambio di nuova liquidità monetaria e, allo stesso tempo, chiedendo e imponendo misure economiche drastiche volte fittiziamente a ridurre il deficit pubblico. E’ il segnale che la speculazione ha vinto. Tutto ciò è abbastanza noto. Ciò che è meno noto è che, in contemporanea, il valore dei titoli derivati che assicurano i titoli di Stato (Credit Default Swaps, Cds) cresce enormemente, in modo proporzionale all’ampliarsi dello spread sui tassi d’interesse. Ciò consente ai possessori dei Cds di poter lucrare elevate plusvalenze. Fin qui la spiegazione teorica. Facciamo ora i nomi degli attori di tale attività speculativa, con riferimento al caso italiano. Ad inizio 2011, Deutsche Bank, una delle 5 banche che detengono il controllo del mercato dei Cds, inizia a vendere circa 7 miliardi di titoli di Stato italiani (Btp). A seguito di ciò, il valore dei Btp italiani inizia a ridursi e lo spread con gli analoghi titoli tedeschi inizia ad aumentare sino a superare quota 300 per arrivare a metà novembre a oltre 500. I tassi di interessi sono passati dal 3% a oltre il 7%  nel giro di pochi mesi, con un aggravio nella spesa per interessi stimato in circa 8-9 miliardi di euro. Contemporaneamente, il valore dei Cds sul debito italiano sono aumentati di quasi 5 volte, consentendo così enormi guadagni in termini di potenziali plusvalenze.

4. Le linee di politica economica che vengono imposte all’Italia e sono state imposte alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna non hanno come obiettivo il risanamento dei conti pubblici, ma piuttosto lo scopo di sancire esplicitamente il primato del potere economico-finanziario su quello politico (dal controllo sociale politico-mediatico al controllo disciplinare della finanza). Il caso della Grecia è emblematico. Dopo quattro finanziare draconiane nel nome di un supposto risanamento, le previsioni sul Pil greco per il 2011 sono disastrose (- 5,3%), con il risultato che il rapporto deficit/pil, lungi dal ridursi probabilmente aumenterà. Il tentativo politico del governo Papandreu, anche per far fronte alle grandi manifestazioni di protesta, di indire un referendum popolare sulle politiche di austerità è durato lo spazio di un mattino. L’obiettivo di ripristinare una possibile autonomia della politica rispetto ai diktat economico-finanziari è fallito miseramente. La Grecia ha varato un governo di unità nazionale sotto l’egida dell’ex-vice-governatore della Bce, supino agli interessi della gerarchia finanziaria. Democrazia non fa rima con finanza. Non è una novità. Trenta anni di liberismo hanno fatto credere (a chi voleva e aveva interesse a crederci) che la gerarchia di mercato (ideologicamente denominata “libero mercato”) potesse essere compatibile con l’esercizio democratico, seppur formale, del voto. La crisi dei debiti sovrani ha stracciato questo miserevole velo. Il re è nudo, ma nessuno (soprattutto a sinistra) sembra accorgersene.

5. La situazione italiana, pur essendo diversa dal punto di vista economico, è invece assai simile dal punto di vista politico. L’Italia è diventato un obiettivo appetibile anche perché la sua credibilità politica è molto bassa. Il modo con cui il governo Berlusconi ha affrontato l’inizio della crisi ad agosto non ha fatto che incancrenire la situazione. Paradossalmente, il governo Berlusconi si è rivelato meno affidabile agli occhi dei mercati finanziari di quanto potesse esserlo un governo di centro-sinistra. A fronte di tale situazione, un nuovo governo tecnico, di solidarietà nazionale, con a capo Mario Monti, si è insediato. E’ noto che Mario Monti, stimato economista, è, oltre che presidente europeo della Trilateral, anche International Advisor di Goldman Sachs, una delle società finanziarie che controllano, come Deutsche Bank, il mercato dei Cds. Voci dei mercati finanziari (riportate dal quotidiano Milano Finanza) confermano che proprio Goldman Sachs, così come aveva fatto nei primi mesi dell’anno Deutsche Bank, abbia innescato l’ondata di vendite di Btp all’inizio di novembre, accelerando la crisi del governo Berlusconi. Berlusconi (come Papandreu) è stato così costretto a dimettersi non dalla politica italiana ma dai potentati economici finanziari.

6. E’ interessante notare che l’effetto Monti cominci a farsi sentire. Il Ceo di Deutsche Bank, Joseph Ackermann (nonché presidente dell’Iif, l’associazione delle grandi banche internazionali), il 20 novembre, in un convegno a Berlino organizzato dal quotidiano Suddeutsche Zeitung (quotidiano conservatore), ha dichiarato che la Deutsche Bank intende aumentare l’esposizione della banca tedesca sui titoli di stato italiani da un miliardo (ciò che era rimasto dopo la forte vendita dei Btp italiani di 7 miliardi nei primi mesi dell’anno) a 2,3 miliardi (Fonte Financial Times). Qualcuno potrebbe pensare che il cambio alla direzione del governo italiano abbia sortito i primi benevoli effetti. In realtà, si tratta semplicemente del segnale che la Deutsche Bank è passata all’incasso. Occorrerà verificare nelle prossime settimane se tale segnale verrà colto anche dalle altre grandi società finanziarie. Se ciò avvenisse, significherebbe che la pressione speculativa potrebbe non prendere più di mira l’Italia, ma potrebbe spostarsi altrove, magari in Francia. Ancora una volta, ciò conferma che la speculazione ha vinto e, al riguardo, c’è poco da stare allegri: è la semplice conferma che siamo comunque in ostaggio dei poteri finanziari. L’area dell’Euro è comunque ancora a rischio.

