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30/05/2015

La cannabis terapeutica, un rimedio polivalente

Nel XI secolo Hasan Ibn-Al Sabbah fondò una setta di grande importanza gli “Hasheshins” (assassini) perché dedita al consumo dell’Hashish, nome con il quale gli arabi designavano la canapa.

Tale setta utilizzava l’Hashish come stimolante ed eccitante, per tutti coloro che dovevano compiere omicidi con movente politico, onde il nome di “assassino”, assuntore di Hashish, per definire colui che commetteva un omicidio. La canapa indiana è una pianta dioica annuale originaria dell’Asia centrale di cui si utilizzano le sommità fiorite delle piante femminili, non fecondate. Dalle infiorescenze si ottiene una resina di color bruno detta Hashish; la Marijuana o Marijuana è data sempre dalle infiorescenze femminili essiccate e polverizzate.

Nella Storia Naturale Medica (1896) si riferisce che: «Tutta la pianta è inebriante e narcotica. La varietà Cannabis indica fornisce il hashish».

Ritorno sulla Cannabis poiché i principi attivi che contiene sono usati, da molti anni, nel trattamento di alcuni sintomi della sclerosi multipla, nell'epilessia, nel controllo del dolore nei pazienti neoplastici, nella prevenzione della nausea e del vomito in chemioterapia e nel glaucoma.

Alcuni ricercatori dell'Università McGill di Montreal hanno pubblicato (Canadian Medical Association Journal) una ricerca condotta su 23 soggetti di 45 anni di età media, tra cui 12 donne. Tutti erano affetti da dolore neuropatico cronico conseguente a traumi del sistema nervoso (incidenti stradali), o complicanze chirurgiche: hanno inalato, usando una pipa, una dose di 25 mg di cannabis (contiene circa il 10% di Thc, tetraidrocannabinolo), tre volte al giorno per cinque giorni.

La cannabis ha ridotto parzialmente il dolore, ha innalzato il tono dell'umore e migliorato la qualità del sonno. I costituenti non-psicomimetici della Cannabis, il cannabidiolo (Cbd) hanno una interessante azione ansiolitica e antidepressiva e, ricercatori brasiliani (Università di Rio de Janeiro), li hanno valutati anche per i disturbi ossessivi-compulsivi, panico, stress post-traumatico.

I cannabinoidi, sostanze psicoattive della Cannabis, vengono studiati nella sintomatologia ipercinetica, per le proprietà neuroprotettive, per la possibilità di essere un nuovo farmaco nella malattia di Huntington.

A tutto questo si aggiunge la speranza per la terapia del tumore al seno e vi sono sperimentazioni nel tumore della prostata; si è dimostrato infatti che i recettori dei cannabinoidi, presenti nel tessuto prostatico, se stimolati, hanno un effetto anti-androgenico.

Potrebbero essere interessanti studi clinici per valutare gli effetti su pazienti con carcinoma della prostata con metastasi e solo per gli effetti analgesici della Cannabis.

Ottima base, nella ricerca di una efficace cura del glaucoma, lo studio di anni fa sul Journal of Glaucoma (la possibilità terapeutica della cannabis nel glaucoma è nota dal 1995), a opera di ricercatori dell’Università di Aberdeen nel Regno Unito.

Attualmente, nel glaucoma (termine che sintetizza un gruppo di disturbi dell’occhio) la pressione intraoculare non è più considerata la causa della patologia bensì, assieme ad altre condizioni, un importante fattore di rischio.

Scopo dello studio dei britannici era quello di valutare gli effetti della somministrazione orale di una piccola dose di delta-9-tetraidrocannabinolo (delta-9-THC) e cannabidiolo (CBD) sulla pressione intraoculare, nonché stabilirne sicurezza ed efficacia.

Nella sperimentazione, uno “studio-pilota”, a soli sei pazienti che presentavano un glaucoma ad angolo aperto, con uno spray adoperato per via sublinguale, furono somministrati 5 mg di delta-9-THC, o 20/40 mg di CBD, o un placebo. Le somministrazioni vennero effettuate con un’unica dose alle 8 del mattino; a distanza di 2 ore le persone che avevano assunto THC hanno mostrato una riduzione della pressione intraoculare rispetto al placebo.

Solo dopo 4 ore la pressione ritornò ai valori elevati della misurazione iniziale. Va segnalato che in un paziente, dopo somministrazione di THC, si manifestò un leggero attacco di panico.

Secondo questo studio, un’unica dose di 5 mg di THC, oltre ad essere ben tollerata, è in grado di ridurre temporaneamente la pressione intraoculare.

I cannabinoidi, tra cui il THC, sono in grado di migliorare anche la circolazione sanguigna della retina; a essi vengono attribuite azioni neuroprotettive e antiossidanti, potrebbero pertanto diventare utilizzabili nella terapia del glaucoma.

Quelle che possono danneggiare, in modo irreversibile nella malattia (danno glaucomatoso), sono le cellule ganglionari della retina, indispensabili per la visione.

Ophtalmic Research (2007 marzo) ha pubblicato una sperimentazione di studiosi statunitensi sul possibile ruolo del THC nella terapia del glaucoma.

Anche in quest’ultimo caso il THC ha evidenziato un effetto neuroprotettivo, nonché la capacità di preservare l’integrità delle cellule ganglionari della retina attraverso la riduzione della pressione intraoculare.

Da non dimenticare, nel trattamento del glaucoma, l’utilità dell’estratto di gingko biloba che ha dimostrato di migliorare il flusso sanguigno oculare, la visione e la pressione intraoculare.

Nel glioblastoma, il più comune tumore maligno intracranico, è rapido, molto aggressivo nella maggioranza dei casi e lascia ben poche aspettative. I glioblastomi multiformi (astrocitoma di grado IV), la cui prognosi è la peggiore assieme ai linfomi maligni (la speranza terapeutica è nella chirurgia e nella radioterapia), potrebbero aver trovato un nuovo e forse temibile avversario.

Il merito di questa speranza, solo tale per ora, è di un gruppo di ricercatori spagnoli e tra questi alcuni della Complutense University di Madrid: hanno dimostrato che i cannabinoidi della cannabis potrebbero distruggere questi tumori bloccando la crescita dei vasi sanguigni che lo alimentano.

Sono circa 60 i cannabinoidi presenti nella cannabis indica e tra questi, come già detto, il delta (9)-tetraidrocannabinolo o THC e il cannabidiolo (CDB) che non possiede attività psicoattiva.

Lo studio sperimentale, pubblicato su Cancer Research molti anni fa, è di grande importanza in quanto apre nuove prospettive nel trattamento del glioblastoma multiforme poiché ha dimostrato, per la prima volta, come i cannabinoidi siano in grado di bloccare la crescita dei vasi sanguigni (angiogenesi) del tumore e che tale trattamento potrebbe funzionare negli esseri umani.

Uno degli scopi che si sono prefissi il dottor Manuel Guzmàn e i suoi collaboratori è capire se i cannabinoidi siano in grado di prevenire la crescita del tumore attraverso il blocco dell'approvvigionamento di sangue.

Precedenti studi avevano già dimostrato come i cannabinoidi fossero in grado di bloccare la crescita di vasi sanguigni in animali da esperimento, di indurre l'apoptosi, di rallentare la crescita dei tumori, gliomi compresi. Ed è il delta-(9)-tetraidrocannabinolo (THC), il cannabinoide psicoattivo della cannabis indica (var.sativa; famiglia Cannabidacee), a bloccare la produzione di una proteina chiamata Vascular Endothelial Growth Factor o VEGF.

Tutto ciò avverrebbe attraverso l'aumento dell'attività di una sostanza chiamata ceramide. Il THC, inoltre, ha già dimostrato di possedere attività antiproliferativa innalzando i livelli della ceramide a sua volta implicata nella mediazione di diverse azioni intracellulari: senescenza, morte cellulare, ma anche proliferazione e differenziazione.

Bisognerà vedere se tutto questo verrà confermato negli umani. Nel frattempo due ammalati di glioblastoma multiforme che non rispondevano né alla terapia chirurgica né alla radio e chemioterapia sono stati trattati con la somministrazione dei cannabinoidi nel tumore.

Clinical Gastroenteroly and Hepatology riporta uno studio sulla marijuana (cannabis sativa), già usata per le infiammazioni del colon, in cui si è valutato se la si può usare nella malattia di Crohn.

In otto settimane, su 21 persone affette da Crohn, la cannabis, contenente il composto Thc, produceva significativi benefici senza effetti avversi. In precedenza, altri studi avevano "suggerito" che i cannabinoidi della cannabis avrebbero potuto proteggere il colon dalle infiammazioni croniche intestinali.

La cannabis inoltre viene utilizzata come "trattamento aggiunto" in pazienti affetti da cancro; e il cannabidiolo che secondo alcuni ricercatori brasiliani può aiutare nella sintomatologia del disturbo ossessivo compulsivo, può sperimentalmente inibire il tumore colonrettale.

Sul Canadian Medical Association Journal uno studio (university of California, San Diego) evidenzia che fumare la cannabis aiuta a controllare, in particolare, la spasticità della sclerosi multipla ed attualmente il suo utilizzo è consolidato nella terapia.

Come detto i costituenti non psicotropi della Cannabis sativa, la marijuana, sono i cannabidioli che in un buon numero di casi clinici e in svariati studi sperimentali hanno evidenziato una possibile indicazione antipsicotica in persone affette da schizofrenia.

Uno studio condotto da un team scientifico guidato dal dottor Orrin Devinsky, New York University, Langone Comprehensive Epilepsy Center, ha mostrato come una forma liquida di marijuana può essere d’aiuto alle persone sofferenti di severa epilessia (sindrome di Dravet e di Lennox-Gastaut) che non rispondono ai trattamenti seguiti. Il lavoro svolto su 213 bambini e adulti, per 12 settimane, fu effettuato in pratica con cannabidiolo ed è stato presentato ad aprile al congresso annuale dell’American Academy of Neurology.

La rivista scientifica Pediatric Neurology (2015) riporta uno studio di un caso nell’epilessia parziale migrante maligna dell’infanzia, resistente alla terapia, che l’integrazione con cannabidiolo è positivo. Questo componente della Cannabis ha un importante ruolo farmacologico e molto probabilmente nella terapia dell’epilessia e in altri disturbi neuropsichiatrici, la cannabis e il cannabidiolo il cui meccanismo d’azione nell’epilessia è sconosciuto e il Tetrahydrocannabinolo (THC) hanno già mostrato, sperimentalmente, attività anticonvulsivante.

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La tenaglia turco-saudita strangola Damasco

foto AliceMartins/AFP/Getty Images

di Michele Giorgio

Schiacciare la Siria approfittando dell’avanzata dell’Isis. L’alleanza turco-saudita, impensabile fino qualche tempo fa, intensifica gli aiuti finanziari e i rifornimenti di armi ai ribelli “moderati” (in realtà una galassia di gruppi islamisti radicali e jihadisti) per stringere la morsa sul presidente siriano Bashar Assad. Soldi e armi che finiscono anche, se non soprattutto, nelle mani del Fronte al Nusra, ramo siriano di al Qaeda e principale forza militare impegnata nei combattimenti con l’esercito siriano nelle regioni nord-occidentali. Ieri il quotidiano turco Cumhuriyet ha pubblicato un video, rimasto segreto per mesi, di tir dei servizi segreti di Ankara diretti in Siria che trasportavano ingenti quantitativi di armi nascosti sotto scatole di medicinali: 1.000 mortai, 1.000 granate, 50.000 fucili d’assalto e 30.000 mitragliatrici pesanti. L’anno scorso il governo islamista turco – che ha sempre sostenuto che a bordo ci fossero soltanto aiuti per i civili –  aveva imposto ai media la censura sulla vicenda. Dai controlli è poi emerso che i camion erano sotto la gestione dell’intelligence.

