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22/05/2015

Anche in Medio Oriente: lo scontro è “nella civiltà”


La scorsa settimana è uscito un interessante articolo a firma del Partito Comunista Internazionalista sul mistificatorio utilizzo della religione nelle tragiche vicende che vedono al momento coinvolto lo Yemen.

Già in passato sulle pagine virtuali di questo sito avevamo espresso considerazioni del tutto simili, evidenziando come la spesso decantata divisione tra componente sciita e sunnita nel variegato universo islamico non sia fattore capace di spiegare molto, dimostrandosi anzi empiricamente debole sotto molto punti di vista. In tal senso non possiamo far altro che esprimere il nostro pieno consenso rispetto a quanto scritto dai compagni internazionalisti. Tuttavia, nell’articolo in questione ci sono anche due piccole imprecisioni. Partiremo da queste non per eccesso di pignoleria, ma per beneficio dell’argomento che vogliamo articolare.

La prima, in realtà scarsamente rilevante ai fini del ragionamento proposto, riguarda l’affermazione che l’Arabia Saudita sarebbe il paese con il reddito pro capite più alto al mondo. Evidentemente, il soggetto al quale ci si riferisce è il Qatar. Qui sorge però un interessante aspetto, dato che la ricchezza dei cittadini qatariani così come quella dei sauditi tende a fluttuare molto nelle statistiche elaborate e fornite da varie agenzie a livello mondiale. La ragione è semplice e riguarda la tendenza in numerose analisi a non contare i moltissimi lavoratori stranieri che si trovano nei due paesi. Tale aspetto, statisticamente significativo in Arabia Saudita dove il numero di lavoratori stranieri rappresenta circa un terzo dell’intera popolazione presente, diventa esplosivo in Qatar dove gli stranieri sono circa cinque volte la popolazione autoctona. Il semplice fatto che questi lavoratori non siano contati in queste statistiche dice molto sia sulle agenzie che le forniscono che sulle condizioni di vita di questo importante segmento del proletariato mondiale.

La seconda imprecisione è invece più significativa e riguarda la sopravvalutazione delle capacità belliche dell’esercito saudita. A livello generale possiamo partire dall’assunto che in tutti quei contesti dove il grado di istituzionalizzazione delle procedure tramite le quali si assumono le decisioni politiche e si trasmette il potere è debole, l’élite dominante si trova a fronteggiare un dilemma di impossibile soluzione: la necessità di disporre, da un lato, di un apparato repressivo vasto ed efficiente per fronteggiare minacce interne ed esterne e la paura, dall’altro, che questo possa in determinate occasioni rivoltare le proprie armi contro quelli che detengono il potere invece che contro i contestatori o i nemici esterni. Questo dilemma deriva da due fattori. Per prima cosa in un regime autoritario i conflitti all’interno della coalizione dominante non possono essere risolti attraverso il tradizionale gioco parlamentare della democrazia borghese. Da ciò deriva quindi che i differenti obiettivi perseguiti dai diversi interessi economici presenti possono determinare uno stallo a livello di vertice, dove varie fazioni si contendono il potere. Il secondo aspetto riguarda invece il più basso livello di cooptazione e legittimazione che generalmente mostrano i regimi autoritari, necessitando conseguentemente di un più stretto controllo sulla popolazione.

Quando spaccature di vertice si intrecciano ad e si acuiscono per una forte mobilitazione dal basso, la tendenza delle forze armate può essere ad una rapida politicizzazione, elemento che a sua volta crea il terreno adatto per un colpo di stato. Tale modello è stato talmente ricorrente nell’intera regione mediorientale, specialmente negli anni cinquanta e sessanta, che non serve spendere molte altre parole.