7. La svolta politica di Grecia e Italia, infatti, conferma l’ipotesi implicita che i mercati finanziari siano intoccabili. E’ sempre più imprescindibile la necessità di controbilanciare questo potere. Dal momento che le istituzioni politiche oggi dominanti non sono in grado di farlo, occorre che qualcuno se ne faccia carico. Ed è per questo che, all’interno dei movimenti sociali si sta ponendo un’altra alternativa, quella che viene denominata “diritto al default”.
Al riguardo, occorre sottolineare che le principali società finanziarie in realtà non vogliono il default degli Stati, anzi sarebbe per loro una grave minaccia, perché verrebbe meno la materia su cui innescare i processi speculativi (sarebbe come eliminare “la gallina dalle uova d’oro”). Pertanto vi sono (teoricamente) margini di manovra per ricontrattare la struttura del debito in chiave europea, con il fine di sottrarre al mercato dei capitali una quota dei titoli di Stato che oggi sono oggetto della pressione speculativa.
Tecnicamente una simile manovra è possibile, senza che ciò comporti effetti collaterali negativi per l’Italia, anche alla luce della nuova composizione del debito pubblico italiano. Fino agli anni 90, il 50 % del debito era detenuto dalle famiglie sotto forma di risparmi (investiti in BOT ad esempio), e il 95 % di esso era comunque detenuto in Italia (famiglie e banche). A quei tempi, perseguire il default sarebbe stato assurdo e autolesionista. Ma oggi, nel 2011, il debito pubblico è detenuto per l’87% da banche e finanziarie e per oltre il 55% all’estero. Secondo Morgan Stanley, una quota del 20% di questo 87% è costituita da fondi pensioni e fondi di investimento di proprietà delle famiglie italiane, seppur gestita e controllata dalle società finanziarie; di conseguenza, considerando il 13% dei titoli detenuti direttamente dalle famiglie, solo un terzo del debito pubblico italiano ha a che fare con l’attività di risparmio. Il resto è pura speculazione, nella maggior parte dei casi, internazionale. Proprio partendo da questi dati, è possibile attivare un default controllato, tramite una modifica, unilaterale e sancita per legge, delle condizioni di un contratto di debito e credito. A tal fine si può ipotizzare la possibilità di congelare una quota di questi titoli di Stato, sottraendoli all’azione speculativa delle grandi società finanziarie e sostituendoli con titoli di stato europei (tipo Eurobond), fuori dalla libera circolazione dei capitali (applicandovi un tasso di interesse ad esempio di 1,5 o 2 punti superiore a quello ufficiale), per poi scongelarli dopo un congruo numero di anni.  Una simile proposta ha sollevato parecchie obiezioni, delle quali due appaiono rilevanti. La prima afferma che in tal modo il valore dei titoli di stato italiani si deprezzerebbe con effetti negativi sui valori patrimoniali del sistema bancario-creditizio. E’ vero, ma non ci si dovrebbe preoccupare più di tanto: in primo luogo, perché già la costituzione del Fondo Europeo Salva Stati (ESFS) prevede per i soli titoli greci un deprezzamento a carico delle banche detentrici tra il 30 e il 60%; in secondo luogo, perché in tal modo anche il sistema bancario (e non solo noi, che lo stiamo già facendo) dovrà pagare la crisi. La seconda obiezione è più rilevante: di fronte all’ipotesi di congelamento, potrebbero sorgere difficoltà nel collocamento dei nuovi titoli di debito, con il rischio di dover pagare un interesse maggiore. E’ la probabile reazione dei potentati finanziari. A ciò si può rispondere con l’obbligo di detenere un certo quantitativo di titoli di nuova emissione come quota delle riserve bancarie, in modo da garantire, ope legis, la loro riallocazione e sarebbe necessario che la Bce, recuperando il suo ruolo istituzionale di prestatore di ultima istanza, negato dal Trattato di Maastricht, se ne facesse carico in prima istanza, acquistando titoli di Stato nazionali sul mercato primario (in cambio di moneta di nuova creazione) e non solo sul mercato secondario (ovvero acquistando titoli di Stato già in circolazione) . Non siamo forse, come ci dicono, in condizioni di emergenza?
La problematicità della proposta non è tanto “tecnica”, quanto politica: si tratta, infatti, di introdurre delle restrizioni alla circolazione nel mercato dei capitali e creare una nuova agenzia europea che abbia come funzione la detenzione dei titoli “congelati”. E tale nuova agenzia europea non potrebbe né dovrebbe essere la BCE, ma piuttosto un agenzia “politica” europea, finalizzata alla costruzione di una politica fiscale comune europea che detronizzasse la sovranità fiscale nazionale in tema fiscale e di spesa pubblica. Veniamo qui, infatti, alla questione politica principale che ha favorito lo scatenarsi della speculazione finanziaria europea: la mancanza (voluta) di un’unica politica fiscale europea, con un unico budget ed un’unica legge finanziaria. Forse, in un contesto in cui diritto di signoraggio e legge di bilancio sono posizionati allo stesso livello di governance, l’attività speculativa avrebbe avuto meno gradi di libertà per agire. Ma questa è un’altra storia.

Reti sociali.

Una volta c’era la privacy, poi arrivò Facebook. Se vuoi informarti sulla vita di tua figlia e sui suoi gusti sessuali devi leggere la sua pagina come fanno tutti gli altri. Se hai tempo puoi scorrere i commenti (ma forse è meglio di no) e farti un giro sulle sue amicizie. Il riserbo lo si tiene in famiglia. In Rete si spiattella tutto. I tuoi figli non ti diranno mai con chi sono usciti e perché sono tornati alle tre di notte, ma lo scriveranno subito sulla loro pagina personale dopo aver twittato con qualche centinaio di follower. Nei casi senza speranza troverai anche le loro imprese su Youporn. E’ come uscire nudi di casa e vestirsi per andare a letto. E’ trendy, e anche un po’ da coglioni, far sapere i cazzi nostri a livello planetario e metterli a disposizione gratis delle aziende di marketing.

Fonte.

25/11/2011

Ripartiamo dal "no" a Monti.

Questo non è un governo tecnico ma uno dei più politici e ideologici tra i governi che abbiamo mai avuto. È il governo che più nettamente sposa l'ideologia neoliberale. Perché allora dovremmo baciare il rospo, come sostiene Revelli? Mi dispiace tanto, ma questa volta non sono proprio d'accordo con il mio amico Marco Revelli. Io non bacio il rospo e mi preparo a fare tutto quel che mi è possibile per mandarlo via. Confesso che non sono sceso in piazza con la bandiera tricolore per festeggiare la caduta di Berlusconi. Ho passato questi ultimi 17 anni a combattere Berlusconi, la sua cultura, le sue prepotenze. Prima ho fatto lo stesso con il suo maestro Craxi. Eppure la sera del 12 novembre non l'ho sentita come una liberazione. I paragoni storici che si stanno facendo mi paiono fuorvianti. Come Revelli non vedo nessun 25 aprile in atto. Non mi risulta che il governo di allora fosse di larghe intese tra Cln e Repubblica sociale. Ma non vedo nemmeno un chiaro 25 luglio, se non per l'annuncio del governo Badoglio: "La guerra continua".

Se proprio si deve ricorrere ai paragoni storici, bisogna tornare all'Europa del 1914. Al suicidio di un continente nel nome della guerra e del nazionalismo, e alla corrispondente dissoluzione di gran parte della sinistra socialdemocratica e dei sindacati. Oggi per fortuna non siamo a quel punto, ma è sicuramente in atto un suicidio e una dissoluzione dell'Europa e della sinistra in essa. La guerra del debito, scatenata in tutto il continente, sta mettendo in crisi democrazia e conquiste sociali. Tutti i governi europei sono soggetti alle stesse scelte e agli stessi indirizzi economici. Poi, benignamente, questa tirannia finanziaria ci concede la facoltà di accettarla. Ma non si può dire di no.

A me tutto è più chiaro da quando Marchionne disse agli operai di Pomigliano che se volevano lavorare, nell'epoca della globalizzazione, dovevano rinunciare a tutti i loro diritti. E aggiunse che potevano solo votare sì al referendum sul suo diktat, perché il no avrebbe comportato la distruzione dell'azienda. Marchionne, fino a poco tempo prima incensato come borghese illuminato, così come oggi Monti, ottenne il consenso pressoché unanime del parlamento italiano.

