La scorsa settimana è uscito un interessante articolo
a firma del Partito Comunista Internazionalista sul mistificatorio
utilizzo della religione nelle tragiche vicende che vedono al momento
coinvolto lo Yemen.
Già in passato sulle pagine virtuali di questo sito avevamo espresso considerazioni
del tutto simili, evidenziando come la spesso decantata divisione tra
componente sciita e sunnita nel variegato universo islamico non sia
fattore capace di spiegare molto, dimostrandosi anzi empiricamente
debole sotto molto punti di vista. In tal senso non possiamo far altro
che esprimere il nostro pieno consenso rispetto a quanto scritto dai
compagni internazionalisti. Tuttavia, nell’articolo in questione ci sono
anche due piccole imprecisioni. Partiremo da queste non per eccesso di
pignoleria, ma per beneficio dell’argomento che vogliamo articolare.
La prima, in realtà
scarsamente rilevante ai fini del ragionamento proposto, riguarda
l’affermazione che l’Arabia Saudita sarebbe il paese con il reddito pro
capite più alto al mondo. Evidentemente, il soggetto al quale ci si
riferisce è il Qatar. Qui sorge però un interessante aspetto, dato che la
ricchezza dei cittadini qatariani così come quella dei sauditi tende a
fluttuare molto nelle statistiche elaborate e fornite da varie agenzie a
livello mondiale. La ragione è semplice e riguarda la tendenza in numerose analisi a non contare i moltissimi lavoratori stranieri che si trovano nei due paesi. Tale aspetto,
statisticamente significativo in Arabia Saudita dove il numero di
lavoratori stranieri rappresenta circa un terzo dell’intera popolazione
presente, diventa esplosivo in Qatar dove gli stranieri sono circa cinque volte la popolazione autoctona. Il
semplice fatto che questi lavoratori non siano contati in queste
statistiche dice molto sia sulle agenzie che le forniscono che sulle
condizioni di vita di questo importante segmento del proletariato
mondiale.
La seconda imprecisione è
invece più significativa e riguarda la sopravvalutazione delle capacità
belliche dell’esercito saudita. A livello generale possiamo partire
dall’assunto che in tutti quei contesti dove il grado di
istituzionalizzazione delle procedure tramite le quali si assumono le
decisioni politiche e si trasmette il potere è debole, l’élite dominante
si trova a fronteggiare un dilemma di impossibile soluzione: la
necessità di disporre, da un lato, di un apparato repressivo vasto ed
efficiente per fronteggiare minacce interne ed esterne e la paura,
dall’altro, che questo possa in determinate occasioni rivoltare le
proprie armi contro quelli che detengono il potere invece che contro i
contestatori o i nemici esterni. Questo dilemma deriva da due
fattori. Per prima cosa in un regime autoritario i conflitti all’interno
della coalizione dominante non possono essere risolti attraverso il
tradizionale gioco parlamentare della democrazia borghese. Da ciò deriva
quindi che i differenti obiettivi perseguiti dai diversi interessi
economici presenti possono determinare uno stallo a livello di vertice,
dove varie fazioni si contendono il potere. Il secondo aspetto riguarda
invece il più basso livello di cooptazione e legittimazione che
generalmente mostrano i regimi autoritari, necessitando conseguentemente
di un più stretto controllo sulla popolazione.
Quando spaccature di vertice
si intrecciano ad e si acuiscono per una forte mobilitazione dal basso,
la tendenza delle forze armate può essere ad una rapida
politicizzazione, elemento che a sua volta crea il terreno adatto per un
colpo di stato. Tale modello è stato talmente ricorrente nell’intera
regione mediorientale, specialmente negli anni cinquanta e sessanta, che
non serve spendere molte altre parole.
