Chiara Cruciati - il Manifesto
Un massacro: se le notizie che giungono da Palmira saranno
confermate, quanto successo nel più noto sito archeologico siriano può
essere definito una delle stragi più barbare compiute dallo Stato
Islamico in un anno di califfato.
Oltre 400 morti, per lo più donne e bambini:
questa la punizione inflitta ad una popolazione stremata che, in parte,
aveva accolto l’arrivo dei miliziani islamisti nella città nuova,
Tadmur, nata intorno al sito patrimonio dell’Unesco. Video pubblicati
nei giorni scorsi mostrano gruppi di uomini che abbracciano i jihadisti
entrati vittoriosi nella comunità, strappata al diretto controllo del
governo di Damasco. Per paura, forse: appena caduta Palmira, i miliziani
hanno cominciato a perquisire le case, una a una, alla caccia di
soldati governativi. Quelli che sono stati trovati, circa 300, sono
stati barbaramente giustiziati, mentre sull’antica cittadella veniva
issata la bandiera nera dell’Isis.
A Palmira la Siria si gioca il suo passato, ma anche il suo presente e il suo futuro.
Il mondo guarda con terrore al pericolo che corre una città di duemila
anni nelle mani di un movimento che vede nell’eredità storica una
minaccia alla purezza di una religione che ha personalizzato a suo
piacimento. Ma a Palmira non rischiano solo i reperti: a Palmira
si muore. La tv di Stato siriana e l’agenzia stampa Sana hanno
riportato ieri del massacro di oltre 400 civili, molti dei
quali donne e bambini, uccisi e mutilati per le strade della città. Tra
loro molti dipendenti pubblici, uccisi insieme alle famiglie.
E a chi è
rimasto in città, scrive l’agenzia Sana, «è impedito di andarsene dai
miliziani dell’Isis, che hanno occupato le proprietà dei civili».
«L’Isis ha commesso massacri nella città di Palmira dalla sua cattura –
ha commentato il governatore provinciale, Talal Barazi – Hanno preso
donne e bambini e li hanno portati in luoghi sconosciuti. Ma c’è un
piano, un’azione militare nelle zone intorno Palmira».
Perché
a Palmira la Siria si gioca anche il suo futuro: lo sa bene Bashar
al-Assad che con la città ha perso parte della provincia di Homs e ha
visto l’Isis allargarsi verso il centro del paese. Per questo l’esercito, fuggito nei giorni scorsi dalla zona, è stato di nuovo dispiegato intorno alla città, in quello che pare essere la preparazione alla controffensiva.
Che per ora arriva dal cielo: ieri l’aviazione di Damasco ha lanciato
15 raid contro postazioni islamiste dentro e fuori Palmira. Secondo
l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani alcuni bombardamenti sarebbe
caduti non lontano dalle rovine greco-romane.
La
controffensiva siriana è anche diplomatica: il Ministero degli Esteri
siriano ieri ha inviato due lettere al Consiglio di Sicurezza Onu e al
segretario generale, dove denuncia il ruolo di certi Stati (Arabia
Saudita, Turchia, Qatar e Israele, dice il Ministero) nel permettere
l’avanzata islamista. Ovvero, Palmira non sarebbe oggi in
pericolo se non si fossero finanziati e nutriti gruppi come l’Isis,
al-Nusra, Jeish el-Fatah e l’Esercito Libero Siriano.
Di certo innegabili sono le responsabilità occidentali:
la coalizione anti-Isis guidata dagli Usa continua a chiudere la porta
in faccia ad Assad, impedendo così la creazione di un fronte unico
contro l’avanzata islamista. Sul terreno, vista la marginalizzazione dei
gruppi di opposizione moderati finanziati dall’Occidente, Washington
gode di un controllo del territorio scarso e inaccurato che impedisce di
portare avanti strategie efficaci.
Yemen, sospesa a tempo inderminato la conferenza di pace
Che certi paesi, guidati da interessi strategici specifici, siano dietro la destabilizzazione del Medio Oriente è ogni giorno più chiaro. Accade in Siria, accade in Iraq, accade in Yemen. Dove alle politiche di controllo implementate dall’Arabia Saudita (prima rendendo Sana’a dipendente dai petrodollari, ora con le bombe) fa da contraltare la totale inefficacia delle Nazioni Unite. Dopo aver annunciato giovedì scorso l’apertura di un tavolo del negoziato a Ginevra, il 28 maggio, ieri il Palazzo di Vetro ha dovuto incassare il no del governo del presidente Hadi.
Ufficialmente
l’Onu (che aveva invece incassato il sì degli Houthi) non ha spiegato i
motivi per cui il tavolo è stato rimandato a data da destinarsi, ma
fonti vicine al governo ufficiale yemenita hanno indicato in Hadi il
responsabile: il presidente esiliato due volte pretende che i ribelli
sciiti Houthi rispettino prima la risoluzione 2216 dell’Onu, che chiede
il ritiro sciita dalle zone occupate da settembre
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