Il governo Monti è espressione diretta del grande capitale italiano e internazionale, con suoi intellettuali organici di valore. È la prima volta che questo avviene nella storia della nostra repubblica ed è sicuramente un segno della crisi totale della classe politica. In questi venti anni il padronato italiano ha alternato politiche di rottura populista e politiche di concertazione democratica. L'obiettivo era sempre lo stesso: contenere il salario ed estendere flessibilità e precarietà, allargare la sfera del profitto con le privatizzazioni. Quando le condizioni lo permettevano e si sentiva particolarmente forte, il padronato italiano ricorreva a Berlusconi e alla destra. Se la risposta sociale e politica cresceva, allora si tornava alla concertazione. Quest'ultima ammorbidiva le scelte, le rallentava, ma non ne fermava la direzione di fondo. La novità è che oggi il sistema economico dominante salta qualsiasi mediazione politica, non si fida più non solo di Berlusconi, ma anche dell'opposizione e decide di agire in proprio. Altro che governo tecnico, questo è uno dei più politici e ideologici tra i governi della repubblica. È il governo che più nettamente sposa l'ideologia neoliberale.

La crisi economica mondiale ha travolto la ridicola classe politica italiana. Sarà un puro caso, ma tutti i paesi piigs sono stati posti rapidamente sotto controllo. Se si fossero messi assieme, se avessero fatto una comune politica del debito, come i paesi dell'America Latina, banche tedesche e Fmi sarebbero dovuti venire a patti.
Anche a me fa piacere la sobrietà e lo stile del nuovo governo, contrapposto ai nani e alle ballerine, ai bordelli, alle barzellette che facevano piangere, al degrado culturale e civile che ispirava quello precedente. Tuttavia la mia esperienza sindacale mi ha insegnato che il padrone per bene può farti molto più male del padrone sfacciato e impresentabile. Questo governo ha un mandato chiaro, quello della Bce. È il mandato di quel capitalismo internazionale che pensa di affrontare la sua stessa crisi con riforme neoliberali, come negli ultimi trent'anni. Con la solita ipocrisia dell'equità e del rigore si mettono in discussione ancora una volta le pensioni dei lavoratori, la tutela contro i licenziamenti, i contratti, i diritti punto e basta. Si risponde al referendum sull'acqua con le privatizzazioni e si annuncia quella mostruosità giuridica ed economica del pareggio di bilancio in Costituzione. Si risponde agli studenti in sciopero esaltando la riforma Gelmini. Sì, certo, la sobrietà del governo produrrà dei contentini. Un po' di privilegi di casta politica verranno tagliati, ma solo per giustificare i sacrifici sociali. Si annuncia che non ci sarà massacro sociale. Ma questo è già in atto. Sono la crisi e la recessione che stanno producendo una drammatica selezione sociale. Il governo può anche non volere il massacro, ma se opera con riforme neoliberali lo agevola e lo accresce.

È la ricetta neoliberista che è destinata a fallire. Perché non si riuscirà, per quanti sacrifici si impongano, a far ripartire il meccanismo della globalizzazione. Per questo sarebbe necessario prendere atto della crisi di sistema, cosa che Monti nella sua relazione programmatica si è ben guardato dal fare. E costruire una vera alternativa. Il debito non può essere pagato da un'economia in recessione, pretendere di farlo a tutti i costi significa aggravare la recessione e appesantire il debito. È successo alla Grecia e succederà all'Italia, nonostante la professionalità di Monti. Bisogna partire dall'opposizione al nuovo governo per costruire un'alternativa economica, sociale e politica al programma della Bce e del capitalismo internazionale. Sarà dura, ma si riparte dal no a questo governo.

Fonte. 

Genova G8: assolti De Gennaro e Mortola. Il fatto non sussiste.

Il fatto non sussiste. La Cassazione salva l'ex capo della polizia, il potente Gianni De Gennaro e l'ex capo della Digos genovese Spartaco Mortola, che nel frattempo ha fatto carriera e ora è a Torino come capo della polizia ferroviaria. I due erano accusati, ed erano stati condannati, per aver indotto un loro collega a dire il falso davanti ai giudici.
Qui trovate tutta la vicenda in un articolo di PeaceReporter.
La Cassazione giudica di diritto e non nel fatto, quindi bisognerà attendere le motivazioni della sentenza annunciata. Ma. Ma ci sono intercettazioni. Ci sono fatti. "In primo e secondo grado - ha affermato l'avvocato Laura Tartarini - i giudici hanno stabilito la rilevanza della falsa testimonianza di De Gennaro. Oggi, invece, la Cassazione ribalta la sentenza di condanna. Per noi è incomprensibile".
Com'è possibile che si arrivi a un ribaltamento così evidente di sentenze precedenti che si poggiano su elementi forti, robusti. A tal punto da far pronunciare sentenze di condanna su un uomo così potente, come Gianni De Gennaro (oggi 'capo' dei servizi segreti) ? Sospendiamo la lettura più naturale di un fatto del genere e diamo spazio a un'altra domanda. Ma com'è possibile che in dieci anni la politica non sia stata capace di affrontare il tema dei fatti di Genova, soprattutto nel centrosinistra e anche nella sinistra oggi extraparlamentare?
La commissione di inchiesta parlamentare è stata per anni merce di scambio, o strumento tattico. Inserita nel grande tomo del programma del governo Prodi non fu mai attuata, tradendo la promessa elettorale (se non fosse bastata la giusta ansia di verità). Degli anni della destra c'è poco da dire fra un Fini al forte di San Giuliano, gli Scajola smemorati che appaiono, scompaiono e riappaiono come ago della bilancia, vergognosamente, gli Ascierto e quanti si sono rallegrati delle violenze di quei giorni, violenze in divisa.
Gli ultimi fatti di Piazza San Giovanni a Roma. Viene da pensare a quelle ore con alcune dichiarazioni nei blog dei poliziotti, nei forum: il nostro comportamento ha contribuito a chiudere la ferita di Genova, alcuni scrivevano.
Dubitando di una lettura così debole, e insipida, la sentenza di Cassazione è nuovo sale gettato sulle ferite di quanti credono ancora che la legge debba essere uguale per tutti.
Abbiamo, con tutta evidenza, un grande problema politico. Un problema di gestione dell'ordine pubblico. Un problema di responsabilità precise che vengono cancellate, un problema di memoria. Un problema nel legiferare, perché ancora non abbiamo - passati dieci anni - leggi che permettano il riconoscimento dei singoli agenti di polizia impegnati su piazza, o qualche decente norma che vieti l'uso di gas lacrimogeni vietati da convenzioni di guerra.
Dieci anni. Eppure "Il fatto non sussiste".

Fonte.

Chissà come mai i bastonatori fanno sempre carriera nella nostra "democrazia".
Belìn che schifo!!!

Egitto, il popolo contro tutti.

