La situazione è aggravata paradossalmente dalla doppia velocità con cui il piano della governance
istituzionale e finanziaria si muove. Quando si tratta di imporre
politiche di riordino dei conti pubblici con manovre recessive del tipo
lacrime e sangue, i tempi di decisione, in nome dell’emergenza, sono
assai rapidi. Quando si tratta, invece, di coordinare politiche di
intervento a sostegno dell’indebitamento degli stati colpiti dalla
speculazione, allora i tempi si allungano a dismisura.
Tutto
ciò non stupisce. Rientra nella solita politica dei due tempi. Un primo
tempo di sacrifici, di subalternità alle logiche dominanti del potere
economico-finanziario, in attesa di un secondo tempo, che non arriverà
mai. Aspettando la prossima crisi…
Abbiamo
già visto una simile dinamica quando si è costruita l’unione monetaria
europea, spacciata ideologicamente come il coronamento del sogno di una
unione europea politica e sociale. Niente di più falso e oggi ne vediamo
i perversi effetti. All’epoca, inizio anni ’90, l’ineluttabile
necessità di ottemperare ai parametri di Maastricht (l’”emergenza di
entrare in Europa”) ha segnato il turning point decisivo per la
svolta nelle politiche di distribuzione del reddito (un travaso
“istituzionalizzato” dai redditi da lavoro ai redditi da capitale) e per
l’avvio irreversibile del processo di precarizzazione del lavoro e
della vita. Oggi, l’emergenza si chiama crisi del debito sovrano
(l’”emergenza di restare in Europa”). E si tratta di una situazione che,
a differenza di quella dei primi anni ’90, vede un vuoto di azione a
livello istituzionale europeo.
I
motivi che stanno alla base del costante gap decisionale delle autorità
istituzionali europee e mondiali si possono riassumere nella volontà
politica di “non decidere” (“laissez faire”). Con riferimento
all’Europa, le strutture politico-istituzionali (Bce, Ecofin,
Commissione Europea) hanno del tutto perso quella (scarsa) autonomia che
potevano vantare qualche decennio fa. Nonostante le dichiarazione di
Barroso (l’ultima pochi giorni fa, 21 novembre, tese a dimostrare la
volontà della politica europea a risolvere la crisi, magari introducendo
titoli pubblici europei (Eurobond) in grado di sostituire i titoli di
stato nazionali), le istituzioni europee continuano ad essere docili
strumento rispetto alle compatibilità dettate dall’oligarchia
finanziaria e dalle (colluse) società di rating.
2.
Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la
finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del
mondo intero nel 2010 è stato di 74 trilioni di dollari, la finanza lo
surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 trilioni di
dollari, le borse di tutto il mondo 50, i derivati 466 (otto volte di
più della ricchezza reale). Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si
dimentica di rilevare è che tale processo, oltre a spostare il centro
della valorizzazione capitalistica dalla produzione materiale a quella
immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello
cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che,
come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato
grado di concentrazione.
Nel mercato
bancario, dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, una
media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a
meno di 7.500 (dati Federal Reserve). Al I° trimestre 2011, cinque
società d’affari (J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs,
Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse,
Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno il controllo di oltre il 90%
del totale dei titoli derivati (dati OCC, Office of Comptroller of the Currency).
Nel
mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto
in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime
10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle
7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47%
dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate.
Da
questi dati, possiamo arguire che in realtà i mercati finanziari non
sono qualcosa di imparziale e neutrale, ma sono espressione di una
precisa gerarchia: lungi dall’essere concorrenziali, essi nascondono una
piramide, che vede, al vertice, pochi operatori finanziari in grado di
controllare oltre il 65% dei flussi finanziari globali e, alla base, una
miriade di piccoli risparmiatori e operatori finanziari che svolgono
una funzione passiva. Tale struttura di mercato consente che poche
società (in particolare le dieci citate in precedenza) siano in grado di
indirizzare e condizionare le dinamiche di mercato. Le società di
rating (spesso colluse con le stesse società finanziarie), inoltre,
ratificano, in modo strumentale, le decisioni oligarchiche che di volta
in volta vengono prese.
Quando si
leggono affermazioni del tipo “sono i mercati a chiederlo”, “è il
giudizio dei mercati” e amenità del genere, dobbiamo renderci conti che
tali cosiddetti mercati, presentati ideologicamente come entità
metafisica, neutra e quindi oggettiva, non sono altro che espressione di
un preciso potere.