La verità è emersa grazie a Cumhuriyet ma rappresenta solo una conferma di ciò che è noto a tutti  da tempo. La monarchia feudale saudita di re Salman e il nuovo sultano Erdogan non risparmiano sforzi per abbattere Assad e spezzare l’alleanza “sciita” tra la Siria e l’Iran. Per Damasco senza dubbio le cose si sono complicate dopo la perdita completa della provincia di Idlib, al confine con la Turchia, per mano del Jeish al Fateh (la coalizione jihadista guidata da al Nusra), e della città di Palmira a est dove l’Isis, per l’offensiva, aveva fatto affluire parte degli armamenti abbandonati dall’esercito iracheno a Ramadi. Il sostegno dei combattenti sciiti di Hezbollah è fondamentale per le truppe siriane, sempre più stanche, ma non è infinito e si concentra principalmente nell’area delle alture di Qalamoun e a ridosso del confine con il Libano.

A queste difficoltà crescenti sul campo di battaglia, si aggiungono, persino più gravi e pesanti, le conseguenze economiche della guerra civile. Con la maggior parte delle sue risorse naturali e minerarie cadute sotto il controllo dei ribelli, le entrate dello Stato siriano si sono ridotte al minimo e Damasco deve fare sempre più affidamento alle linee di credito messe a disposizione dall’Iran. L’agenzia Afp scriveva qualche giorno fa che con l’avanzata dell’Isis, il governo ha perso il controllo anche su due miniere di fosfati, Sharqiya e Khneifess, 50 km a sud ovest della città di Palmira. La prima produceva circa tre milioni di tonnellate di fosfati all’anno, la seconda circa 850.000 tonnellate. Prima della guerra civile, la Siria era il quinto esportatore mondiale di fosfati mentre nel primo trimestre del 2015 ha venduto solo 408.000 tonnellate.

I proventi del petrolio peraltro si stanno prosciugando. Le esportazioni sono meno della metà delle 988.000 tonnellate vendute nei primi tre mesi del 2011 (quell’anno dall’oro nero Damasco incassò 3,8 miliardi di dollari). Nel 2013 l’Isis ha preso tutti i campi della provincia orientale ricca di petrolio di Deir Ezzor e lo scorso settembre i jihadisti producevano più petrolio del governo centrale: 80.000 barili al giorno contro 17.000. Alla fine del 2014 la produzione ufficiale era precipitata a 9.329 barili al giorno rispetto ai 380.000 barili del 2010 e la scorsa settimana i jihadisti hanno sequestrato un altro campo petrolifero Jazal (2.500 barili al giorno). Restano nelle mani di Damasco, ma anche questi non completamente, i giacimenti di gas naturale. Non sorprende che le esportazioni totali siano crollate da 11,3 miliardi dollari nel 2010 a 1,8 miliardi dollari nel 2014, riferiva nei giorni scorsi il giornale filo-governativo Al-Watan. Un buco coperto solo in parte dai 4,6 miliardi dollari versati da Tehran nelle casse siriane.

Difficile resta la situazione anche in Iraq dove l’Isis continua ad avanzare e a colpire a Baghdad. I jihadisti hanno rivendicato gli attentati (un kamikaze e tre autobomba) compiuti ieri contro due hotel di lusso della capitale, il Cristal Grand Ishtar (ex Sheraton) e il Babylon Warwick, che hanno fatto almeno 15 morti e 42 feriti.

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Beyond


Quanti Depeche Mode in questo pezzo.

Che Fifa!

Lo svizzero Sepp Blatter è stato eletto per il quinto mandato consecutivo come presidente della Fifa, la federazione mondiale del football.  Il terremoto dell’inchiesta dell'Fbi sulla corruzione e le tangenti e gli arresti di alcuni dirigenti della Fifa, non hanno dunque scalfito la presa di Blatter sulla più ricca organizzazione sportiva del mondo. Non solo. Il tentativo dell’Uefa (dunque la federazione europea) ed in particolare di Michel Platini, di scalzarlo dalla poltrona è andato così a vuoto.  Le federazioni europee e statunitense avevano anche provato a schierare un candidato alternativo a Blatter individuandolo però in una figura rappresentativa di una federazione quasi inesistente, quella giordana. Ed infatti il candidato alternativo a Blatter (espressione di Europa e Stati Uniti), il principe giordano Ali Bin al Hussein ci ha provato, ma ha raccolto appena 73 voti contro i 133 di Blatter. Anche ad occhio su questa vicenda dello scandalo Fifa si è respirata l’aria delle contrapposizioni politiche che stanno agendo a livello internazionale. Colpiva il fatto che l’Fbi avesse messo sotto accusa solo l’organizzazione dei campionati mondiali di calcio in Russia e nel Qatar, due paesi al momento in pessime relazioni con Washington e che hanno gettato sulla vicenda un sapore di strumentalizzazione. Così come lo schieramento per le dimissioni di Blatter coincideva pressoché totalmente con le federazioni calcistiche "appartenenti a paesi della Nato". Insomma alla Fifa si è visto uno scenario piuttosto condizionato dal clima internazionale e i risultati prodottisi – pur confermando un personaggio più che discutibile come Blatter – ne sono stati la conseguenza.

Platini aveva invitato l’Europa a votare compatta per il principe giordano ma solo una quarantina di federazioni hanno seguito l’indicazione. E l’Italia? Impossibile da sapere, in quanto il presidente federale Carlo Tavecchio subito dopo il voto è partito senza rilasciare dichiarazioni. Blatter ha invece raccolto i voti dei paesi emergenti e in via di sviluppo in Asia e Africa, dalla americana Concacaf (che unisce America Latina, Usa e Canada, solo queste due hanno votato contro Blatter) e probabilmente dall’Oceania. Dunque una rottura verticale che richiama molto da vicino quelle che si producono in sede di Assemblea Plenaria delle Nazioni Unite dove sempre più spesso le vecchie potenze occidentali scoprono di rappresentare una parte minore del mondo.

Appena rieletto, Blatter ha annunciato l’intenzione di allargare il comitato esecutivo a 30 membri, per consentire a tutte le confederazioni di essere meglio rappresentate. Un passaggio in più per indebolire le federazioni calcistiche europea e statunitense che però sono quelle dove girano tanti soldi.

A margine dell'assemblea internazionale della Fifa si è poi consumato un altro compromesso: quello tra la delegazione palestinese che chiedeva l'espulsione di Israele dalla federazione per gli impedimenti che oppone all'attività sportiva dei giocatori palestinesi e l'apartheid praticato nelle squadre di calcio israeliano. Ma anche qui si segnala una decisione al di sotto delle aspettative. La delegazione palestinese ha ritirato il documento con la richiesta e ne ha presentato uno emendato e meno duro che chiede solo una commissione di inchiesta. il documento è stato approvato dalla Fifa, con grande delusione degli attivisti filo palestinesi che si erano riuniti sotto la sede della federazione a sostegno della richiesta palestinese.

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Libia in pezzi, l’IS avanza. Il ‘premier’ di Tripoli minaccia l’Ue

Le bande jihadiste che fanno riferimento allo Stato Islamico continuano ad avanzare in territorio libico. Approfittando dell'instabilità, della spaccatura politica e della guerra tra bande, i fondamentalisti rafforzano le loro posizioni nel Paese, non più confinati nella regione della Cirenaica dove avevano fatto la loro comparsa già mesi fa. L'ultima mossa è stata la conquista dell'aeroporto civile di Sirte, nell'omonimo golfo nel Mediterraneo, a metà strada tra Tripoli e Bengasi. A riferirlo è stato il portavoce della Brigata 166 di Misurata, la stessa che da mesi sta cercando di arginare l'avanzata dell'Is verso ovest e di riconquistare Sirte. La Brigata, ha spiegato il portavoce, è stata costretta a ritirarsi dalla base di al-Qardabiya a causa del mancato arrivo di rinforzi da Tripoli.

Dal canto suo l'Is ha confermato la notizia, affermando di aver preso anche il controllo di alcuni edifici del progetto 'Grande fiume artificiale', l'acquedotto più grande del mondo voluto da Muammar Gheddafi. A est invece è stato respinto, anche con l'aiuto della popolazione, il tentativo dei jihadisti di Derna (la roccaforte dello Stato islamico nel paese) di allargarsi verso ovest, con un attacco al piccolo centro di Lamluda, in direzione di al Baida, una delle due sedi – insieme a Tobruk – del governo “legittimo” riconosciuto dalla cosiddetta comunità internazionale, cioè dalle potenze straniere che non nascondono i propri appetiti sul territorio scosso dalla tribalizzazione e dalla guerra civile.

Dal governo "parallelo" di Tripoli, imposto dalle milizie filo-islamiche della coalizione di Fajr Libya (principalmente composta da quelle di Misurata), arriva intanto un 'avvertimento' all'Unione Europea, un monito già espresso con gli stessi toni dai rivali di Tobruk nelle scorse settimane. "Se l'Ue entrerà nelle acque libiche" con la scusa di fermare i barconi dei migranti "senza il nostro permesso, ci difenderemo", ha dichiarato in un'intervista all'Independent il ‘premier' Khalifa al-Ghweil, anche lui di Misurata, che ha sostituito il predecessore Omar al-Hassi sfiduciato dal Congresso nazionale libico, il 'parlamento' di Tripoli riesumato dalle milizie. L’avvicendamento ai vertici dell’esecutivo parallelo di Tripoli, com’era avvenuto a Tobruk, non è stato avallato da un voto parlamentare netto, e quindi gli scontri sussistono anche all’interno della fazione di tendenza islamista ‘moderata’ sostenuta dal Qatar e dalla Turchia.

Nell’intervista al quotidiano britannico, Ghweil ha insi­stito affin­ché la comu­nità inter­na­zio­nale rico­no­sca il par­la­mento di Tri­poli come unica auto­rità legit­tima del paese: «Con­trol­liamo l’85% della Libia, l’Occidente deve par­lare con noi di immi­gra­zione e Stato islamico per assi­cu­rarsi che le cose non peg­gio­rino ulteriormente». Per il premier di Tripoli il vero nemico resta comunque il generale Khalifa Haftar, vero padrone di Tobruk: “E’ un criminale di guerra. Ha distrutto Bengasi, le sue truppe hanno ucciso molte persone innocenti (…) Sta cau­sando un danno grave con­ti­nuando a chie­dere a paesi stra­nieri (Egitto, Ara­bia Sau­dita, ndr) di inter­fe­rire negli affari libici. E’ un traditore della Libia” ha denunciato. Il paese è letteralmente andato in pezzi ed ogni fazione tenta di approfittare della situazione per impossessarsi del potere, anche a costo di sfruttare l’avanzata delle milizie islamiste pensando di indebolire gli avversari.