Cominciamo dall’inizio, dalle origini delle manifestazioni che da 4 giorni stanno infiammando le strade di Piazza Tahrir. Dopo la caduta di Moubarak, prese in mano il governo provvisorio il primo Ministro Shafik. Durante questo periodo tutti i partiti crearono una proposta di decreti che, dietro assenso del governo, sarebbero poi stati inseriti nella nuova costituzione. Tra gli esponenti dei partiti, Ali Stelmi, attuale Vice Primo Ministro ed ex Segretario del Partito del Waft.
Due mesi fa, quest’ultimo, presento’ alla Giunta Militare la proposta firmata da tutti i partiti politici, ma non fu subito accettata. O meglio fu richiesto di apportare delle modifiche. La Giunta Militare chiese di aggiungere due decreti che: 1)  proteggessero e rendessero intoccabile il Bilancio economico delle Forze Armate 2) rendessero la Giunta Militare una sorta di secondo capo di stato. Ali Stelmi presento’ le modifiche ai partiti solamente 1 settimana fa, 2 settimane prima delle elzioni parlamentari. Nessuno accetto’ di firmare la proposta e cominciarono le polemiche anche televisive sull’accaduto.
Le Forze Armate accettarono quindi un compromesso: modificare il decreto e far si che ogni discussione sul Bilancio Militare fosse discussa a porte chiuse nel Parlamento, e che la Giunta Militare rientrasse nella sua posizione originaria e non di parita’ con il Capo dello Stato.
Tutti i partiti firmarono la proposta, e sembrava finita li’ finquando il Partito dei Fratelli Musulmani discusse un’altro decreto, relativo stavolta alla denominazione del Paese. L’Egitto doveva essere definito PAESE DEMOCRATICO  e non PAESE CIVILE.
Fu accettata anche questa modifica e la proposta fu nuovamente approvata. Solo che improvvisamente il Partiti dei Fratelli Musulmani ed il Partito Nour dei Salafiti, dopo aver firmato la proposta, si dissero contrari ad essa ed invocarono una manifestazione milionaria per lo scorso Venerdi’. Essendo il Partito dei Fratelli Musulmani il piu’ probabile vincitore delle elezioni parlamentari, moltissimi si presentarono in Piazza Tahrir e alla manifestazione . La giornata fu tranquilla e alle 19 Salafiti e Fratelli Musulmani tornarono a casa, insieme con i manifestanti.
Che accadde poi? Circa 200-300 persone decisero di passare la notte in Piazza. Tra queste persone molti feriti della Rivoluzione che protestavano con la loro presenza, il fatto di non aver ricevuto nessun indennizzo ne aiuto economico dalla fine della rivolta ad oggi. E qui entra di scena la Polizia, ordinaria e militare, che con la violenza, e' stata la causa di tutto cio’ che sta accadendo. Non apprezzando l’idea dei manifestanti di rimanere in Piazza Tahrir, la Polizia ed i militari aggredirono, spararono, picchiarono, diedero fuoco.
Il Popolo  da ogni parte dell’Egitto, si e’ mobilitato e da Sabato continuano ad arrivare autobus pieni di persone disposte, ancora un avolta a difendere la Rivoluzione e chiedere la liberta’. Alla fine le Forze Armate hanno fatto cadere la loro maschera e si sono mostrati per quello che erano e sono relamente. Brutte, bruttissime copie della Polizia del vecchio regime. Certo ormai non c’e’ nessuna differenza tra il vecchio ed il nuovo regime. La Polizia non e’ cambiata, il sistema non e’ cambiato, il governo ha solo cambiato nome e personaggi.
TUTTO E’ RIMASTO UGUALE.  Se prima la Polizia agiva con l’appoggio del regime di Moubarak, oggi agiscono manovrati da tutti: nuovo governo, Forze Armate, vecchio regime, e chi piu’ ne ha piu’ ne metta. A nulla e’ valsa la pazienza, a nulla sono valsi gli slogan “El Shab we El Ghish Id Wahida” (Il Popolo e le Forze Armate una mano sola) che gridavano i ragazzi di Piazza Tahrir.
Il Popolo ci ha provato. Noi tutti ci abbiamo provato. Abbiamo avuto pazienza, abbiamo dato tempo al tempo, abbiamo ricominciato a lavorare e continuare a vivere con un occhio sulla nostra vita e l’altro sulla Rivoluzione.
Ma non e’ servito a nulla.

In 4 giorni sono morte 40 persone. Esseri umani con famiglia, forse figli, amici, che per un ideale si trovavano in Piazza Tahrir dove incredibilmente il tempo e’ tornato indietro. Dove da 4 giorni guardiamo in TV scenari che ricordano la Rivoluzione, i primi giorni, quando non si sapeva che fine avremmo fatto. In strada i manifestanti – appartenenti al Popolo stavolta, e non delinquenti pagati a suon di soldi - hanno mostrato le armi usate dalla polizia (anche quella militare) per aggredirli: lacrimogeni americani, pallottole vere e a salve, bombole di gas nervino e paralizzante di provenienza israeliana. I morti in piazza sono stati tutti uccisi, con colpi alla testa, o al corpo. Esattamente come accadeva durante la Rivoluzione del 25 Gennaio.
I ragazzi si scrivono sulle braccia i numeri di telefono dei famigliari, in caso dovessero morire.
Ieri il Governo di Sharaf ha chiesto le dimissioni, che non sono state pero’ accetate dalla Giunta Militare. Continuano ad arrivare in Piazza Tahrir esponenti dei partiti politici, ma il Popolo continua a mandare tutti via a suon di sassate. Ieri e’ stata distrutta l’auto del Dr. Mohammed El Bethaghy, Segretario generale del Partito dei Fratelli Musulmani.
La rete si sta mobilitando per la Piazza: dappertutto numeri di telefono e punti di incontro per portare ai manifestanti tutto il necessario: coperte, cibo, acqua. Se siete al Cairo e volete aiutare i manifestanti potete comunicare con i volontari iscrivendovi a questo gruppo su FB #TahrirNeeds collection points dove ci sono recapiti ed inidirizzi utili ed ospedali per le donazioni del sangue La Piazza grida: “Il Popolo chiede le dimissioni della Giunta Militare”.
Il Popolo questa volta e’ solo contro tutti.

In bocca al lupo agli egiziani, non fosse altro per il coraggio con cui stanno conquistando il proprio futuro.

24/11/2011

L'altra storia della guerra in Libia.

La guerra in Libia è finita. Questo almeno raccontano, o non raccontano, i media internazionali. Il dittattore è morto, la democrazia ha trionfato e adesso si lavora alla costruzione della nuova Libia. Ci sono, però, voci fuori dal coro. Una di queste è quella di Paolo Sensini, saggista e scrittore, autore del libro Libia 2011, edito da JacaBook. Sensini, intervistato da PeaceReporter, racconta le sue indagini sui motivi reconditi di quella che ritiene un'azione volta ad eliminare Gheddafi e delle motivazioni che ne hanno deciso la fine. Dopo aver visto di persona la situazione, in quanto membro della Fact Finding Commission on the Current Events in Libya.