La vera governance
politica non sta più nelle istituzioni politiche, ma nella gerarchia
finanziaria. Essere stato un fedele servitore negli anni ’90, ai tempi
della costruzione monetaria e monetarista dell’Europa, non ha consentito alle istituzioni europee di mantenere voce in capitolo. Il servilismo si è trasformato in servitù.
3. La
spirale della speculazione si muove nell’ottica del massimo guadagno a
brevissimo periodo. La politica economica necessità di un arco temporale
più lungo. Tale iato è uno dei fattori strutturali che rendono
l’instabilità endemica. Fintanto che la governance finanziaria comanda
la governance politica e fintanto che le istituzioni politiche, in nome
del “laissez-faire”, operano perché tale primato permanga, la situazione di crisi economica non può essere risolta.
L’attività
speculativa si concentra in quei settori economici dove si registra un
aumento dei rapporti di debito e credito a maggior intensità di rischio.
Dopo la crisi dei subprime, un terreno fertile si è rivelato
il debito sovrano dei paesi europei: un debito (che di sovrano in realtà
ha veramente poco) che si è alimentato proprio per coprire le falle del
mercato finanziario in seguito alla crisi del 2008.
Il
meccanismo della speculazione è il seguente. Alcune grandi società
finanziarie iniziano a vendere i titoli di Stato dei paesi che, a loro
giudizio (d’accordo con le società di rating) corrono il rischio di
avere difficoltà di finanziamento. Ne consegue il deprezzamento del
valore dei titoli, inducendo aspettative negative sul loro valore atteso
nel futuro. I tassi d’interesse relativi all’emissione dei nuovi titoli
inizia a crescere, ampliando il differenziale (spread) con
l’interesse sui titoli di Stato considerati più sicuri (come quelli
tedeschi). Tale tendenza si autoalimenta sino a creare un’emergenza (shock economy,
direbbe Naomi Klein) che obbliga la Banca Centrale ad intervenire
comprando i titoli di Stato in cambio di nuova liquidità monetaria e,
allo stesso tempo, chiedendo e imponendo misure economiche drastiche
volte fittiziamente a ridurre il deficit pubblico. E’ il segnale che la
speculazione ha vinto. Tutto ciò è abbastanza noto. Ciò che è meno noto è
che, in contemporanea, il valore dei titoli derivati che assicurano i
titoli di Stato (Credit Default Swaps, Cds) cresce enormemente, in modo proporzionale all’ampliarsi dello spread
sui tassi d’interesse. Ciò consente ai possessori dei Cds di poter
lucrare elevate plusvalenze. Fin qui la spiegazione teorica. Facciamo
ora i nomi degli attori di tale attività speculativa, con riferimento al
caso italiano. Ad inizio 2011, Deutsche Bank, una delle 5 banche che
detengono il controllo del mercato dei Cds, inizia a vendere circa 7
miliardi di titoli di Stato italiani (Btp). A seguito di ciò, il valore
dei Btp italiani inizia a ridursi e lo spread con gli analoghi
titoli tedeschi inizia ad aumentare sino a superare quota 300 per
arrivare a metà novembre a oltre 500. I tassi di interessi sono passati
dal 3% a oltre il 7% nel giro di pochi mesi, con un aggravio nella
spesa per interessi stimato in circa 8-9 miliardi di euro.
Contemporaneamente, il valore dei Cds sul debito italiano sono aumentati
di quasi 5 volte, consentendo così enormi guadagni in termini di
potenziali plusvalenze.
4.
Le linee di politica economica che vengono imposte all’Italia e sono
state imposte alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna non hanno come
obiettivo il risanamento dei conti pubblici, ma piuttosto lo scopo di
sancire esplicitamente il primato del potere economico-finanziario su
quello politico (dal controllo sociale politico-mediatico al controllo disciplinare della finanza).
Il caso della Grecia è emblematico. Dopo quattro finanziare draconiane
nel nome di un supposto risanamento, le previsioni sul Pil greco per il
2011 sono disastrose (- 5,3%), con il risultato che il rapporto
deficit/pil, lungi dal ridursi probabilmente aumenterà. Il tentativo
politico del governo Papandreu, anche per far fronte alle grandi
manifestazioni di protesta, di indire un referendum popolare sulle
politiche di austerità è durato lo spazio di un mattino. L’obiettivo di
ripristinare una possibile autonomia della politica rispetto ai diktat
economico-finanziari è fallito miseramente. La Grecia ha varato un
governo di unità nazionale sotto l’egida dell’ex-vice-governatore della
Bce, supino agli interessi della gerarchia finanziaria. Democrazia non fa rima con finanza.