Ma il governo italiano insiste, e senza vergogna utilizza una delle più tragiche conseguenze dell’intervento occidentale nel paese nel 2011– l’espansione del fondamentalismo islamista – per giustificare la necessità di un intervento ulteriore, reso più probabile dall’approvazione secretata del piano dell’Unione europea che prevede incursioni in acque territoriali libiche con il pretesto di fermare il flusso di migranti. "In Libia l'auto proclamato Stato islamico si sta espandendo" ha detto il ministro degli Esteri del governo Renzi, Paolo Gentiloni, in un'intervista a Foreign Affairs. "Noi siamo pronti – ha aggiunto il titolare della Farnesina – ad assumere un ruolo di guida per assistere, all'interno della cornice giuridica Onu, un governo libico di unità nazionale, con l'obiettivo di stabilizzare il Paese".

Intanto l'inviato dell'Onu per la Libia, Bernardino Leon, continua a lavorare per tentare di avviare un qualche dialogo tra le diverse fazioni del paese, nonostante le sistematiche battute d'arresto, le bozze di accordo respinte e le difficoltà sul terreno determinate dai combattimenti.

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Grecia, il governo prepara maxicondono per evasori

Il governo greco, nell'ambito dei progetti per recuperare capitali necessari a ripagare le rate del debito con i cosiddetti ‘creditori internazionali’, sta studiando la possibilità di offrire un'amnistia a tutti gli evasori fiscali – compresi coloro che sono sotto inchiesta da parte delle autorità giudiziarie – derubricando reati fiscali anche molto gravi che normalmente sono puniti con pesanti multe pecuniarie e pene detentive tra i 10 ei 20 anni.

Secondo un progetto di legge sulla legalizzazione dei redditi illegali presentato l’altro ieri dal ministero delle Finanze del governo Tsipras, la condizione per ottenere l'amnistia sui redditi non dichiarati è che venga pagato il 15% sui fondi depositati all'estero e il 30% su quelli custoditi in conti nelle banche nazionali. In base alla normativa vigente, gli evasori fiscali sono invece puniti con un prelievo sino ad un massimo del 45% sull'importo dei fondi non dichiarati. Il nuovo disegno di legge prevede l'immunità da qualsiasi azione legale riguardo i redditi illegali che saranno dichiarati dagli evasori. I titolari di un conto bancario all'estero che legalizzeranno in tal modo i fondi in esso contenuti non saranno inoltre obbligati a rimpatriare i capitali.

Intanto le preoccupazioni generate tra i risparmiatori – e gli speculatori – dall’incerto andamento dei negoziati tra il governo di Atene ed i suoi creditori hanno indotto molti greci a ritirare i loro depositi in banca scesi, secondo le ultime statistiche, ai minimi da oltre un decennio. Come riferisce l'edizione online del quotidiano Kathimerini, in base ai dati resi noti ieri dalla Banca Centrale Europea (Bce), nel solo mese di aprile dalle banche elleniche sono stati ritirati oltre cinque miliardi di euro. Dopo tali prelievi, i depositi dei greci alla fine del mese ammontavano a 133,7 miliardi di euro, contro i 138,6 miliardi nel mese di marzo. Si tratta del dato più basso dal novembre 2004, quando i depositi ammontavano in totale a 137,2 miliardi di euro.

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Brasile: la B di brics fuori dalla nuova banca?


Da Buenos Aires, Dario Clemente. La notizia è passata praticamente inosservata ovunque, Italia compresa. Ad inizio mese la banca centrale brasiliana ha cercato di bloccare i trasferimenti finanziari destinati alla capitalizzazione della “banca dei Brics”, il fondo comune di sviluppo da cento miliardi di dollari approvato al VI meeting nel luglio scorso.

Come ha rilevato  J. Carlos de Assis, economista dell’Università Federale di Rio de Janeiro, l’atto, più che indirizzato a salvaguardare le riserve estere del paese, appare come un sabotaggio politico contro l’emancipazione del Brasile dal circuito classico Banca Mondiale-Fondo Monetario Internazionale.

De Assis afferma infatti che il trasferimento non indebolirebbe affatto la posizione finanziaria brasiliana, e che anzi quei soldi verrebbero reinvestiti dalla nuova banca nell’economia reale, e non tenuti a generare interessi (comunque più bassi) sotto forma di titoli pubblici statunitensi, come avviene ora. Per de Assis il fondo costituito dai paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) potrebbe costituire la prima potenziale crepa nel sistema finanziario implementato dagli Stati Uniti negli ultimi 60 anni: una banca sviluppista legata alla produzione e non una “stamperia di soldi” come la Federal Reserve statunitense o la Bce. Conclude chiedendo la nazionalizzazione della banca centrale brasiliana, o almeno che Dilma la “rimetta in riga” per non spaventare i partner cinesi.

La notizia è l’ennesima tegola per il governo dall’inizio del Dilma Bis, che a soli 7 mesi dalle ultime elezioni presidenziali ha già accumulato una serie di “sgambetti” dall’alleato-avversario PMDB.

Come avevamo raccontato l’indebolimento alla camera e al senato del Partito dei Lavoratori ha infatti causato uno sbilanciamento verso i partiti di centro della coalizione, come il “Partito del Movimento democratico del Brasile”, il più grande del paese e, secondo molti commentatori, il vero ago della bilancia della politica brasiliana.

Il PMDB ha infatti più parlamentari del Partito dei lavoratori (PT) sia alla camera che al senato e guida un blocco che può essere determinante se si schiera con l’opposizione contro il governo. Ciò e avvenuto in numerose occasioni, a partire dall’elezione a presidente della camera di Eduardo Cunha, del PMDB, che ha lasciato fuori il PT dalla “Mesa Diretora”, dove si definiscono le commissioni e si scandisce il programma parlamentare. In seguito il governo è andato in minoranza in varie votazioni e sui temi più svariati.

Dall’abbassamento dell’età penale alla legge previdenziale, dalla trasparenza bancaria al finanziamento degli stati regionali, mostrando che il ferreo controllo del parlamento dell’era Lula e un lontano ricordo. Fallito invece il tentativo di riforma della legge elettorale, osteggiata dal PT. In ogni caso questa temporanea battuta d’arresto non dovrebbe frenare l’adesione del Brasile alla “banca brics”, il massimo successo in politica estera della presidenza di Dilma Rousseff. Creato nel luglio passato dopo due anni di trattative, è ancora un oggetto misterioso.

Da un lato è celebrato come sostituto della Banca mondiale e dell’FMI, in seguito al fallimento delle trattative per democratizzare il funzionamento e la direzione delle due istituzioni internazionali da parte dei paesi in via di sviluppo. Dovrebbe a breve iniziare a poter realizzare prestiti ed essere affiancato da un “fondo di stabilizzazione” di emergenza con un capitale di altri 100 miliardi di dollari (e una divisione in quote similare a quella della banca, il 40% messo da cinesi, il 55% tra Brasile, Russia de India de il restante 5% dal Sudafrica).

Dall’altro, nelle parole dei critici di sinistra  ma anche degli stessi proponenti del progetto, come il sottosegretario brasiliano José Alfredo Graça Lima, è chiaro che le strutture finanziarie che il gruppo dei Brics sta creando non vogliono essere alternative all’attuale architettura puntellata dagli U.S.A., ma “complementari” ad essa.

Al centro delle critiche la scelta di continuare ad utilizzare i dollari negli scambi reciproci, ma soprattutto di aver costruito una “alternativa” al sistema del Fondo Monetario Internazionale che in realtà non lo è, avendone ricalcato il funzionamento delle quote (e la “responsabilità’ bancaria” dei vari aderenti) e rimanendo la maggior parte dei potenziali prestiti legati al sistema dell’FMI.

Guardando oltre il livello economico, però, la banca dei Brics è già un successo geopolitico. A margine delle trattative tra il governo greco e la Troika, non è passato inosservato, di sicuro non agli statunitensi, il corteggiamento al governo di Atene da parte dei Brics Cina e Russia. Quest’ultimi sono arrivati infatti a proporre alla Grecia, tramite il ministro delle finanze Sergei Storchak, di aderire al fondo dei Brics, offrendo al governo di Tsipras anche la possibilità di realizzare scambi commerciali con il Rublo, bypassando cosi il dollaro.

L’attivismo russo però non è niente a confronto di quello cinese, con il governo di Pechino a rimanere il chiaro protagonista della scena.

Con l’adesione della Svizzera, il nuovo Banco Asiatico di Investimenti in Infrastrutture (BAII, altri 100 miliardi di dollari di budget) sale a 35 membri, che vanno dall’India all’Australia, passando per il Regno Unito, Francia, Germania e Italia.

L’ultima creatura cinese serve a contrastare il Banco Asiatico di Sviluppo controllato da Stati Uniti e Giappone. Assieme alla costruzione della nuova “via della seta”  rappresenta un tassello ulteriore in quello che ormai pare un vero e proprio tentativo di “accerchiamento” ai danni di una leadership statunitense sempre più in difficoltà a contenere l’iniziativa cinese e a convincere i suoi alleati a restare fuori dalla “ragnatela” finanziaria che Pechino sta lentamente tessendo.

In questo senso potrebbe non essere del tutto fuori strada chi  parla del fondo dei Brics come un tentativo cinese di “mascherare” la propria ascesa, scegliendo nuovamente di utilizzare il soft power e scartare l’opzione di utilizzare strategie ancor più marcatamente aggressive nei confronti di Washington.

Nel frattempo il primo ministro cinese Li Keqiang ha visitato il Brasile accompagnato da 150 impresari cinesi, a solo un anno dal viaggio del presidente  Xi Jinping e ha firmato un accordo di cooperazione tra i due paesi che si protrarrà fino al 2021.

La Cina, primo partner commerciale del Brasile dal 2009, verserà più di 53 miliardi di dollari per onorare 35 nuovi contratti, che coinvolgono anche le multinazionali brasiliane Petrobras, Vale e Embraer e prevedono fra l’altro la costruzione di una ferrovia transoceanica che dovrebbe unire il paese al pacifico attraversando il Peru.
 
Inoltre è stata annunciata la creazione di un fondo di ulteriori 50 miliardi da parte della Cassa Economica Federale brasiliana e il Banco Industriale e Commerciale della Cina (ICBC) dedicato agli investimenti in infrastruttura in Brasile, che rimane un settore strategico per la penetrazione del capitalismo cinese all’estero.

La sinergia tra i due paesi Brics pare insomma svilupparsi anche senza i prestiti del neonato fondo comune di investimento, e verrà sicuramente rafforzata dalla sua entrata in funzionamento.

L’integrazione economica regionale e la proiezione internazionale attraverso l’alleanza Brics guidata dalla Cina sono il nuovo tavolo da gioco che il Brasile in versione “global player” si è guadagnato da tempo. E nonostante i rallentamenti causati dalla Banca centrale e dal parlamento, non sembra disposto a lasciarlo a breve.