Com'è la situazione in Libia?
Il caos, con il Paese - come diceva qualcuno - riportato all'età della pietra e sull'orlo di una crisi umanitaria. In un Paese, piaccia o meno, che prima era un'eccezione positiva nella regione. Adesso si assiste a una sorta di guerra di tutti contro tutti, dove la situazione è degenerata non solo tra i ribelli e i lealisti, ma anche all'interno dello schieramento degli insorti. Non so se era stato previsto o meno, ma di sicuro era largamente prevedibile. Arrivano, ogni giorno, notizie di scontri armati tra fazioni per l'egemonia all'interno del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt). Come ho ampiamente documentato nel libro, tra queste fazioni, la componente preponderante è quella legata ad al-Qaeda e all'islamismo fondamentalista. Rispetto ai lealisti, invece, si è avuta notizia negli ultimi giorni di un forte contingente (circa 33mila uomini) che si è ricompattato e ha dato battaglia a Zawiah e in altre zone. E credo che questa sarà una fase molto lunga.

Questo quadro potrebbe essere dovuto alla mancanza, come già accaduto in Iraq e in Afghanistan, di una strategia di lungo periodo, che dovesse prevedere gli scenari una volta che il regime fosse stato rovesciato?
Il progetto c'era come c'era anche in altri conflitti. Ed era proprio quello di gettare nel caos un Paese del quale tutti conoscevano la composizione sociale. Un sistema tribale nel quale, a differenza di quanto si è raccontato, esisteva un equilibrio differente da quella che secondo parametri nostri chiamiamo dittatura.
E' più corretto parlare di un primus inter pares, che per altro non ricopriva alcuna carica politica ufficiale. Gheddafi era la guida, una figura carismatica, che in quanto leader della Rivoluzione teneva in equilibrio un mondo di un centinaio di tribù differenti. Gli analisti, tutto questo, lo sapevano benissimo. Dal mio punto di vista l'obiettivo, fin dall'inizio, era questo caos. Il primo gruppo di ribelli, molto ridotto, a Bengasi si sono inseriti in un colpo di Stato classico. Se un gruppo armato assalta edifici pubblici, in qualsiasi Paese, esercito e polizia reagiscono. Gli analisti sapevano dall'inizio che a questo gruppo mancava la forza di imporsi alle tribù in Libia. Quelle della Tripolitania e del Fezzan mai avrebbero accettato, e mai accetteranno, di essere dominate da questo piccolo gruppo della Cirenaica, che rappresenta circa il 25 percento della popolazione libica. Quando si è deciso di appoggiare questa cosiddetta rivolta, il piano più che evidente era quello di destabilizzare un Paese.

Secondo lei per quale motivo si è deciso di liberarsi di Gheddafi?
Di sicuro le sue scelte in campo petrolifero hanno influito nella decisione di rimuoverlo. A culmine di una lunga storia, che inizia con la rivoluzione del 1969 e con la nazionalizzazione di gas naturale e petrolio. Come c'entra di sicuro la monumentale opera idrica realizzata, negli anni Ottanta, il Grande Fiume artificiale, che fa gola a molti. La partita più grossa però, a mio avviso, come dimostro nel mio libro, è la politica di Gheddafi con l'Unione Africana. Della quale il Colonnello era l'artefice, il motore propulsore. Lavorando a un'unione doganale africana, con una banca centrale e un fondo monetario africano, in una prospettiva unica nella storia di dare all'Africa una propria politica di sviluppo lontana dalla politica colonizzatrice delle grandi potenze. Lavorava già alla moneta unica: il dinaro d'oro. Un'iniziativa già in fase avanzata che ora viene affossato in modo decisivo. Il primo passo era già stato compiuto, togliendo dalla circolazione il Franco CFA, utilizzata da quattordici ex colonie francesi. Mossa per la quale il presidente francese Nicholas Sarkozy accusò Gheddafi di terrorismo finanziario. Con il solito atteggiamento per il quale all'Europa è riconosciuta la dignità politica di creare una moneta unica, mentre all'Africa no. Un altro esempio, in questo senso, è quello del satellite RASCOM 1. Anche in questo caso la Libia era stato il motore dell'iniziativa che liberava gli stati africani dalla necessità di affittare i satelliti altrui.
Queste e altre iniziative di indipendenza sono state il motivo per rovesciare Gheddafi, compreso la gestione del petrolio.

In questo piano,  la morte di Gheddafi rappresenta un incidente di percorso o una strategia precisa?
E' stato l'obiettivo principale, fin dall'inizio. Lo dimostrano i bombardamenti. La missione Nato è stato un intervento armato a tutti gli effetti, altro che Responsibility to Protect, come nel mandato per la protezione dei civili. Scientemente, dal primo momento, si è perseguito l'obiettivo di eliminare Gehddafi. E' stato subito ucciso un figlio del Colonnello e i suoi nipotini, ed è stata colpita Bab el-Azizia - il luogo della sua residenza abituale - decine e decine di volte.
Noi stessi, con la Commissione, abbiamo potuto verificarlo di persona. Una strategia che è terminata solo con la morte di Gheddafi. Anche in quell'occasione, inoltre, non è stato catturato dai ribelli. La sua colonna in fuga è stata bombardata da caccia inglesi e francesi con il supporto di droni, senza che ci fossero civili in pericolo. La morte di Gheddafi era l'obiettivo principale della missione, che fa cadere la foglia di fico della protezione dei civili. La Nato è intervenuta, dall'inizio, per mutare lo scenario politico del Paese. Provocando vittime tra i civili, anche se si diceva che si interveniva per proteggerli, andando ben oltre un mandato che prevedeva solo una no fly zone. Non a caso la missione è finita con la morte di Gheddafi. Passando a quel punto il testimone al Qatar, vero artefice del cambio di regime, prima con al-Jazeera a livello mediatico, e poi a livello militare con le armi e i combattenti che sono stati fatti affluire in Libia.

Qual'è il ruolo dell'Italia in tutto quello che è accaduto?
L'Italia non esce bene da questa vicenda. Un legame importante, cominciando dal ruolo di fornitore energetico della Libia per l'Italia con la pipeline che collega Mellitah a Capo Passero. Che era una delle misure contentute nel Trattato di Cooperazione e Amicizia disatteso e tradito in modo fraudolento dall'Italia. E l'Italia non ne esce bene. A cominciare dal fatto che è stato disatteso l'articolo 11 della Costituzione, a partire dal presidente della Repubblica Napolitano, che della Costituzione è garante. Come lo è dei trattati internazionali e anche lui ha firmato il Trattato di Amicizia. Che piaccia o meno chiudeva un contenzioso storico. Due anni dopo siamo coinvolti in un conflitto, guarda caso, per l'ironia della storia, esattamente cento anni dopo l'occupazione italiana della Libia.

