«Una ripresa ciclica non risolve tutti i problemi dell’Europa. Non elimina il debito che incombe su parte dell’Unione. Non elimina l’alto livello della disoccupazione strutturale che infesta molti paesi. E non elimina la necessità di perfezionare l’impianto istituzionale della nostra unione monetaria».
Per Mario Draghi, che aveva convocato a Sintra, in Portogallo, banchieri centrali di mezzo mondo, la “ripresa” che molti si ostinano a voler vedere nei debolissimi dati di queste settimane, non cambia quasi nulla nella situazione macroeconomica dell'eurozona. E non perché non apprezzi il fatto che “l'Eurozona ha fatto progressi importanti sulle riforme strutturali”, o perché non abbia apprezzato che la sua “politica monetaria” si stia “facendo sentire sull'economia”, con “la crescita che sta riprendendo” e “le attese d'inflazione che si sono riprese dai minimi”.
Anzi, la mini-ventata di ottimismo dovrebbe secondo lui “accelerare l'attuazione di altre riforme”, dello stesso segno fin qui seguito, come l'eliminazione dei contratti nazionali di lavoro.
Ma tutto questo non ha alcun effetto sulla disoccupazione nell'area della moneta unica, tuttora sopra il 10%. E il seminario-evento da lui convocato ha al centro dell'analisi proprio questa “emergenza”, che pure non rientrebbe affatto nel "mandato" della Bce (al contrario di quanto avviene per la Federal Reserve statunitense). E già questa è una novità che rivela quanto grave sia la situazione e quanto poco i governi riescano ormai a fare su questo fronte.
Su una sola cosa, infatti, gli analisti sono tutti d'accordo, a prescindere dalle scuole teoriche in cui si sono formati: nei paesi più industrializzati il livello degli investimenti è troppo basso, e la politica monetaria “accomodante” produce una massa di liquidità che resta stagnante nelle banche private, ma non si trasmette all'economia reale.
Da qui in poi i percorsi divergono. Per l'ex segretario del Tesoro statunitense, Larry Summers, siamo in una “stagnazione secolare” da cui non c'è uscita a breve termine (e questo mentre ci si avvia a “festeggiare” la conclusione dell'ottavo anno di crisi globale, a far data dall'esplosione della bolla dei mutui subprime). E servirebbero magari investimenti pubblici per cambiare la situazione.
Per gli ordoliberisti teutonici, al contrario, è proprio l'eccessiva presenza – residua – dello Stato dentro l'economia a “scoraggiare gli investimenti privati”. Quindi sarebbe necessaria un'ulteriore, feroce, distruzione delle – residue – tutele del lavoro, un'ulteriore compressione dei livelli salariali, per creare un “ambiente più favorevole all'impresa”. In pratica, dovremmo adattarci ai livelli salariali dei paesi emergenti per poter “competere meglio”.
Per altri ancora, è lo sviluppo tecnologico a bruciare continuamente posti di lavoro nei paesi avanzati, e a questo non c'è rimedio nel breve periodo.
Come che sia – e certamente noi abbiamo opinioni molto diverse in proposito – “il cavallo non beve”. Ossia l'economia reale non trae slancio dalla grandissima disponibilità di denaro liquido creato dalle banche centrali e – forse ancora di più – dal “sistema bancario ombra” cresciuto a forza di “prodotti derivati”, “credit default swap” e via fantasticando.
Qui la possibilità d'azione diretta da parte della Bce finisce. E al contrario degli Stati Uniti, dove invece l'azione del governo federale si è fatta sentire con un aumento quasi imbarazzante del debito pubblico (gli Usa non sarebbero ammessi nella Ue, se bisogna prendere a misura i “parametri di Maastricht”), qui in Europa non esiste una politica di investimenti comunitaria (quindi anche una politica industriale).
Tutto è lasciato all'iniziativa dei singoli governi nazionali, che si debbono però muovere dentro il recinto della riduzione del debito. Quindi alcuni hanno un qualche margine d'azione (vedi la Germania, che si è potuta permettere nelle ultime settimane di andare contro le sue “raccomandazioni” imposte agli altri paesi, aumentando i salari mentre faceva calare il prelievo fiscale), altri ne hanno relativamente poco, altri nessuno (i Piigs in generale, anche se con la Grecia in perenne ruolo da cavia terminale).
Questo perché in un’unione valutaria, la politica monetaria «non può essere disegnata per rispondere agli eventi in singoli Paesi». Con un ulteriore limite rigido: non esiste a livello comunitario un sistema di trasferimenti fiscali da un paese all'altro (analogo a quanto avviene all'interno dei singoli paesi, tra regioni diverse per produzione di ricchezza) che possano sostenere la domanda.
Ma questa rigidità strutturale prevede un contraltare pesantissimo: «le economie non abbastanza flessibili rischiano un periodo più prolungato di disinflazione, tassi di disoccupazione molto più elevati e, nel tempo, una permanente divergenza nella performance economica». E' la fotografia dei Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), che non riescono più a recuperare – anzi, perdono ulteriore terreno – nenanche quando le condizioni generali si presentano eccezionalmente favorevoli (calo del valore di cambio dell'euro, calo del prezzo del petrolio, abbondanza di liquidità, salari ai minimi da 40 anni).
Qui Draghi si deve fermare alla constatazione che «l’outlook dell’economia dell’area euro è oggi il migliore da sette lunghi anni». Ma ben lontano dalla situazione di partenza di sette anni fa (l'Italia, per esempio, ha perso nel frattempo oltre il 10% di Pil).
Ma neanche a Sintra si è sentita una sola idea che possa portare fuori la Bce e l'Unione Europea dalla trappola suicida che hanno creato con le proprie mani.
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