I ferrovieri tedeschi vincono: +5,1% di aumento

Deutsche Bahn, la società ferroviaria tedesca, ha raggiunto un accordo, dopo difficili trattative, con il sindacato Evg, che rappresenta il personale di bordo (controllori, camerieri, personale agli sportelli).

L'accordo prevede un aumento salariale del 5,1%, poco meno del 6% chiesto dal sindacato, che entrerà in vigore in due tappe: la prima, pari al 3,5%, dal primo luglio e la seconda, dell'1,6%, dal maggio 2016. Il rinnovo ha una durata di 16 mesi e, secondo gli esponenti del sindacato, porterà circa 120 euro in più al mese nelle tasche degli iscritti. E' previsto, inoltre, il pagamento di una somma una tantum di 1.100 euro a testa.

L'altro ieri è iniziato anche l'arbitrato per risolvere il contenzioso con il sindacato dei macchinisti, Gdl, che negli ultimi mesi ha dichiarato ben nove giornate di sciopero.

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Fortuna che a sentire i corporativisti (fasci) di casa nostra la lotta sindacale e di classe non paga.
Andatelo a dire nella "vostra" Germania felix...

A dirigere l'Expo ci vogliono esperti. In evasione fiscale?

Proprio non ce l'hanno fatta a trovare una persona senza macchia per dirigere un baraccone infame come l'Expo 2015. Anche il nuovo presidente, nominato all'ultimo momento dopo una serie infinita di scandali e arresti tra i manager precedenti, è finito sotto inchiesta della procura di Milano. Per evasione fiscale e appropriazione indebita. E non per spicciolo: un milione di euro è la cifra che sarebbe stata "imboscata" da Diana Bracco, presidente di Expo 2015 Spa, inizialmente nominata da Mario Monti come "commissario" del solo Padiglione Italia, infine designata come presidente dalla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Milano ("investito dei più ampi poteri per la gestione ordinaria e straordinaria della Società con facoltà di compiere tutti gli atti ritenuti opportuni per il conseguimento dell’oggetto sociale").

Si vede che nei ristretti circoli della "classe dirigente" italica non si può entrare senza qualche "peccatuccio" ai danni della cosa pubblica...

Gli addebiti non riguardano la gestione dell'Expo (non ce ne sarebbe stato forse neppure il tempo materiale...), ma le attività svolte in qualità di presidente del cda della Bracco spa. L'indagine è stata già conclusa, con il sequestro di circa 1 milione di euro. In pratica, le si contesta l'emissione di fatture false che sarebbero servite a "condire" lavori su case private e barche.

L'inchiesta è stata coordinata direttamente dal procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati, tramite il procuratore aggiunto Francesco Greco e dal pm Giordano Baggio. Alla fine "è stato notificato un avviso di conclusione delle indagini" a carico di Diana Bracco, di Pietro Mascherpa, presidente del Cda di Bracco Real Estate srl, e di due architetti dello studio Archilabo in Monza, Marco Pollastri e Simona Calcinaghi.

Dalle indagini "è emerso che fatture" per oltre 3 milioni di euro, confluite nella contabilità e nelle dichiarazioni fiscali "presentate dalle società del gruppo Bracco per i periodi di imposta dal 2008 al 2013", erano riferite "all'esecuzione di forniture o di prestazioni rese presso locali in uso alle medesime società ma effettivamente realizzate presso immobili e natanti di proprietà, ovvero nella disponibilità" di Diana Bracco e del defunto marito Roberto De Silva.

Il 5 marzo la Gdf ha eseguito un decreto di sequestro preventivo nei confronti di Diana Bracco per 1 milione e 42 mila euro "corrispondente all'importo totale dell'imposta complessivamente evasa per effetto dell'utilizzo delle predette fatture".

A Diana Bracco viene contestata inoltre un'appropriazione indebita da circa 3,6 milioni di euro. Secondo gli inquirenti avrebbe usato i soldi delle sue società per fini privati e soprattutto in relazione a lavori di ristrutturazione di alcune sue case.

Un anno fa, all'inizio di maggio, finirono arrestati l'allora direttore generale di Expo 2015 Spa, Angelo Paris, l'ex senatore di Forza Italia, Luigi Grillo, l'ex segretario amministrativo della Dc milanese, Gianstefano Frigerio (ex Forza Italia), l'ex segretario dell'Udc ligure Sergio Cattozzo, l'imprenditore Enrico Maltauro e Primo Greganti, il «compagno G» protagonista silenzioso (nel senso che non ha mai confessato) della stagione di Tangentopoli. Agli arresti domiciliari finirono invece invece Antonio Rognoni, ex direttore generale di Infrastrutture lombarde, coinvolto un mese prima in un'altra inchiesta della procura di Milano.

Per fare certe cose, ci vuole orecchio...

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Povera università, ridotta a nominare la "Miss Chirurgia Plastica"...

Non c'è bisogno di ricordare al grande pubblico quali sono i meriti che il nostro sistema universitario, da qualche anno a questa parte, può annoverare nel proprio curriculum: preparazione al lavoro gratuito, organizzazione aziendale della formazione, mercificazione del sapere. Ma da oggi l'università nostrana potrà vantarsi anche di patrocinare un concorso di bellezza.

Poche settimane fa, il Magnifico Rettore dell'università di Roma La Sapienza ha presieduto la giuria di Miss Università 2015, accompagnato da un chirurgo plastico, un marchese, un giudice della corte d'Assise e alcuni personaggi dello spettacolo: uomini di potere e d'intrattenimento quindi, riuniti al “luxury gaming hall” Billions di Roma per premiare la “studentessa più bella e sapiente degli atenei italiani”.

Come ci si potrà aspettare, dato il carattere spiccatamente culturale della “prestigiosa” iniziativa, le valutazioni non sono state date solo sulla base dell'aspetto fisico ma tenendo in considerazione anche il curriculum universitario delle ragazze: per partecipare a Miss Università infatti sono richieste, oltre alla misura di seno e fianchi, anche la media dei voti e il numero di esami sostenuti.

Già da qualche anno diversi atenei si avvalgono di alcune ragazze immagine per “reclutare” iscritti, il che è indicativo di come sia ancora viva nella società lo stereotipo della bellezza e, implicitamente, di quale sia il ruolo della donna.

Il concorso di Miss Università fa sorridere molto, ma la gravità con cui si accostano la media dei voti e la taglia di reggiseno è (o dovrebbe essere) quanto di più umiliante possa esserci per una giovane studentessa. Bellezza e intelligenza diventano, anche ufficialmente, due categorie perversamente equiparabili. Ma non è finita qui, perché avere una bella presenza potrebbe non bastare in questo mondo spietato, e forse un aiutino fa sempre comodo: le prime dieci classificate hanno vinto l'incredibile possibilità di perfezionare il loro aspetto in una delle cliniche estetiche di La Clinique, sponsor ufficiale dell'evento. D'altronde di cos'altro potrebbe aver bisogno una bella e sapiente laureanda, lanciata verso una vita di precarietà e sfruttamento?

Questa grottesca pantomima diventa l'emblema della direzione che ha preso il mondo della formazione, non più luogo di saperi e conoscenza, ma piuttosto l’anticamera di un sistema in ristrutturazione, progettata per abituare i futuri lavoratori (e viene quasi da ridere nel pronunciare questa parola) a quelli che sono criteri di selezione aziendale razzisti e, in questo caso, sfacciatamente sessisti. Per le donne inoltre, si prospettano tempi di crisi anche peggiori, esclusione lenta dal mercato del lavoro, lavoro domestico, ruolo di velina o dama di compagnia. Dimenticatevi dunque l'università dove si studia, si discute e si progetta di cambiare il mondo, perché qui al massimo ci si cambia il naso, in barba all’emancipazione raggiunta con le lotte del secolo scorso.

Eccoci quindi di fronte a un doppio binario inquietante ma - è bene rendersene conto - reale e ben avviato: da un lato un'alta formazione di serie A (o meglio, di "classe A"...), strutturata per la formazione politica e scientifica della futura classe dirigente italiana ed europea, dall'altro un laureificio di massa di serie B, che parcheggia i più in facoltà senza un soldo, inducendo a rincorrere finte opportunità - i 20.000 posti non pagati dell'EXPO, per esempio.

Iniziative come il Carreer Day, in cui le multinazionali entrano a testa alta nelle università per offrire un'opportunità lavorativa a uno su un milione, o come il concorso Miss Università, che seleziona qualche (bella) ragazza per completare il suo curriculum di un merito inesistente, contribuiscono, offrendo seppur pochissimi posti di lavoro, ad alimentare la speranza dei “parcheggiati” che queste iniziative siano realmente opportunità di avere una vita migliore. “Vai a lavorare gratis per l'EXPO, che magari conosci qualcuno”, dicono... e intanto o emigri, o fai una sfilata (e forse ti va bene), o sei disoccupato: a te la scelta.

Ma per fortuna c'è sempre qualcuno che va al nocciolo del problema e commenta “Certamente la serata e l’evento, che appare ben congegnato e quindi con alle spalle una laboriosa preparazione, ci pone inevitabilmente qualche interrogativo, di spessore variabile, dai più semplici ai più complessi. Il primo è senz’altro immediato e naturale e richiede una riflessione che desidero proporre a tutte e tutti: perché Miss Università e non, anche, Mister Università?...”

Sarcastico o meno il senso di questo commento, il femminismo in Italia ha decisamente bisogno di ripetizioni.

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Agli amici in buona fede che votano Pd

La politica esige spirito di parte, questo è ovvio, e siamo tutti un po’ partigiani e un po’ tifosi, portati ad essere indulgenti con la propria parte e severi con gli avversari, a ingigantire la pagliuzza nell’occhio altrui ed ignorare la trave nel proprio. Va bene: ci sta. Ma ci sono limiti oltre i quali la partigianeria sfocia nell’autolesionismo e questa tornata elettorale è il banco di prova.

Ovviamente non mi rivolgo a chi sa perfettamente cosa è l’attuale Pd ed è contento che sia così. Mi rivolgo a quelli in buona fede che pensano ancora che il Pd sia un partito, se non di sinistra, di centro-sinistra, che magari si accorgono che sta andando a destra, ma che pensano si tratti di una sbandata momentanea, soprattutto a quelli che continuano a pensare (o a illudersi) che il Pd incarni la tradizione della battaglia per la “questione morale” e per un diverso e preferibile modello di civiltà. E so che non sono pochi.

Ed allora, ditemi sinceramente: chi può pensare che, sotto questo profilo, la vittoria della coalizione Piddino-camorrista di De Luca possa essere un episodio auspicabile?

Sarebbe la vittoria del più spregiudicato trasformismo, il trionfo dell’impresentabilità, la celebrazione del peggiore cinismo morale. Insomma: il capo di questa coalizione è un condannato in primo grado e perciò stesso ineleggibile (quantomeno per ora); sono un garantista e penso che anche De Luca abbia diritto alla presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva, ma in sede politica le cose si valutano con un metro diverso: bisogna avere la sensibilità di non presentarsi alle elezioni sino a quando non si sia chiarita la propria posizione. Il rappresentante istituzionale non deve avere ombre, qui, altro che ombra: c’è una condanna in primo grado! Il fatto stesso che De Luca non abbia avuto la sensibilità di capirlo e farsi da parte, me lo presenta molto male.