Cosa crede che accadrà in Libia?
A Bengasi, qualche giorno fa, sul palazzo di Giustizia, campeggiava la bandiera di al-Qaeda. Jalil, presidente del Cnt, lo ha dichiarato: tutte le leggi che verranno promulgate non dovranno essere in contraddizione con la sharia, con tutto quello che questo comporta. Decisamente un passo contraddittorio per un Paese nel quale si è intervenuti per portare la democrazia. A Tripoli, il comandante della piazza militare è Abdelhakim Belhaj, fondatore del Gruppo Islamico Libico Combattente, una delle personalità di riferimento di al-Qaeda, come sostenuto dagli stessi statunitensi che lo hanno arrestato in Iraq prima e in Afghanistan dopo, facendolo passare da svariate carceri tra le quali Guantanamo. Questo è il quadro che emerge, con un islamismo radicale che Gheddafi ha tentato di contenere. E del quale poco si sa in Italia. Io ho lavorato su questo aspetto, dedicandogli un capitolo del mio libro, con studi che arrivano dall'accademia militare Usa di West Point, dai quali emerge che il numero più consistente di attentatori suicidi - in percentuale rispetto alla popolazione - proviene dalla Cirenaica. Con la variabile che un arsenale enorme e moderno è finito nelle mani di questi personaggi. C'è poco da aspettarsi, secondo me, in senso democratico. Al contrario di quello che certi soloni occidentali hanno sostenuto e continuano a sostenere.

Fonte.

Il programma di Monti.

Il discorso programmatico che il professor Monti ha tenuto in Parlamento non lascia molti dubbi riguardo al suo punto di vista, che possiamo con tranquillità definire punto di vista di classe - la sua e quella del capitale e della finanza che si ripromette di tutelare.
È giustamente stato scritto su queste pagine che bisogna considerare il governo Monti-Napolitano come governo politico, prodotto della scelta della maggioranza dei partiti istituzionali di provare a uscire dalla loro crisi e rispondere alle esigenze del capitale europeo attraverso un “temporaneo” affidamento delle responsabilità di governo a “tecnici” che siano abbastanza autorevoli da applicare i provvedimenti richiesti dalla Bce e dai governi europei.
L’intervento di Monti ha delineato un coerente programma politico-economico - non ha praticamente toccato altre questioni, a parte un vergognoso omaggio ai militari italiani in guerra e al loro rappresentante promosso ministro della difesa sul campo, l’ammiraglio Di Paola – con l’obiettivo di sostenere le imprese italiane in Europa attraverso il rigore di bilancio, politiche di contenimento della spesa pubblica, il rilancio delle infrastrutture, una politica fiscale più leggera per le imprese stesse e la riforma del mercato del lavoro. Un programma liberista – nel senso di salvaguardia del primato del privato sul pubblico – condito dall’abituale sostegno pubblico del mercato e delle imprese.
Un programma che possa guadagnare il favore dei mercati internazionali e che sia considerato credibile dagli investitori esteri, affinché il debito possa essere gradualmente ripagato senza rotture: “Gli investitori internazionali detengono quasi metà del nostro debito pubblico. Dobbiamo convincerli che abbiamo imboccato la strada di una riduzione graduale ma durevole del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo”
Le parole d’ordine di Monti sono allora rigore di bilancio, crescita ed equità: il rigore di bilancio come forma di compressione e controllo della spesa pubblica; la “crescita” come fattore di rilancio della credibilità internazionale e di sostegno dei profitti; l’equità come specchietto per le allodole e ideologia del “siamo tutti sulla stessa barca”, chiamando ancora una volta chi ha già pagato a fare nuovi sacrifici (questa volta però “equi”). Chiedere a chi è stato derubato di contribuire al risarcimento insieme a chi lo ha derubato non è equità, è un truffa!
Quali sono i punti principali esposti dal professor Monti? Ci sembra possa essere utile farne un sommario elenco – citando le sue stesse parole:
1. “È in discussione in Parlamento una proposta di legge costituzionale per introdurre un vincolo di bilancio in pareggio per le amministrazioni pubbliche, in coerenza con gli impegni presi nell'ambito dell'Eurogruppo. L'adozione di una regola di questo tipo può contribuire a mantenere nel tempo il pareggio di bilancio programmato per il 2013... “
La “costituzionalizzazione” del pareggio di bilancio rappresenta una forma di tutela delle maggioranze di governo che verranno, che saranno costrette a ridurre le spese pubbliche e non potranno più usare il debito per lo sviluppo di politiche sociali e investimenti di interesse comune.
2. “Di fronte ai sacrifici che sono stati e che dovranno essere richiesti ai cittadini, sono ineludibili interventi volti a contenere i costi di funzionamento degli organi elettivi...”
È la risposta dovuta alla rivolta contro la “casta”, ma insistere con gli “organi elettivi” rischia di risolversi in una riduzione degli spazi di democrazia e partecipazione. La riduzione dei privilegi dei rappresentanti eletti deve secondo noi accompagnarsi ad una restituzione di responsabilità e competenze agli organi elettivi rispetto a quelli escuti. Evidentemente il contrario di quanto avvenuto in questi anni e della stessa logica di un governo tecnico...
3."Negli scorsi anni la normativa previdenziale è stata oggetto di ripetuti interventi, che hanno reso a regime il sistema pensionistico italiano tra i più sostenibili in Europa e tra i più capaci di assorbire eventuali shock negativi. Già adesso l'età di pensionamento nel caso di vecchiaia, tenendo conto delle cosiddette finestre, è superiore a quella dei lavoratori tedeschi e francesi. Ma il nostro sistema pensionistico rimane caratterizzato da ampie disparità di trattamento fra diverse generazioni e categorie di lavoratori, nonché da aree ingiustificate di privilegio..”
È il riconoscimento che non servono altri interventi sulle pensioni, che porta con sé anche il progetto di un completo e rapido passaggio di tutto il sistema verso il “contributivo”, che ridurrà di fatto l’ammontare delle pensioni per donne e uomini.
4. “... intendiamo riesaminare il peso del prelievo sulla ricchezza immobiliare. Tra i principali Paesi europei, l'Italia è caratterizzata da un'imposizione sulla proprietà immobiliare che risulta al confronto particolarmente bassa. L'esenzione dall'ICI delle abitazioni principali costituisce, sempre nel confronto internazionale, una peculiarità - se non vogliamo chiamarla anomalia - del nostro ordinamento tributario”.
La reintroduzione dell’ICI sulla prima casa (tagliata da Berlusconi per motivi propagandistici) sarà un’altra forma di aumento della tassazione per lavoratrici e lavoratori.
5. “... sarà possibile programmare una graduale riduzione della pressione fiscale.... una riduzione del peso delle imposte e dei contributi che gravano sul lavoro e sull'attività produttiva, finanziata da un aumento del prelievo sui consumi e sulla proprietà, sosterrebbe la crescita senza incidere sul bilancio pubblico”
In questo modo si lascia aperta una porta a forme di patrimoniale, accompagnate però da un aumento delle imposte indirette – notoriamente le più inique perché non fondate sulla progressione in base ai redditi – e della riduzione delle imposte sulle imprese.
6. “Dal lato della spesa, un impulso all'attività economica potrà derivare da un aumento del coinvolgimento dei capitali privati nella realizzazione di infrastrutture... in modo da ridurre il rischio associato alle procedure amministrative”.
In questo modo si chiede ai capitali privati di sostenere i lavori pubblici (che interesseranno loro) mettendoli al riparo da rischi di impresa, che verranno accollati al pubblico – e che riprodurranno la militarizzazione dei territori interessati per evitare “blocchi” indesiderati.
7. “Con il consenso delle parti sociali dovranno essere riformate le istituzioni del mercato del lavoro, per allontanarci da un mercato duale dove alcuni sono fin troppo tutelati mentre altri sono totalmente privi di tutele e assicurazioni in caso di disoccupazione... In ogni caso, il nuovo ordinamento che andrà disegnato verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere...
Intendiamo perseguire lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro, come ci viene chiesto dalle autorità europee e come già le parti sociali hanno iniziato a fare..."
È la sanzione del progetto Marchionne e della linea di Confindustria: riduzione del valore del contratto nazionale e “superamento della dualità di contratti”... legando le nuove assunzioni a contratti differenti da quelli già in essere. In questo modo se si “supera la dualità” è perché le imprese avranno interesse a sostituire lavoratori e lavoratrici tutelati dalla normativa vigente con nuovi assunti “tutelati” da una normativa più favorevole alle imprese e al capitale. In questo modo diventa legge il programma di Marchionne (dichiaratamente apprezzato da Monti già da tempo) e si colpisce la possibilità di organizzazione dei lavoratori (mascherandola dietro tutele per i più deboli, dichiarando che “Equità significa chiedersi quale sia l'effetto delle riforme non solo sulle componenti relativamente forti della società, quelle che hanno la forza di associarsi, ma anche sui giovani e sulle donne” – non in direzione di un rafforzamento della capacità di associarsi per tutti, naturalmente).
8. “L'Italia ha bisogno di una politica estera coerente con i nostri impegni e di una ripresa di iniziativa nelle aree dove vi siano significativi interessi nazionali”.
Giusto un omaggio per il “generoso” ammiraglio Di Paola – che invece di essere indagato per crimini di guerra in quanto diretto responsabile per la Nato degli interventi in Afghanistan e Libia, viene premiato...
Manca invece – nel discorso di Monti – un omaggio che sarebbe stato più importante, doveroso e che avrebbe potuto aprire una diversa prospettiva per gli obiettivi di “sviluppo e crescita”: un ricordo dei morti di Genova, delle Cinque terre e della Lunigiana avrebbe potuto accompagnarsi ad una diversa idea di sviluppo e crescita. Un’idea che vede nella tutela del territorio, nella sicurezza sociale, in un ampio programma di risanamento ecologico la via per una diversa economia – sostenibile dal punto di vista ambientale e capace di creare posti di lavoro e una nuova consapevolezza civile.
La strada di Monti e dei suoi ministri pare un’altra: infrastrutture, nucleare, inceneritori. Nulla di nuovo sotto il sole (che continuerà a non essere adeguatamente utilizzato).