Più interessante è
invece notare come l’esigenza di mantenere marginale sia numericamente
sia politicamente l’esercito, garantendosi al tempo stesso i mezzi atti
per la coercizione interna, abbia portato in molti paesi al tentativo di
sviluppare un potente apparato di polizia. Questo riduce
ovviamente il rischio di colpi di mano da parte dell’esercito, ma ha
ovviamente i suoi alti costi. Per prima cosa la repressione che possono
garantire gli apparati di polizia non eccede una certa soglia, oltre la
quale la piazza può essere solo confrontata dall’esercito. Al riguardo,
sembra illuminante riportare le parole pronunciate il 28 gennaio 2011
dopo quattro giorni di feroci proteste in tutto l’Egitto dal
potentissimo Ministro degli Interni Habib al-Adly: “Decisi di informare il Presidente che dovevamo fare affidamento sulle forze armate”.
In tale situazione, dopo essere stato marginalizzato, l’esercito viene
chiamato in campo per salvare un regime con scarsa o nulla legittimità.
Data la presenza di altre condizioni che non possiamo per motivi di
tempo e spazio analizzare qui, vi sono molte probabilità che l’esercito
possa decidere di sedere, strumentalmente s’intende, dalla parte della
piazza.
Quanto successo in Tunisia ed
Egitto con la cacciata di Ben Ali e Mubarak offre due interessanti
esempi di questi possibili sviluppi. Certamente si può anche rispondere
che la vendita di ingenti quantità di idrocarburi e la parziale
redistribuzione della ricchezza così acquisita fornisce ai sauditi una
leva di grande valore nell’acquisire consenso. Tale aspetto, peraltro,
non rientrava nel mazzo di carte né del regime tunisino né di quello
egiziano. Se questo è certamente corretto non si deve però scordare che
la vendita del petrolio non può arginare la seconda debolezza insita nel
fare ampio affidamento sugli apparati di polizia, ovvero l’impossibilità o comunque la limitatezza nel condurre operazioni militari all’estero.
Tale aspetto è stato parzialmente aggirato dai sauditi grazie al
potenziamento dell’aviazione. La ragione è semplice: i piloti, a
differenza dei fanti, non hanno mezzi e propensione per condurre colpi
di stato.
Anche in questo caso,
tuttavia, vi è una soglia critica oltre la quale l’aviazione non può
andare. Come mostrato da quanto succede in Yemen, i bombardamenti aerei
possono fiaccare ed indebolire chi si trova al potere, ma difficilmente
possono sconfiggerlo. Per questo c’è bisogno di un’operazione di terra.
Cosa che il numericamente limitato (150.000 uomini circa) mediamente
equipaggiato e scarsamente addestrato esercito saudita si guarda bene da
fare. Nella coalizione che partecipa ai raid contro lo Yemen solo un paese avrebbe i numeri per affrontare questa avventura: l’Egitto.
Nelle ultime settimane numerosi rumors sono circolati sulla
partecipazione in prima linea dell’esercito egiziano ad un’operazione di
terra. Si è detto che questo rientrerebbe in una serie di accordi
firmati a Sharm el-Sheikh nelle scorse settimane. L’arrivo nelle casse
egiziane di 6 miliardi di dollari dai paesi del Golfo (2 a testa da
Arabia Saudita, Kuwait, ed Emirati) richiederebbe infatti la cambiale
dell’intervento egiziano diretto in Yemen. Francamente, però, ci sono
elementi per pensare che il presidente egiziano el-Sisi abbia strappato
un accordo migliore. I militari al potere in Egitto conoscono bene la
scarsa qualità delle proprie truppe e la loro incapacità di condurre una
guerra di movimento, aspetto come noto cruciale per gli attaccanti.
Inoltre, il terreno yemenita presenta numerosissime insidie, già
ampiamente testate dagli egiziani nella disastrosa spedizione in questo
paese nel 1962-7. In realtà, i soldi provenienti dal Golfo mirano a
stabilizzare il paese chiave nell’intero scacchiere mediorientale e
forniscono una boccata d’ossigeno al regime egiziano che continua a
navigare a vista, senza una precisa strategia economica ed una stretta
securitaria, dall’abolizione del diritto di sciopero alla equiparazione
di tutti i gruppi ultras ad organizzazioni terroristiche, senza
precedenti.
Nessun commento:
Posta un commento