Proseguiamo: la sua coalizione include candidati di cui il segretario nazionale del partito (dico il segretario nazionale) dice che gli fanno schifo. Con che stomaco si può votare una cosa del genere? Ma, mi direte, altrimenti vincerebbe Caldoro. Va bene, vincerà Caldoro, pazienza! Non è stato il peggiore dei governatori e, se ha i suoi impresentabili, però ne ha un po’ meno dell’altro; comunque sarebbe la continuità di qualcosa che c’era, non sarebbe una novità peggiorativa. Votare De Luca significa dire: “E’ così che si vince, dobbiamo ripetere l’esperimento e non ci importa nulla dei profili morali”. Ora, è possibile che ci sia chi non trovi motivo di imbarazzo a promuovere alleanze con pregiudicati, ndranghetisti, mafiosi,  fascisti, tangentisti, spacciatori, macrò, biscazzieri ed appestati vari. Sarete serviti: se De Luca vince le liste del Pd di tutta Italia somiglieranno sempre più ad associazioni a delinquere. Per carità: tutti i gusti son gusti, ma se qualche altro magari sogna un Pd in grado di tornare indietro da questo degrado, di darsi una ripulita, non può fare altro che negare il suo voto a De Luca.

Molti mi diranno, ma io non voto in Campania, sono in un’altra regione. Giusto. Però se, in una regione importante e delicata come la Campania, dove c’è bisogno più che altrove di pulizia morale e di legalità, un partito presenta una lista come quella, non è solo un fatto locale, ma nazionale e qualche bacchettata sulle dita la merita dappertutto. In fondo, anche la Dc non era fatta solo da Gava, Lima, Ciancimino ecc. però noi (scusate ho una certa età) la attaccavamo in tutta Italia per non sapersi liberare di certe situazioni. Perché per il Pd non dovrebbe valere questa sana regola?

E poi non si tratta solo della Campania. Prendiamo la Puglia: liste di partito e fiancheggiatrici zeppe di fascisti dichiarati, forzitalioti  transumanti, parenti di malavitosi, persone con carichi pendenti… E i risultati si vedono: spunta il caso di un candidato che fa apertamente offerte di denaro per avere il voto (ed è anche un po’ tirchio, aggiungo) al punto che si apre una inchiesta per voto di scambio.

Siamo disposti a dimenticare le disavventure ittiche del candidato Presidente (va bene: può succedere e, alla fine, se la cosa non è di buon gusto, non è neppure un reato), ma ve la sentite di votare per una coalizione del genere?

Ma, mi direte, il Sud è sempre il Sud… situazione difficile… Io abito altrove.

Va bene. Allora parliamo della Liguria: candidata Presidente indagata per reati contro la Pubblica amministrazione, ma, soprattutto, che ha prevalso alle primarie grazie ai voti di quelli di Forza Italia e grazie ai brogli denunciati da Cofferati ed ignorati dalla Direzione Nazionale. Ve la sentite di votare una cosa così?

In Marche ed in Umbria le cose non sono a questi livelli, ma non manca qualche “cavallo zoppo” neanche in quelle scuderie, e ci sarebbe molto da ridire (sul piano politico, sia chiaro) su come quelle due regioni sono state amministrate e sull’immobilità sociale e politica in cui giacciono, ma qui andremmo sul difficile e sull’opinabile.

Restiamo al pian terreno: quello della decenza. Vi rendete conto che il Pd (e prima il Pds o i Ds) non hanno mai presentato liste così sconce?

Non vi sembra venuto il momento di intimare un alt – ed in tutta Italia – a questa galoppante degenerazione?

Può darsi – io non ne sono persuaso – che il Pd sia ancora in tempo a ripulirsi e tornare al suo ruolo di partito di sinistra, di sicuro questo non avverrà se non dovesse subire la meritata sconfitta in questa occasione. Di questo passo, cari amici iscritti ed elettori del Pd, finirete per trovarvi Messina Denaro come Presidente e Alessandra Mussolini come segretario e verrete ancora a dirmi che “è nel partito che si fanno le battaglie… il peso della tradizione… ecc. ecc.”

Pensateci. Almeno un minuto prima di votare, pensateci.

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29/05/2015

Tokyo. Una controversa legge contro il karoshi, 'la morte per troppo lavoro'

Sono parecchie decine all’anno le morti registrate in Giappone per super-lavoro, una vera e propria patologia conosciuta come “karoshi”, e centinaia quelle connesse a un eccessivo impegno lavorativo che incentiva problemi cardiaci, infarti, ictus, suicidi. Una casistica ampiamente documentata e considerata che è alla base di numerosi provvedimenti che nel corso degli ultimi anni hanno cercato di propiziare o imporre giornate lavorative più brevi e ferie obbligatorie anche se con scarsi risultati.

Mostrare dedizione alla propria azienda attraverso il sacrificio e non lasciare mai il posto di lavoro prima del proprio datore di lavoro o del proprio superiore è un atteggiamento diffuso e incoraggiato nel paese. Secondo uno studio del governo il 16% dei lavoratori non ha usufruito di nessuno dei giorni di ferie che gli spettavano nel 2013, una quota doppia non ha usufruito dell’intero periodo di riposo che pure la legge gli garantisce e nello stesso anno il 22.3% dei dipendenti ha lavorato almeno 50 ore settimanali.

Il governo giapponese ha recentemente presentato un progetto di legge con l’apparente obiettivo di ridurre l’orario di lavoro nelle aziende e ridurre quindi le morti causate da troppo lavoro. A sostegno del provvedimento si è schierata la Confindustria Giapponese (Keidanren) e altre organizzazioni imprenditoriali che ritengono che l’iniziativa possa meglio premiare l’impegno e le capacità offrendo la possibilità di utilizzare il tempo in modo autonomo con maggiori possibilità di riposo e di svago.

L’obiettivo dichiarato della legge è ridurre almeno del 5% cento il numero di persone che lavorano più di 60 ore a settimana entro il 2020, rispetto al 9% nel 2013, anno in cui sono stati registrati almeno 2.323 suicidi legati al lavoro.

La bozza di legge annunciata questa settimana dal Partito liberal-democratico, la formazione guidata dal nazionalista Shinzo Abe al potere nel paese, incoraggia le imprese ad abbassare l’orario di lavoro e gli impiegati a usufruire delle ferie, esentando però dal rispetto dell’orario lavorativo massimo – che comunque rimane molto alto e nettamente al di sopra della media di tutti i paesi sviluppati – dirigenti aziendali, professionisti e consulenti con un reddito superiore a 10,75 milioni di yen all’anno, circa 80.600 euro.

Per questo la legge è stata criticata, perché la scelta della nuova organizzazione del tempo lavorativo, che rimane volontaria, rischia di trasformarsi in un incentivo al lavoro non retribuito con orari ancora più prolungati incentivando e non combattendo il karoshi. Come denunciato dall’accademico Koji Morioka, la legge – che riguarderebbe circa 1,8 milioni di individui, quindi solo il 4% della forza-lavoro complessiva del paese – esenterebbe le aziende al pagamento degli straordinari.

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Il Parlamento Europeo vota a favore del Ttip. Decisivi popolari e socialisti

L'europarlamentare della Sinistra Europea/Gue/Lista Tsipras, Eleonora Forenza, poco fa ha diffuso una nota nella quale si informa di come sono andate le cose oggi alla Commissione Commercio Estero del Parlamento Europeo relativamente al Ttip il trattato euroatlantico di liberalizzazione totale che mette il nostro mondo in mano alle multinazionali. La Commissione ha votato a favore del TTIP con 28 voti a favore e 13 contrari. Qui di seguito la nota informativa di Eleonora Forenza:

«Poco fa in Commissione Commercio Estero al Parlamento europeo si è votato sul TTIP il parere della Commissione in vista del prossimo voto in sessione plenaria dell’Europarlamento: la maggioranza formata soprattutto dalla grande coalizione tra socialisti e popolari ha votato di fatto a favore dell’inserimento della clausola ISDS sotto altro nome, la clausola cioè che permetterebbe alle multinazionali di fare causa agli Stati che volessero tentare di mantenere una normativa a difesa dei diritti dei cittadini. Non solo, hanno votato anche un emendamento contro le politiche per contrastare i cambiamenti climatici: la grande coalizione ancora una volta si schiera contro i cittadini e la democrazia.
Il mio voto su questi punti è stato ovviamente negativo e mi sono espressa anche contro il meccanismo della cooperazione regolatoria, che darebbe un potere enorme alle multinazionali. Ho votato inoltre perché non vi siano i servizi pubblici all’interno di questo accordo e più precisamente abbiamo chiesto che i cittadini possano sapere cosa sarà incluso nel trattato e cosa no. Conseguentemente mi sono espressa con voto contrario sull’intero parere della Commissione.
Continua in ogni caso la nostra battaglia contro un trattato che rischia di mettere in pericolo la nostra democrazia, la nostra produzione agroalimentare e i nostri diritti: il prossimo 10 giugno in plenaria voteremo nuovamente e serve la massima mobilitazione dei cittadini, delle associazioni, di tutte e tutti. Ora e sempre #stopTTIP».



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Già finita la "ripresa" Usa

Per quasi un anno ci hanno tormentato con la propaganda: l'economia americana tira, è in ripresa, si creano posti di lavoro, grazie al (lunghissimo e generosissimo) quantitative easing deciso dalla Federal Reserve. E in effetti qualche semestre di "rimbalzo" c'è stato. Del resto non mancavano i buoni motivi: denaro disponibile in quantità illimitata a costo zero (e anche meno, per qualche mese), salari fermi o in ribasso (vedi alla Chrysler di Sergio Marchionne, dove i ri-assunti dopo il fallimento hanno dovuto accettare decurtazioni del 50%), dollaro di conseguenza debole, ovvero una bella mano alle esportazioni, prezzo del petrolio in calo grazie al "fracking" proprio sul territorio Usa...

Insomma, lo stesso elenco che ci propinano qui nell'Unione Europea. Se voi fate i sacrifici, vi promettiamo che noi cresceremo; fidatevi e vi tireremo fuori dalla crisi. Tutte cazzate. Lo si deve dire alto e forte.

Nel primo trimestre di quest'anno l'economia americana ha bruscamente inchiodato, perdendo lo 0,7% del Pil. I soliti analisti si aspettavano una "frenatina", cioè un rallentamento nella crescita, dello 0,2%. Ma non una botta del genere. Negli ultimi tre mesi del 2014, infatti, il Pil era cresciuto del 2,2%.

Si tratta del dato peggiore dal 2011. Il governo statunitense, nel comunicare i dati, ha provato anche a fornire una spiegazione: il deficit commerciale in aumento, visto che il dollaro era tornato più forte (conseguenza dei quantitative easing europeo e giapponese), e il calo dei consumi (se i salari fanno schifo, come vuoi che la gente compri?).

Ora, laggiù, è immediatamente partito il coro dei minimizzatori: "sono solo fattori temporanei, non vi preoccupate". Si dà la colpa al maltempo, all'euro debole e allo yen debolissimo, prefigurando di fatto una rinuncia - da parte della banca centrale Usa - a rialzare i tassi di interesse inchiodati a zero da quasi cinque anni.