Fonte.

Egitto, dal sogno alla rabbia.

Sono passati nove mesi, ma il nuovo Egitto non è nato. Molti di coloro che hanno celebrato in piazza Tahrir la defenestrazione di Hosni Mubarak, sono di nuovo là. Solo che allora fraternizzavano con i militari, oggi gli chiedono di farsi da parte per consentire una reale evoluzione democratica del Paese. Una delle voci della piazza e della rivolta, oggi come allora, è il Egyptian Organization for Human Rights (Eohr), che dal 1985 riunisce legali e investigatori esperti di diritti umani. Durante il regime hanno anche pagato in prima persona le loro denunce, ma non si sono femrati. E non hanno intenzione di farlo adesso. PeaceReporter ha intervistato Sherif Etman, responsabile delle relazioni internazionali dell'organizzazione indipendente.

Secondo le vostre informazioni, quante sono le vittime?
''Stiamo raccogliendo i dati e le testimonianze di questa nuova brutale repressione. Secondo le nostre fonti, sono almeno cento le vittime, dal 19 novembre a oggi, e non meno di 2mila i feriti. Ma le fonti ufficiali parlano solo di cinquanta morti e circa 500 feriti. Mentono''.

Com'è la situazione oggi al Cairo e nel resto del Paese?
''La situazione è più o meno la stessa in tutto l'Egitto. Dalle università alle piazze, c'è fermento, ma in tanti prendono un autobus o la macchina e se possono vengono al Cairo, perché la forza evocativa di piazza Tahrir è molto forte. Come una calamita, che attira persone che condividono la stessa rabbia, la stessa frustrazione. Si sentono, in qualche modo, truffati. E per chi non ha mai avuto speranze, la delusione attuale è grande. Per la maggior parte di loro la cacciata di Mubarak ha rappresentato una svolta nella vita. Una dichiarazione di speranza, d'amore, verso il futuro. Proprio per queste aspettative molto complesse, adesso, la rabbia è ancora più forte. Hanno sognato, per la prima volta. Non ci stanno a svegliarsi scoprendo che nulla è cambiato.
In giro ci sarà, più o meno, un milione di persone, ma la situazione è frammentata, non è facile fare dei conti. La grande maggioranza dei dimostranti è in piazza Tahrir, ma anche nelle vie e nelle piazze attorno. Gruppi si radunano davanti alle sedi delle organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani, per organizzarsi, e davanti al ministero degli Interni, per protestare.

Crede che gli scontri renderanno necessario un rinvio delle elezioni previste per il 28 novembre prossimo?
Al momento l'Alta Commissione egiziana per le elezioni e la giunta militare non hanno espresso una posizione chiara in proposito, ma la sensazione è che i seggi sarebbero davvero in balia della rabbia popolare, che in questo momento è focalizzata sui militari, che dovrebbero essere i responsabili dell'ordine pubblico. A maggior ragione adesso che il ministero degli Interni, con il governo dimissionario, non ha una guida chiara. Valutando tutte le variabili, credo che domani si possano avere informazioni più chiare in merito alle elezioni.

Dopo la caduta di Mubarak, è cambiata la situazione del rispetto dei diritti umani in Egitto?
Continuano ad essere violati come prima. Il problema è che non solo non si è voluto, per davvero e fino in fondo, colpire i responsabili delle atrocità di gennaio e febbraio, che non ha certo solo nei poliziotti in strada gli unici responsabili, ma ogni volta che il movimento di protesta ha tentato di alzare la testa, si sono riproposti gli stessi metodi violenti del passato. Anche perché, non va sottovalutato, a quasi tutti gli operatori della sicurezza manca una cultura del rispetto dei diritti umani. Un esempio: Mohamed Sobhi Shinnawi. Proprio oggi abbiamo denunciato il caso di questo agente di polizia ripreso in un video mentre spara in piazza contro civili inermi, alcuni di loro adolescenti. Un caso che il mio direttore ha denunciato in televisione, perché oggi possiamo farlo, e questo significa che questo Paese è cambiato comunque per sempre, perché l'impunità è diventata impossibile. Ma a maggior ragione, se la gente vede e nessuno paga, la rabbia diventa incontenibile.