Più interessante è invece notare come l’esigenza di mantenere marginale sia numericamente sia politicamente l’esercito, garantendosi al tempo stesso i mezzi atti per la coercizione interna, abbia portato in molti paesi al tentativo di sviluppare un potente apparato di polizia. Questo riduce ovviamente il rischio di colpi di mano da parte dell’esercito, ma ha ovviamente i suoi alti costi. Per prima cosa la repressione che possono garantire gli apparati di polizia non eccede una certa soglia, oltre la quale la piazza può essere solo confrontata dall’esercito. Al riguardo, sembra illuminante riportare le parole pronunciate il 28 gennaio 2011 dopo quattro giorni di feroci proteste in tutto l’Egitto dal potentissimo Ministro degli Interni Habib al-Adly: “Decisi di informare il Presidente che dovevamo fare affidamento sulle forze armate”. In tale situazione, dopo essere stato marginalizzato, l’esercito viene chiamato in campo per salvare un regime con scarsa o nulla legittimità. Data la presenza di altre condizioni che non possiamo per motivi di tempo e spazio analizzare qui, vi sono molte probabilità che l’esercito possa decidere di sedere, strumentalmente s’intende, dalla parte della piazza.

Quanto successo in Tunisia ed Egitto con la cacciata di Ben Ali e Mubarak offre due interessanti esempi di questi possibili sviluppi. Certamente si può anche rispondere che la vendita di ingenti quantità di idrocarburi e la parziale redistribuzione della ricchezza così acquisita fornisce ai sauditi una leva di grande valore nell’acquisire consenso. Tale aspetto, peraltro, non rientrava nel mazzo di carte né del regime tunisino né di quello egiziano. Se questo è certamente corretto non si deve però scordare che la vendita del petrolio non può arginare la seconda debolezza insita nel fare ampio affidamento sugli apparati di polizia, ovvero l’impossibilità o comunque la limitatezza nel condurre operazioni militari all’estero. Tale aspetto è stato parzialmente aggirato dai sauditi grazie al potenziamento dell’aviazione. La ragione è semplice: i piloti, a differenza dei fanti, non hanno mezzi e propensione per condurre colpi di stato.

Anche in questo caso, tuttavia, vi è una soglia critica oltre la quale l’aviazione non può andare. Come mostrato da quanto succede in Yemen, i bombardamenti aerei possono fiaccare ed indebolire chi si trova al potere, ma difficilmente possono sconfiggerlo. Per questo c’è bisogno di un’operazione di terra. Cosa che il numericamente limitato (150.000 uomini circa) mediamente equipaggiato e scarsamente addestrato esercito saudita si guarda bene da fare. Nella coalizione che partecipa ai raid contro lo Yemen solo un paese avrebbe i numeri per affrontare questa avventura: l’Egitto. Nelle ultime settimane numerosi rumors sono circolati sulla partecipazione in prima linea dell’esercito egiziano ad un’operazione di terra. Si è detto che questo rientrerebbe in una serie di accordi firmati a Sharm el-Sheikh nelle scorse settimane. L’arrivo nelle casse egiziane di 6 miliardi di dollari dai paesi del Golfo (2 a testa da Arabia Saudita, Kuwait, ed Emirati) richiederebbe infatti la cambiale dell’intervento egiziano diretto in Yemen. Francamente, però, ci sono elementi per pensare che il presidente egiziano el-Sisi abbia strappato un accordo migliore. I militari al potere in Egitto conoscono bene la scarsa qualità delle proprie truppe e la loro incapacità di condurre una guerra di movimento, aspetto come noto cruciale per gli attaccanti. Inoltre, il terreno yemenita presenta numerosissime insidie, già ampiamente testate dagli egiziani nella disastrosa spedizione in questo paese nel 1962-7. In realtà, i soldi provenienti dal Golfo mirano a stabilizzare il paese chiave nell’intero scacchiere mediorientale e forniscono una boccata d’ossigeno al regime egiziano che continua a navigare a vista, senza una precisa strategia economica ed una stretta securitaria, dall’abolizione del diritto di sciopero alla equiparazione di tutti i gruppi ultras ad organizzazioni terroristiche, senza precedenti.


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