Nessuno che si chieda come mai, se tutte le banche centrali del mondo sviluppato stampano e prestano denaro a più non posso (che finisce alle banche private), l'economia reale non si schioda dai livelli infimi cui è precipitata da sette anni a questa parte.

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Alla fine Confindustria sposa la linea Marchionne

"Il presidente del Consiglio, accompagnato anche dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, si è recato all'unità di montaggio dello stabilimento arrivando in una Jeep Renegade rossa (una delle auto che ha rilanciato la fabbrica lucana): alla guida l'ad di Fca, Sergio Marchionne, al lato passeggeri il premier e sul sedile posteriore il presidente di Fca, John Elkann".

L'incipit dell'agenzia Ansa ci riporta direttamente alla retorica dei comunicati radiofonici dell'Eiar, come si chiamava l'attuale Rai in epoca fascista. E spiega, indirettamente, perché Matteo Renzi abbia preferito lo spot elettorale con Sergio Marchionne in quel di Melfi al palcoscenico allestito da Confindustria in un padiglione dell'Expo.

Lì c'è "l'impresa che funziona" e fa profitti, a Milano quella che arranca. Lì c'è chi ha creduto in lui fin dall'inizio (ormai proverbiale la battuta di Marchione su "Renzi? Ce lo abbiamo messo noi..."), nell'altra platea una massa di interessi diversi, con referenti politici altrettanto sfrangiati.

Chiaro chi ha vinto e chi deve adeguarsi, anche controvoglia. Basta leggersi il post scriptum dell'editoriale di Dario Di Vico, sul Corriere della Sera: "Secondo le anticipazioni diffuse da fonti ufficiali, nel testo del presidente a proposito di relazioni industriali avrebbe dovuto esserci un accenno alla possibilità di derogare ai contratti nazionali di lavoro. Un’affermazione che avrebbe dato pienamente ragione ex post a Sergio Marchionne e forse per questo motivo è stata accantonata. Però il gruppo dirigente della Confindustria sembra comunque intenzionato a percorrere questa strada".

Il punto stabilito da Marchionne con il "modello Pomigliano" è marmoreo: niente più contratti nazionali di lavoro, solo accordi aziendali e sulla base delle priorità dell'impresa. Le "deroghe" sono, in questo quadro, solo dei sotterfugi temporanei per svuotare dall'interno la contrattazione "vecchio tipo", in attesa di un quadro legislativo (o concordato tra le parti sociali) che assuma pienamente il nuovo modello.

All'interno di questo quadro c'è anche la cancellazione della rappresentanza sindacale. O almeno l'esclusione di quelle forme di rappresentanza che non riconoscono l'interesse dell'azienda come l'unico faro e limite da rispettare. Insomma, basta con quella "vecchi" storia che il sindacato deve fare gli interessi dei lavoratori, magari contrapposti a quelli dell'impresa. Le sortite renziane sul "sindacato unico", corporativo e aziendalista, sono la faccia politico-governativa di una spinta alla riduzione dell'ex sindacato complice a "camera di compensazione" delle relazioni industriali, a funzione dipendente dall'"ufficio del personale".

E qui il quotidiano di Confindustria, IlSole24Ore, risponde con un altro editoriale, di Alberto Orioli, che prende di petto proprio "La frontiera aziendale", indicando la cornice entro cui dovrà muoversi la nuova contrattazione. "All’intero sistema industriale serve un quadro di riferimento certo nel governo della variabile costo del lavoro e soprattutto servono nuovi criteri razionali per agganciarlo a parametri esigibili di produttività e redditività dell’azienda e del lavoro". Il salario agganciato alla produttività dell'azienda è un concetto "smart" che nasconde una realtà un tantino più hard: se guadagno in produttività ti posso pagare un po' di più, altrimenti nisba.

Ma la produttività si aumenta solo in due modi, in regime capitalistico: o con investimenti in tecnologie produttive oppure aumentando l'orario e l'intensità della prestazione lavorativa. Se le imprese non investono (rimprovero mosso anche dal governatore della Banca d'Italia, l'altro ieri), resta una sola strada. Miope e suicida (gli "emergenti" sono imbattibili su questo fronte), ma quasi obbligata: strizzare sangue dalle rape, obbligando i dipendenti a lavorare più a lungo e più intensamente. Di qui anche la necessità di ridurre a zero il potere contrattuale del singolo lavoratore, puntandogli alla testa la pistola della minaccia di licenziamento, finalmente regalata dal governo con l'abolizione totale dell'art. 18. Di qui anche la necessità di eliminare le forme di rappresentanza sindacale autentica, conflittuale.

Resta sullo sfondo del "nuovo" discorso confindustriale la natura minacciosa dell'Unione Europea "tedesca" - si può sintetizzare così la lunga sequenza di lamentele su una Ue " senza anima e cuore", sul "rigorismo eccessivo", sulla tragica tentazione di "arroccarsi intorno al nucleo duro dell'eurozona" - che, non potendo essere messa in discussione dall'industria, dovrebbe essere modificata dalla "politica". Ossia da questi poveri personaggi in cerca d'autore - Renzi, Boschi, Madia et similia - gettati sul palcoscenico mediatico a recitar la parte degli "innovatori".

Certo che gli industriali italiani non sanno far altro che darsi la zappa sui piedi...

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Dai servizi segreti turchi una montagna di armi per lo Stato Islamico

Torna a divampare la polemica in Turchia a proposito del sostegno del governo e degli apparati dello stato turco ai tagliagole fondamentalisti dello Stato Islamico. E di nuovo, come già più volte in passato, non si tratta di voci ma di prove. A ricordare il ruolo del governo Erdogan nel dilagare dei jihadisti in Iraq e Siria è stato il quotidiano turco Cumhuriyet che oggi ha pubblicato alcune fotografie e un video che accreditano la tesi, finora smentita con veemenza dal governo islamista e liberista dell’Akp, che all’inizio del 2014 ci siano state consegne di armi ai fondamentalisti siriani che stanno seminando morte e distruzione in numerosi paesi dell’area.

Secondo il quotidiano le immagini pubblicate sono quelle riprese da polizia e gendarmeria durante un controllo alla frontiera con la Siria, nelle province di Hatay e Adana, che portarono poi al sequestro del carico di un camion, mentre altri tre riuscirono a passare.

Nell'edizione cartacea e sul sito internet, il quotidiano ha diffuso immagini di alcune casse piene di proiettili di mortaio nascoste in un camion sotto materiale medico, ufficialmente messo a disposizione da un'organizzazione umanitaria ma intercettato nel gennaio del 2014 dalla gendarmeria turca nei pressi della frontiera siriana. L'operazione di polizia si è trasformata in uno scandalo politico quando su internet furono pubblicati alcuni documenti ufficiali in base ai quali gli autocarri risultavano di proprietà dei servizi segreti turchi (Mit) e trasportavano armi e munizioni destinate ai ribelli islamisti che vogliono rovesciare i governi di Baghdad e Damasco.


Secondo Cumhuriyet, i camion intercettati – tre su quattro riuscirono a passare grazie alle minacce contro i poliziotti da parte di alcuni membri del Mit che li scortavano – trasportavano un migliaio di proiettili di mortaio, 80mila munizioni di piccolo e grosso calibro e centinaia di lanciagranate, messi a disposizione da Paesi dell'ex blocco sovietico. Secondo diverse testimonianze, i tir in questione avrebbero fatto almeno duemila viaggi. Ad esempio l'autista del camion bloccato ha testimoniato che il carico era stato scaricato da un aereo straniero e che viaggi simili erano già stati compiuti diverse volte. E' evidente che la quantità di armi consegnate – vendute o forse addirittura donate – alle milizie jihadiste sarebbe di proporzioni enormi.

Il governo, che ha sempre sostenuto che a bordo dei camion ci fossero soltanto degli aiuti umanitari diretti ai civili, ha imposto finora sulla questione un ferreo black out ai media, imponendo la censura anche sui social media. Nel frattempo l'esecutivo ha fatto di tutto per bloccare l'inchiesta, accusandone i promotori di essere i veri responsabili degli aiuti ai jihadisti. La polizia ha finora arrestato un cinquantina tra gendarmi, militari e magistrati coinvolti nel fermo e nel sequestro del camion nel tentativo di addebitare ad alcuni ‘apparati deviati’ il sostegno all’Is e di scagionare l’esecutivo e i servizi segreti.

«Le nostre indagini hanno portato alla conclusione che alcuni ufficiali dello Stato hanno aiutato a consegnare le armi», ha dichiarato il pubblico ministero Ozcan Sisman, che ha avviato le indagini nel novembre del 2013 dopo aver ricevuto una soffiata. Attualmente Sisman, insieme ad un altro pubblico ministero che ha condotto analoghe indagini, Aziz Takci, si trova però sotto processo con l’accusa di aver condotto «ricerche illegali» e di aver rivelato «segreti di Stato».

Addirittura il presidente Recep Tayyip Erdogan ha attribuito la responsabilità dello scandalo alla confraternita dell'imam Fethullah Gülen, suo ex alleato e mentore e ora in guerra con la leadership di Ankara.

Ma le rivelazioni odierne di Cumhuriyet potrebbero rivelarsi un grave problema a pochi giorni dalle elezioni generali del prossimo 7 giugno. Anche perché è tutto da dimostrare che gli invii di armi ai fondamentalisti si sia fermato all’inizio dello scorso anno. Numerose sono le prove e le testimonianze assai recenti di un atteggiamento assai tollerante da parte delle forze armate di Ankara nei confronti dei tagliagole di Al Baghdadi che possono contare in territorio turco di ospedali in cui curare i feriti, di basi dove addestrare i nuovi adepti e di strutture logistiche dove stoccare armi e materiali di ogni tipo, a pochi chilometri spesso dalla frontiera con la Siria.

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Impresentabili, non solo quelli sulla lista

Intorno alle 14.00 è stato reso noto dalla Commissione Antimafia l’elenco completo dei candidati “impresentabili” alle prossime elezioni regionali. I candidati che secondo la legge vigente – la Legge Severino che è servita a fare fuori Berlusconi tre anni fa – sono presenti sia nelle liste del centro-destra che in quelle del centro-sinistra, più frequentemente nelle liste “collegate” ai candidati presidenti in Campania e Puglia. Qui di seguito l’elenco completo degli “impresentabili”.

I tredici candidati della Campania compresi nella lista dell'Antimafia sono:
Antonio Ambrosio (Forza Italia);
Luciano Passariello (Fratelli d’Italia);
Sergio Nappi (Caldoro presidente);
Vincenzo De Luca (Pd);
Fernando Errico (Ncd-Campania Popolare);
Alessandrina Lonardo (Forza Italia, moglie dell’ex ministro Clemente Mastella);
Francesco Plaitano (Popolari per l’Italia);
Antonio Scalzone (Popolare per l’Italia);
Raffaele Viscardi (Popolari per l’Italia);
Domenico Elefante (Centro Democratico-Scelta Civica);
Biagio Iacolare (Udc);
Carmela Grimaldi (Campania in rete);
Alberico Gambino (Meloni-Fratelli d’Italia-An).

I quattro candidati della Puglia sono:
Fabio Ladisa (Popolari per Emiliano);
Enzo Palmisamo (Movimento per Schittulli);
Giovanni Copertino (Forza Italia);
Massimiliano Oggiano (Lista Oltre con Fitto).

