"Il nuovo governo greco dice: vogliamo mantenere l'euro, ma non vogliamo più il programma. Le due cose non stanno assieme".
La sostanza dura dell'Unione Europea è tutta racchiusa in questa frase, che ci è capitato di scrivere più volte su queste pagine, ma che ieri stata pronunciata con la solita nettezza dal ministro dell'economia tedesco, Wolfgang Schaeuble, in un'intervista a Repubblica.
La trattativa tra la Troika e l'esecutivo Tsipras è arrivata alla penultima stazione. Questa volta, la Grecia dovrà decidere quale preferisce tra le due cose che "non stanno assieme". Ma è anche molto difficile, a questo punto, che l'accordo finale possa segnare una vittoria netta, inconfutabile e riconosciuta, di una delle due controparti. Il cedimento alle richieste della Troika – "riforme strutturali" con taglio delle pensioni, dei dipendenti pubblici, della sanità, blocco del progettato aumento del salario minimo, aumento dell'Iva e privatizzazioni senza limiti – segnerebbe l'esplosione del partito di maggioranza relativa, Syriza, in cui la minoranza di sinistra è ora arrivata a pesare per il 44%.
Sul fronte opposto, un "accordo troppo sporco", che conceda ad Atene anche solo qualcosa che è stato negato ad altri, metterebbe il turbo ai processi di disgregazione già in atto. E' stata la stessa regina d'Inghilterra ad annunciare il referendum per restare o no nell'Unione Europea, "al termine delle trattative per rinegoziare le regole". La Polonia del reazionario Duda è quasi apertamente euroscettiva; e la Spagna divisa tra quattro formazioni intorno al 20% ciascuna prefigura, dopo le elezioni politiche di novembre, una lunga stagione di ingovernabilità e/o di "alleanze innaturali" anche a Madrid.
Considerazioni presenti, al tavolo delle trattative con Atene, ma che non sembrano aver smosso la durezza granitica degli ordoliberisti ai posti di comando. Semmai l'hanno accresciuta, nella furiosa illusione che "dare subito una lezione al governo di sinistra greco" possa costituire un monito valido anche per altri paesi sull'orlo di una crisi di nervi. Spagna in primis...
Il governo greco, nella serata di ieri, ha fatto filtrare la notizia che un "accordo" era ormai vicino, prefigurando così lo sblocco di quei 7,2 miliardi che dovevano essere erogati in febbraio ma che la vittoria della "sinistra radicale" aveva spinto a congelare. La bozza di accordo avrebbe quindi dovuto comprendere obiettivi di avanzo primario molto più leggeri di quanto previsto dai diktat (1%, invece del 4% preteso dalla Troia), una riforma dell'Iva e un alleggerimento dell'ammontare del debito. Da Atene avevano anche puntualizzato che non sono previsti altri tagli a salari e pensioni.
Subito dopo lo stesso Schaeuble ed i suoi complici dell'Eurogruppo rispondevano ufficialmente che invece "non ci siamo ancora".
Pochi minuti fa, la parte dello “sceriffo cattivo” è stata assunta direttamente dalla direttrice del Fmi, Chrisine Lagarde (che un paio di mesi fa aveva giocato la parte del “buono”): «Stiamo lavorando a una soluzione per la Grecia – ha detto in un’intervista alla televisione tedesca Ard – e non direi proprio che abbiamo raggiunto risultati sostanziali. Le cose si stanno muovendo, ma c’è ancora molto lavoro da fare».
In pratica, è uno dei classici della “teoria dei giochi” (un'invenzione del matematico appena scomparso, John Nash, su cui il ministro delle finanze greco, Yani Varoufajis ha scritto ben due libri), da cui deriverebbe – razionalmente – la necessità di un accordo in tempi brevi, ma che può sempre risolversi in un scontro che nessuno ha davvero voluto fino in fondo.
Tirando in lungo, scrivono oggi diversi analisti, la Germania e l'Unione Europea pensano di poter costringere Atene ad adottare quelle "riforme" impopolari e criminali per bloccare le quali Syriza è stata votata. L'idea circolante pare quella di concedere, in caso di accordo, prestiti "goccia a goccia", di modo che la Grecia possa pagare le rate di restituzione al Fondo Monetario Internazionale man mano che giungono a scadenza (una è prevista per venerdì prossimo, 5 giugno), ma senza alcun margine per spese non gradite a Bruxelle e Berlino.
Amministrazione controllata, insomma, come alternativa al default. Che implicherebbe "misure di guerra" come il blocco della circolazione dei capitali, per evitare la fuga – già iniziata da tempo – verso gli istituti stranieri.
Non mancano del resto stratagemmi previsti dai regolamenti internazionali – come, per il Fmi, la "notifica" di un mancato rimborso anche un mese dopo il non pagamento di una rata – che possono prolungare l'agonia del governo di ATene. Ma nessun prolungamento ha la possibilità di toccare l'infinito.
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Non sanno come uscirne e non si rendono conto che di questo passo aumentano la quantità potenziale di danni quando il conto sarà sul tavolo e nessuno (mi auguro) avrà intenzione di saldarlo.
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