Non è una novità. Trenta anni di liberismo hanno fatto credere (a chi
voleva e aveva interesse a crederci) che la gerarchia di mercato
(ideologicamente denominata “libero mercato”) potesse essere compatibile
con l’esercizio democratico, seppur formale, del voto.
La crisi dei debiti sovrani ha stracciato questo miserevole velo. Il re è nudo, ma nessuno (soprattutto a sinistra) sembra accorgersene.
5.
La situazione italiana, pur essendo diversa dal punto di vista
economico, è invece assai simile dal punto di vista politico. L’Italia è
diventato un obiettivo appetibile anche perché la sua credibilità
politica è molto bassa. Il modo con cui il governo Berlusconi ha
affrontato l’inizio della crisi ad agosto non ha fatto che incancrenire
la situazione. Paradossalmente, il governo Berlusconi si è
rivelato meno affidabile agli occhi dei mercati finanziari di quanto
potesse esserlo un governo di centro-sinistra. A fronte di tale
situazione, un nuovo governo tecnico, di solidarietà nazionale, con a
capo Mario Monti, si è insediato. E’ noto che Mario Monti, stimato
economista, è, oltre che presidente europeo della Trilateral, anche International Advisor di
Goldman Sachs, una delle società finanziarie che controllano, come
Deutsche Bank, il mercato dei Cds. Voci dei mercati finanziari
(riportate dal quotidiano Milano Finanza) confermano che proprio Goldman
Sachs, così come aveva fatto nei primi mesi dell’anno Deutsche Bank,
abbia innescato l’ondata di vendite di Btp all’inizio di novembre,
accelerando la crisi del governo Berlusconi. Berlusconi (come
Papandreu) è stato così costretto a dimettersi non dalla politica
italiana ma dai potentati economici finanziari.
6.
E’ interessante notare che l’effetto Monti cominci a farsi sentire. Il
Ceo di Deutsche Bank, Joseph Ackermann (nonché presidente dell’Iif,
l’associazione delle grandi banche internazionali), il 20 novembre, in
un convegno a Berlino organizzato dal quotidiano Suddeutsche Zeitung
(quotidiano conservatore), ha dichiarato che la Deutsche Bank intende
aumentare l’esposizione della banca tedesca sui titoli di stato italiani
da un miliardo (ciò che era rimasto dopo la forte vendita dei Btp
italiani di 7 miliardi nei primi mesi dell’anno) a 2,3 miliardi (Fonte
Financial Times). Qualcuno potrebbe pensare che il cambio alla direzione
del governo italiano abbia sortito i primi benevoli effetti. In realtà,
si tratta semplicemente del segnale che la Deutsche Bank è passata
all’incasso. Occorrerà verificare nelle prossime settimane se tale
segnale verrà colto anche dalle altre grandi società finanziarie. Se ciò
avvenisse, significherebbe che la pressione speculativa potrebbe non
prendere più di mira l’Italia, ma potrebbe spostarsi altrove, magari in
Francia. Ancora una volta, ciò conferma che la speculazione ha vinto e,
al riguardo, c’è poco da stare allegri: è la semplice conferma che siamo comunque in ostaggio dei poteri finanziari. L’area dell’Euro è comunque ancora a rischio.
7.
La svolta politica di Grecia e Italia, infatti, conferma l’ipotesi
implicita che i mercati finanziari siano intoccabili. E’ sempre più
imprescindibile la necessità di controbilanciare questo potere. Dal
momento che le istituzioni politiche oggi dominanti non sono in grado di
farlo, occorre che qualcuno se ne faccia carico. Ed è per questo che,
all’interno dei movimenti sociali si sta ponendo un’altra alternativa,
quella che viene denominata “diritto al default”.
Al riguardo, occorre sottolineare che le principali società finanziarie in realtà non vogliono il default
degli Stati, anzi sarebbe per loro una grave minaccia, perché verrebbe
meno la materia su cui innescare i processi speculativi (sarebbe come
eliminare “la gallina dalle uova d’oro”). Pertanto vi sono
(teoricamente) margini di manovra per ricontrattare la struttura del
debito in chiave europea, con il fine di sottrarre al mercato dei
capitali una quota dei titoli di Stato che oggi sono oggetto della
pressione speculativa.