Che cosa è cambiato da febbraio ad adesso? La gente è insoddisfatta di un mancato, vero, cambiamento?
Esiste una sensazione di malessere generale, riferita a tutti gli aspetti della vita. Politici come economici. La rabbia nasce dalla speranza di un cambiamento, atteso come una sorta di nuovo inizio, come una nuova nascita. Non è andata così e adesso sono i militari l'obiettivo di questa rabbia. Perché loro, 'per la gente, rappresentano l'elemento che ostacola il cambiamento. Quello vero. In tanti si sono resi conto che il rovesciamento di Mubarak non ha posto davvero fine al suo sistema di governo, all'anima profonda del regime, al meccanismo di potere del quale lui era solo il vertice. Quello che è cambiato, dall'11 febbraio ad oggi, è solo la persona di Mubarak, non tutto quello che ha avuto in Mubarak il suo punto di riferimento. Adesso il popolo di piazza Tahrir l'ha capito. E non credo che tornerà indietro.

Fonte.

23/11/2011

La preveggenza.



Di questi tempi, basta avere un po' di buonsenso per essere delle Cassandre.

Sardegna, la base della vergogna.

Decimomannu, Sardegna, 19 novembre 2010. Nel corso dell'operazione di addestramento chiamata 'Vega', un pilota israeliano compie una manovra altamente pericolosa. Dopo il decollo dalla base sarda, secondo quanto riporta il blog di Davide Cenciotti, che ha ripreso la notizia dal sito JewPI.com, un F16 del 106° squadrone della IAF (Israeli Air Force) esegue una rotazione di 360 gradi (un 'tonneau', nel gergo dell'aviazione acrobatica). L'evoluzione è stata compiuta "senza motivo né vantaggio": con queste parole un tribunale militare israeliano ha condannato il pilota a sette giorni di carcere e un anno di sospensione dal volo. "La rotazione del velivolo - scrive Cenciotti nel suo blog - lungo il suo asse longitudinale è una manovra acrobatica che deve essere compiuta all'interno di aree specifiche e ad altitudini di sicurezza". Il sito JewPI riporta che l'aereo ha anche oltrepassato il muro del suono, causando un 'bang sonico' non autorizzato e al di sotto delle altitudini consentite. Della manovra altamente pericolosa, del 'bang sonico', dell'arresto e della sospensione del pilota nessun organo di stampa italiano ha mai parlato.
La pratica degli F16 israeliani del 'sonic boom' a basse altezze è diventata frequente nella Striscia di Gaza dopo la rimozione degli insediamenti ebraici nel 2005. Da allora, i piloti si esercitano sulla popolazione civile palestinese, producendo boati assordanti paragonabili a quelli di una bomba o di un terremoto. A volte, secondo quanto riporta il quotidiano britannico Guardian (http://www.guardian.co.uk/world/2005/nov/03/israel), lo spostamento d'aria è talmente forte da far sanguinare il naso. A Decimomannu si addestrano tali piloti. Non è escluso che alcuni di loro abbiano bombardato la Striscia durante 'Piombo Fuso', provocando la morte di oltre mille civili.
La base di Decimomannu dista pochi chilometri dall'abitato. Una decina di giorni fa si è conclusa l'edizione 2011 dell'operazione Vega, che ha visto centinaia di apparecchi da guerra europei - decine gli israeliani - e mezzo migliaio di militari prendere parte a esercitazioni di electronic warfare. L'operazione Vega rientra nella cooperazione militare Italia-Israele, stabilita dalla Legge 17 maggio 2005, e nel "Programma di cooperazione individuale" con Israele, ratificato dalla Nato il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell'attacco israeliano a Gaza. Esso comprende una vasta gamma di settori in cui "Nato e Israele cooperano pienamente": aumento delle esercitazioni militari congiunte; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; allargamento della "cooperazione contro la proliferazione nucleare". "Ignorando che Israele - scrivono il Manifesto nell'edizione sarda il 22 novembre 2010 e il Manifesto nell'edizione nazionale il 4 novembre 2011 - unica potenza nucleare della regione, rifiuta di firmare il Trattato di non-proliferazione ed ha respinto la proposta Onu di una conferenza per la denuclearizzazione del Medio Oriente". La base è infatti fornita dei più sofisticati apparecchi e dei sistemi per l'addestramento al tiro. E' inoltre l'aeroporto con il più alto numero di decolli e atterraggi presente in Europa, con una media di circa 60mila movimenti annui, pari a circa 450 movimenti giornalieri.
Il sito non ufficiale di Decimomannu (http://www.awtideci.com) riporta: "In pochi minuti di volo sono raggiungibili diverse aree adibite a poligoni aria-aria, aria-terra e bassa navigazione". Tra queste, la tristemente nota Quirra e Capo Frasca, ultima propaggine dell'area naturalistica del Sinis. Le aree coprono buona parte della Sardegna meridionale. Non è noto sapere quali armamenti siano stati usati per la dotazione degli F-15 ed F-16 israeliani impegnati nelle esercitazioni (così come di nessuno degli aerei di tutte le forze Nato che periodicamente si esercitano sui cieli sardi). Mentre l'Aeronautica diffonde la versione di una guerra esclusivamente ‘elettronica', sempre il sito non ufficiale riferisce che, nella zona di Capo Frasca, "operazioni principali sono il bombardamento al suolo e l'uso di cannoni o mitragliatrici di bordo. Il poligono offre una serie di bersagli adatti allo scopo. Apposite torri di controllo gestiscono il traffico aereo impegnato nelle sessioni di addestramento". In particolare, per Capo Frasca, designato con la sigla R59 nella mappa radar, "le operazioni sono bombardamento al suolo e uso di mitragliatrici di bordo. Il poligono offre una serie di bersagli utili allo scopo". In definitiva, gli aerei, Nato e non, decollano da Decimomannu, sorvolano aree civili, spesso con manovre 'altamente pericolose e scaricano il loro potenziale distruttivo in aree paesaggisticamente intatte, contaminando l'ecosistema, la biodiversità e - come si è visto per Quirra, e da poco anche per Capo Frasca - anche gli esseri umani. In quest'ultimo poligono sono stati testati i missili teleguidati AIM dell'Eurofighter prima dell'entrata in servizio. Come per il poligono di Quirra, anche qui cominciano a emergere storie di malattie oncologiche, ematiche o linfatiche, come ben esemplifica la vicenda del maresciallo Madeddu, riportata dal quotidiano 'Unione Sarda' il 30 maggio 2011.
Decimomannu ha un lungo bollettino di incidenti aerei. Dalla fine della Seconda Guerra mondiale 64 aerei hanno subito danni, sono precipitati al suolo o in mare, in località che abbracciano tutta la Sardegna meridionale: Capo Frasca, stagno di Cabras, Capo Carbonara, Orroli, Capo Ferrato, Alghero, Arborea. Ventitré piloti sono morti, e numerosi aerei o pezzi di aereo sono andati perduti. L'aeroporto è stato e continuerà ad essere un pericolo per gli abitanti della Sardegna. A dispetto del motto che campeggia beffardo sul sito ufficiale della base: Decimomannu, dove gli aviatori del mondo libero si addestrano per mantenere la pace.

Fonte.