Secondo quanto spiegato dalla Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi, i 17 nomi appartengono a candidati nelle regioni Puglia (in totale 4) e Campania (i restanti 13). Si tratta di candidati alle prossime elezioni che hanno subito condanne giudiziarie e che, per la legge Severino, non sono quindi eleggibili.

Il problema più serio, ovviamente, riguarda il candidato presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, sostenuto dal Partito Democratico; in particolare, l’Antimafia ha segnalato che dagli atti trasmessi dal procuratore della Repubblica di Salerno risulta che pende un giudizio a carico di De Luca, nel procedimento per il reato di concussione continuata commesso dal maggio 1998 e con “condotta in corso”.

La reazione di De Luca non si è fatta attendere ed ha denunciato Rosy Bindi per diffamazione sfidandola poi ad un pubblico dibattito per sbugiardarla.

L'altro nome già noto in Campania è quello della moglie di Clemente Mastella, Alessandrina Lonardo, a carico della quale vi è un procedimento della procura di Napoli, pendente in primo grado, in cui si ipotizza il reato di concussione, con udienza di rinvio fissata al 3 giugno prossimo. Nel certificato dei carichi pendenti viene indicata la concussione tentata e non consumata. Ma le bordate più pesanti contro la presidente della Commissione Antimafia partono proprio dal suo partito: il PD.

Il primo a sparare a palle incatenate contro Rosy Bindi è stato l'ultrà renziano Ernesto Carbone: “Rosy Bindi sta violando la Costituzione”, ha twittato il deputato del PD. “Allucinante che si pieghi la commissione antimafia a vendette interne di corrente partitica”. Pronta la replica della Bindi che in conferenza stampa ha affermato: “Posso non abbassarmi alla risposta a questa domanda?”.

Ma anche dagli Stati maggiori del PD volano frecce velenose: “Come noto non ho mai avuto un buon rapporto con De Luca. Ciononostante, quello che sta accadendo in queste ore è davvero incredibile” ha affermato il presidente del Pd, Matteo Orfini. “L’iniziativa della presidente della commissione Antimafia è incredibile istituzionalmente, giuridicamente, ma anche culturalmente, perché ci riporta indietro di secoli, quando i processi si facevano nelle piazze aizzando la folla”. Poi è intervenuto anche Renzi affermando che “Mai visto dibattito così autoreferenziale e lontano dalla realtà come quello sui candidati impresentabili” ha spiegato “Perché sono pronto a scommettere che come tutti sanno ma nessuno ha il coraggio di dire nessuno di loro - nessuno! - verrà eletto. Sono quasi tutti espressioni di piccole liste civiche”. Renzi in questo sembra un po' il “Pasquale” delle gag di Totò, sapendo bene che il problema rilevante è quello del “suo” candidato presidente in Campania cioè De Luca.

Questa vicenda va ormai ad aggiungersi alle molte che si vanno accumulando nel canestro delle forzature e delle pressioni del governo Renzi e del Pd contro le leggi esistenti. Prima gli strali verso la Corte Costituzionale rea di non adeguarsi alle esigenze di bilancio e ai diktat di Bruxelles che le impongono, adesso contro l'attuazione delle Legge Severino da tutti votata e accettata - tranne ovviamente da Berlusconi che fino ad oggi ne è stato una delle poche "vittime". Il governo Renzi in tal senso sta facendo impallidire quelli del cavaliere, ma della indignazione democratica vista e girotondata negli ultimi venti anni sembra non esserci più traccia*.

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* A dimostrazione che i "democratici" degli ultimi 20 anni era dei meri moralisti da stadio.

Yemen - Nuova strage saudita, iribelli avanzano

Non si ferma l’avanzata dei ribelli houthi verso Aden, seconda città del paese e metropoli del sud. Gli scontri hanno causato almeno una ventina di morti tra cui alcuni civili. Gli scontri più violenti sarebbero concentrati nel nord e nell’est della città portuale, mentre i ribelli sciiti e i settori dell’esercito fedeli all’ex presidente Saleh si starebbero facendo strada dai quartieri di Al Mansoura e Cheikh Othman, ancora nella mani dei ‘Comitati di resistenza popolare’, coalizione che comprende combattenti fedeli al governo rifugiatosi in Arabia Saudita, tribù sunnite e secessionisti del Sud.

Le forze antigovernative controllerebbero ormai metà del territorio urbano mentre, sul fronte diplomatico, i colloqui di pace mediati dall’Onu che erano in programma in queste ore sono stati “rinviati sine die” dopo che il “presidente” Abd al Rabbo Mansour Hadi aveva posto come precondizione all’inizio dei negoziati un ritiro dei ribelli dalla capitale Sanaa – nelle loro mani dallo scorso anno – e da tutte le posizioni finora conquistate. Un paletto che ha fatto naturalmente saltare la trattativa.

Intanto proseguono i bombardamenti della coalizione militare sunnita guidata dall’Arabia Saudita e che comprende, oltre alle petrmonarchie, anche l’Egitto. Nelle ultime ore il bilancio delle vittime si è fatto drammatico, il più alto dall’inizio dell’operazione militare scatenata contro il paese da Riad lo scorso 26 marzo. L’altro ieri almeno 80 persone sono state uccise in tutto il paese.

In particolare, il 27 maggio scorso almeno 43 persone sono state uccise nei bombardamenti aerei sulla capitale Sanaa che hanno preso di mira, tra gli altri obiettivi, il quartier generale delle forze speciali dei ribelli houthi e un deposito di armi nella periferia di Sanaa.

Le bombe hanno colpito l’edificio proprio mentre era in corso la distribuzione delle armi ai miliziani ed è stata strage. Per la prima volta dall’inizio della campagna militare sunnita i caccia hanno effettuato anche un bombardamento "mirato” che ha colpito un’auto che trasportava alcuni capi ribelli nelle strade di Sanaa ma anche numerosi civili ed edifici circostanti.

Da parte loro i ribelli yemeniti stanno intensificando la pressione militare contro alcuni territori di confine sauditi, che sono diventati uno dei principali obiettivi militari della rivolta degli Houthi. In un recente attacco al confine con l’Arabia Saudita sono rimasti uccisi due militari sauditi e altri cinque risultano feriti.

Intanto la situazione umanitaria nel paese si fa sempre più critica: i profughi sono 545mila, mentre i beni di prima necessità come cibo, acqua, elettricità e carburante sono sempre più scarsi. Secondo le Nazioni Uniti, circa 8,6 milioni di persone hanno bisogno di assistenza sanitaria e di aiuti umanitari nello Yemen, che già prima dell’inizio dei combattimenti e dei bombardamenti era il paese più povero dell’area.

Finora il bilancio dell’operazione militare saudita è di almeno duemila morti e ottomila feriti. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) fra le vittime vi sono almeno 234 bambini e 130 donne. Margaret Chan, direttore generale dell’Oms, ritiene che i danni maggiori vengono dal fatto che “milioni di persone vivono assediate dai combattimenti, senza accesso ad acqua potabile e servizi ospedalieri”.

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Iraq - Tra orrori e tentativi di riconquistare l'Anbar

Ancora orrore in Iraq. Ieri le autorità irachene hanno scoperto i resti di 470 persone molto probabilmente giustiziate lo scorso anno dai miliziani dello Stato Islamico (Is) vicino alla città di Tikrit. A riferirlo è stata ieri la ministra alla salute irachena, Adila Hammoud. Lo scorso giugno uomini armati appartenenti o affiliati all’Is avevano rapito centinaia di giovani – principalmente reclute della base militare di Speicher vicino Tikrit – e li avevano uccisi. Secondo alcune stime il numero dei militari assassinati dagli uomini di al-Baghdadi potrebbe arrivare a 1.700.

Questa notizia giunge mentre l’esercito iracheno, aiutato dalle milizie sciite, è impegnato a riconquistare Ramadi, la capitale della provincia irachena dell’Anbar occupata poco più di 10 giorni fa dall’Is. La polizia e i combattenti delle tribù pro-governative sono dispiegati in queste ore a Husaiba al-Sharqiya, a circa 7 chilometri a est di Ramadi. “[I miliziani dell’Is] hanno iniziato ad attaccarci con colpi di mortaio e con i cecchini, ma noi siamo riusciti a difenderci – ha dichiarato il leader tribale sunnita Amir al-Fahdawi – abbiamo truppe e carri armati a sufficienza”.

Secondo il governo centrale, l’esercito starebbe avanzando nell’area a sud est di Samarra nella provincia di Salah ad-din. “Il principale obiettivo delle operazioni è tagliare tutte le vie di rifornimento di Daesh [acronimo arabo per Is, ndr] tra Samarra e l’Anbar” ha affermato Khalid al-Khazraji, uno dei leader locali delle unità sciite di Mobilitazione popolare. “[L’obiettivo] è ripulire queste aree isolando i terroristi di Daesh nella provincia di al-Anbar in modo da minare le loro capacità militari” ha spiegato il comandante sciita. Khazraji ha riferito che almeno 90 miliziani dello Stato Islamico sono stati uccisi ieri dall’esercito iracheno. Le vittime nelle file governative sarebbero 27.

Baghdad è impegnata in queste ore anche a riconquistare la principale raffineria del paese, quella di Baji, attualmente nelle mani dell’Is. “Abbiamo occupato un edificio all’interno della raffineria grazie alle unità sciite di Mobilitazione popolare. Se Dio vuole, nelle prossime ore libereremo l’area” ha detto ad al-Jazeera un membro delle forze d’elite dell’esercito. Sebbene la raffineria non sia funzionante – secondo quanto ha affermato a inizio mese il Pentagono – una sua riconquista segnerebbe una importante vittoria strategica per il governo iracheno di al-Abdadi: avvicinarsi a Mosul, dallo scorso giugno la “capitale” in Iraq dell’autoproclamato Stato Islamico.

La situazione resta nel Paese tesissima. Due autobombe, azionate nei parcheggi di due hotel lussuosi della capitale irachena Baghdad, hanno causato ieri la morte di 10 persone. Le due esplosioni sono avvenute intorno la mezzanotte locale e si sono sentite nel centro città. La prima ha avuto luogo presso il celebre Babylon Hotel, dove spesso si riuniscono funzionari governativi. La seconda, a distanza di pochi minuti dalla prima, è esplosa vicino al Cristal Hotel (il vecchio Sheraton).

A differenza dei fallimenti militari registrati dall’esercito iracheno, i combattenti curdi starebbero invece avanzando in Siria riprendendo possesso di diverse cittadine occupate negli scorsi mesi dagli uomini di al-Baghdadi. Aiutati anche dai raid aerei della coalizione internazionale a guida statunitense, i curdi sarebbero vicini a Tel Abyad, un centro commerciale vicino al confine turco in cui i miliziani dell’Is commerciano petrolio (indispensabile per sostenere le spese militari e di gestione del “califfato”), armi e combattenti. Dall’inizio di maggio i curdi hanno riconquistato più di 200 villaggi curdi e cristiani nel nord est della Siria a discapito delle forze dello Stato Islamico.