Tecnicamente
una simile manovra è possibile, senza che ciò comporti effetti
collaterali negativi per l’Italia, anche alla luce della nuova
composizione del debito pubblico italiano. Fino agli anni 90, il 50 %
del debito era detenuto dalle famiglie sotto forma di risparmi
(investiti in BOT ad esempio), e il 95 % di esso era comunque detenuto
in Italia (famiglie e banche). A quei tempi, perseguire il default
sarebbe stato assurdo e autolesionista. Ma oggi, nel 2011, il debito
pubblico è detenuto per l’87% da banche e finanziarie e per oltre il 55%
all’estero. Secondo Morgan Stanley, una quota del 20% di questo 87% è
costituita da fondi pensioni e fondi di investimento di proprietà delle
famiglie italiane, seppur gestita e controllata dalle società
finanziarie; di conseguenza, considerando il 13% dei titoli detenuti
direttamente dalle famiglie, solo un terzo del debito pubblico italiano
ha a che fare con l’attività di risparmio. Il resto è pura speculazione,
nella maggior parte dei casi, internazionale. Proprio partendo da
questi dati, è possibile attivare un default controllato,
tramite una modifica, unilaterale e sancita per legge, delle condizioni
di un contratto di debito e credito. A tal fine si può ipotizzare la
possibilità di congelare una quota di questi titoli di Stato,
sottraendoli all’azione speculativa delle grandi società finanziarie e
sostituendoli con titoli di stato europei (tipo Eurobond),
fuori dalla libera circolazione dei capitali (applicandovi un tasso di
interesse ad esempio di 1,5 o 2 punti superiore a quello ufficiale), per
poi scongelarli dopo un congruo numero di anni. Una simile proposta ha
sollevato parecchie obiezioni, delle quali due appaiono rilevanti. La
prima afferma che in tal modo il valore dei titoli di stato italiani si
deprezzerebbe con effetti negativi sui valori patrimoniali del sistema
bancario-creditizio. E’ vero, ma non ci si dovrebbe preoccupare più di
tanto: in primo luogo, perché già la costituzione del Fondo Europeo
Salva Stati (ESFS) prevede per i soli titoli greci un deprezzamento a
carico delle banche detentrici tra il 30 e il 60%; in secondo luogo,
perché in tal modo anche il sistema bancario (e non solo noi, che lo
stiamo già facendo) dovrà pagare la crisi. La seconda obiezione è più
rilevante: di fronte all’ipotesi di congelamento, potrebbero sorgere
difficoltà nel collocamento dei nuovi titoli di debito, con il rischio
di dover pagare un interesse maggiore. E’ la probabile reazione dei
potentati finanziari. A ciò si può rispondere con l’obbligo di detenere
un certo quantitativo di titoli di nuova emissione come quota delle
riserve bancarie, in modo da garantire, ope legis, la loro
riallocazione e sarebbe necessario che la Bce, recuperando il suo ruolo
istituzionale di prestatore di ultima istanza, negato dal Trattato di
Maastricht, se ne facesse carico in prima istanza, acquistando titoli di
Stato nazionali sul mercato primario (in cambio di moneta di nuova
creazione) e non solo sul mercato secondario (ovvero acquistando titoli
di Stato già in circolazione) . Non siamo forse, come ci dicono, in
condizioni di emergenza?
La
problematicità della proposta non è tanto “tecnica”, quanto politica: si
tratta, infatti, di introdurre delle restrizioni alla circolazione nel
mercato dei capitali e creare una nuova agenzia europea che abbia come
funzione la detenzione dei titoli “congelati”. E tale nuova agenzia
europea non potrebbe né dovrebbe essere la BCE, ma piuttosto un agenzia
“politica” europea, finalizzata alla costruzione di una politica fiscale
comune europea che detronizzasse la sovranità fiscale nazionale in tema
fiscale e di spesa pubblica. Veniamo qui, infatti, alla questione
politica principale che ha favorito lo scatenarsi della speculazione
finanziaria europea: la mancanza (voluta) di un’unica politica fiscale
europea, con un unico budget ed un’unica legge finanziaria. Forse, in un
contesto in cui diritto di signoraggio e legge di bilancio sono
posizionati allo stesso livello di governance, l’attività speculativa
avrebbe avuto meno gradi di libertà per agire. Ma questa è un’altra
storia.
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