Ma se avanzano i curdi, indietreggia il regime siriano di Bashar al-Asad. Ieri diversi gruppi armati islamici (tra cui non vi era l’Is) hanno occupato la cittadina di Ariha, l’ultimo territorio nella provincia di Idlib che apparteneva a Damasco. L’esercito siriano – aiutato dai combattenti sciiti di Hezbollah e da alcuni ufficiali iraniani – è stato sconfitto dall'”Esercito della Conquista”, una coalizione formata da 7 gruppi ribelli guidati dai qa’edisti del Fronte an-Nusra e dalla potente milizia degli Ahrar ash-Sham.
Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, ong di stanza a Londra e vicino all’opposizione, negli scontri sarebbero morti diversi civili.

Ieri, intanto, l’esercito statunitense ha iniziato ad addestrare in Turchia un numero imprecisato di ribelli siriani “moderati”. A confermare la notizia alla Reuters è stato un alto ufficiale statunitense che ha preferito restare anonimo.

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Mujica in Italia: "Cambiare il mondo è possibile ma è una lotta lunga"

Qui di seguito il discorso di "Pepe" Mujica, ex dirigente del movimento guerrigliero Tupamaros ed ex presidente dell'Uruguay in visita nei giorni scorsi a Livorno:
"Grazie al popolo di Livorno e a quello italiano per questa accoglienza e per l'affetto di tutti questi giorni, per questo incontro.

Io sono del sud; per questo ho detto di ritenermi cittadino del mondo. Cittadino di questa minuscola barchetta che per miracolo è ancora qui nell'universo e che a bordo ha la vita. Soprattutto le persone più giovani devono ricordare di non aver mai avuto tanti strumenti, tanto capitale quanto ora: eppure tutto è in pericolo, fino alla vita stessa. Abbiamo creato una civiltà che è enorme, e che ci ha dato forza, con tutti gli strumenti che ha. Ma c'è anche il pericolo che ha costruito. Siamo in una fase in cui non dominiamo la civiltà che abbiamo creato, al contrario, è il mercato che domina noi. E procediamo senza poter governare un mondo che è qui, presente. La crisi è politica! Ed è in primo luogo politica perché dobbiamo governarci come specie, invece a fatica ci battiamo per andare al governo in ciascun paese. E nel frattempo il mondo accumula problemi. Le difficoltà della lingua e la mancanza di tempo non mi permettono di andare a fondo sulle cose che sto dicendo.

Cinquant'anni fa pensavo che cambiando i rapporti di produzione e le istituzioni avremmo cambiato il mondo; oggi penso che se non cambiamo la nostra cultura non cambia niente, e che la lotta più dura è dentro la nostra testa. La battaglia che dobbiamo vincere nella nostra testa è non lasciarci rubare la libertà, la gioventù, la speranza. Perché comprare, si deve comprare; e lavorare, si deve lavorare: però la vita non è solo lavorare, e la vita se ne va.* Questa non è una valle di lacrime per andare un giorno in paradiso: il paradiso e la valle di lacrime sono qua. Non dobbiamo dividere gli uomini in bianchi, neri, gialli, donne, uomini, vecchi, giovani, dobbiamo dividerli in quelli che si impegnano e quelli che non si impegnano.

È possibile cambiare il mondo! Ma non è un miracolo, è una lunga lotta in cui si vince e si perde e in cui sono necessarie volontà organizzate e gente che in questa lotta trovi il proprio cammino di libertà. E non perché speri di arrivare a un arco di trionfo, dove tutto sia stato sistemato per il meglio; perché la vera libertà è la lotta, il cammino in sé. Ma se ci prendono il tempo della nostra vita, se la nostra vita diventa pagare conti, perché il marketing, perché la televisione, perché il “compra questo!” [...] Che non ti mangino il cervello! Per concludere, non possiamo creare un mondo migliore se ciascuno di noi non lotta per essere migliore. È questo il messaggio che desidero lasciare alla gente giovane: la lotta è durissima e la posta in gioco può essere la vita stessa del nostro pianeta. Non è facile, e non è una lotta che si combatte con i cannoni: si combatte con la volontà, con i cuori e con gente che metta la propria vita al servizio della libertà umana.

Amici, io appartengo a un mondo che se ne va, per l'età: ma rinascerò mille volte nei giovani che riprendono le bandiere di una lunga lotta. Una lunga lotta fatta non solo di “possiamo” ma di “dobbiamo”.

Vi abbraccio, ecco, ricevete un abbraccio da parte mia. E se potrò, se vivrò, la prossima volta parlerò meglio italiano".
Discorso pronunciato a Livorno il 27 maggio 2015
Traduzione di Fiamma Lolli per Buenos dias Leghorn – staff di traduzioni di Buongiorno Livorno


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* 90 minuti di applausi!

Spagna, Podemos apre ai socialisti

Dopo le storiche amministrative dello scorso 24 maggio, che hanno prodotto un vero e proprio terremoto politico, sono iniziate nei municipi e nelle regioni dove si è votato le trattative per la formazione dei governi locali, fra cui quelli di Madrid e Barcellona.

Dopo la clamorosa sconfitta del Partido Popular, all’interno della formazione di governo – arrivata comunque in testa con più del 27% dei voti a livello statale – si è aperta la caccia alla leadership con le seconde file che tentano di sfruttare il crollo elettorale per rimpiazzare l’attuale segreteria in nome di un necessario ricambio politico e generazionale. In alcune realtà il PP ha anche offerto il proprio sostegno a governi con i socialisti e la nuova destra liberista di Ciutadanos, anche se nella maggior parte dei casi ha per ora ottenuto un ‘no’ come risposta.

Ma è sull’altro fronte che si concentra l’attenzione dei media, degli analisti e della classe politica. Le liste civiche formate localmente da Podemos, dai partiti di sinistra e centrosinistra e da altre formazioni locali sono spesso arrivate in testa nelle amministrative ma senza conquistare la maggioranza assoluta e dovranno quindi trovare degli alleati se vorranno governare. E quindi rientra in campo quel Partito Socialista attaccato in campagna elettorale come ‘parte della casta’ e accondiscendente nei confronti delle politiche di austerità del PP e della troika ma che ora viene in qualche modo considerato indispensabile per estromettere la destra dal potere. Un problema non da poco per Podemos, la cui leadership in queste ore alterna dichiarazioni contrastanti miranti a sondare il terreno per la formazione di possibili alleanze nelle città e nelle comunità autonome.

Di fatto Podemos si è già detto favorevole ad accordi con il Psoe, ma il problema ora sta nel raggiungimento di un compromesso con i ras locali del partito che fu di Gonzalez e di Zapatero – e che ha mantenuto un 25% dei voti a livello statale nonostante un piccolo ridimensionamento – che non faccia perdere la faccia alla nuova formazione politica di Pablo Iglesias, che insiste su una maggiore trasparenza delle amministrazioni, sullo stop ad alcune politiche di austerità e ai tagli.

Pubblicamente Pablo Iglesias ha escluso la formazione di governi con i socialisti e sembra più incline ad un eventuale appoggio esterno che permetta al Psoe di governare. Ma nella realtà è probabile che in alcuni casi Podemos debba sporcarsi le mani partecipando direttamente alle amministrazioni. E in alcuni casi la partita si fa ancora più difficile, perché il Psoe se vuole governare non dovrà rivolgersi solo a formazioni locali di centrosinistra o ecologiste, ma anche al partito di Albert Rivera – Ciutadanos – che a parte qualche critica formale all’austerity e qualche richiamo al messaggio ‘anticasta’ condivide le politiche liberiste e il sostegno alla linea rigorista della Troika.

Rispetto al passato, comunque, Podemos ha lanciato un primo esplicito segnale di sdoganamento dei socialisti, quando Pablo Iglesias ha affermato ieri che alcuni dirigenti del Psoe si vergognano ormai dell’operato del proprio partito apprezzando il fatto che essi manifestino “interesse per la lotta alla corruzione”. Iglesias ha assicurato che i canali di comunicazione con i socialisti sono migliorati, perché prima “Pedro Sanchez (il segretario del Psoe, ndr) non ci chiamava e ora si”. Ieri Iglesias e Sanchez hanno avuto un colloquio telefonico di un quarto d’ora durante il quale i due segretari hanno valutato la situazione senza escludere eventuali scenari di collaborazione.

Bisognerà aspettare la riunione con la direzione statale di Podemos e i candidati nelle 13 comunità autonome  previste oggi e domani per sapere cosa deciderà il partito di Iglesias, ma sta di fatto che la formazione si è detta disponibile ad appoggiare amministrazioni a guida socialista nel caso in cui “rinuncino alle politiche di tagli e implementino la lotta per la trasparenza e contro la corruzione”. Una possibilità più che remota, impossibile, ma un’apertura da parte di Podemos che lascia al partito ampio margine di manovra. A cinque mesi dalle elezioni politiche generali e a 4 da quelle catalane, Podemos non vuole rischiare di trasformarsi in un partito di governo ma al tempo stesso non vuole sprecare l’opportunità di incidere a livello locale sulle amministrazioni che nasceranno dal voto di domenica scorsa. Il sostegno – bisognerà vedere in quale forma – al Psoe potrebbe permettere a quest’ultimo di governare in Castilla-La Mancha, Valencia, Extremadura e Asturie.

Il Psoe, che preferirebbe di gran lunga un coinvolgimento diretto di Podemos nei governi locali potrebbe garantire un sostegno esterno alla lista Ahora Madrid – al cui interno ci sono i candidati di Iglesias – e alla sua candidata a sindaco Manuela Carmena ma non un ingresso nel governo municipale. Il Psoe ha comunque già risposto ‘un categorico no’ ad Esperanza Aguirre, ex presidente della regione e candidata a sindaco della capitale per il PP – arrivata in testa ma senza la maggioranza sufficiente per governare da sola – che aveva chiesto ai socialisti di sostenerla con l’obiettivo di estromettere Podemos. Stando all’ex giudice, capolista della lista civica tra Podemos e sinistre, nel governo della capitale iberica potrebbero comunque essere coinvolti anche i liberisti di Ciutadanos che, a detta della candidata sindaca, “propongono cose interessanti su molte questioni”. Il segretario di Ciutadanos di Madrid si è detto disponibile, da parte sua, ad una eventuale collaborazione con Podemos e socialisti.

Intanto Iglesias ha già aperto la strada ad una possibile eccezione: in Aragona, dove la lista appoggiata da Podemos è risultata la seconda più votata con un margine ristretto rispetto ai socialisti, potrebbe chiedere la presidenza della regione.

Sono invece ancora in alto mare i negoziati per la formazione di un governo nel municipio di Barcellona: dopo aver affermato all'indomani del voto di voler fare opposizione il sindaco uscente Xavier Trias – espressione dei regionalisti di centrodestra di CiU – ha rilanciato la proposta di un patto fra conservatori e nazionalisti catalani pur di impedire la nomina di Ada Colau, leader di Barcelona en Comù. Ma gli indipendentisti socialdemocratici di Erc hanno tuttavia escluso qualsiasi ipotesi di un accordo “contro natura” con il Pp o Ciudadanos, e in un colloquio con Ada Colau il precedente sindaco Trias avrebbe ammesso che l'idea gli era stata proposta dal PP su richiesta "dei poteri economici della città".

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