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31/10/2019

Oltre l’illusione della green economy. Alcune riflessioni

“È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”
(Fredric Jameson)


Prima (ovvia) premessa

Interrogato su quali leggi scientifiche avrebbero superato indenni il test del tempo senza essere rigettate o radicalmente riformulate dalle future generazioni di scienziati, Albert Einstein indicò la prima e la seconda legge della termodinamica. “È la sola teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che nell’ambito di applicabilità dei suoi concetti di base non verrà mai superata.” Semplificando, le due leggi affermano che l’energia totale dell’universo è costante, non può essere né creata né distrutta, ma che essa cambia continuamente forma, anche se in una sola direzione, da disponibile ad indisponibile, e che il “grado di disordine” del sistema, l’entropia, è in continuo aumento. La terra rispetto al sistema solare rappresenta un sistema termodinamicamente chiuso, ciò significa che assorbe energia dal sole, ma non riceve materia dall’universo circostante. Ora, se alle reminiscenze di fisica aggiungiamo frettolosamente anche quelle di chimica, rispolverando la legge di conservazione della massa di Lavoisier, secondo la quale all’interno di un sistema chiuso la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti (nulla si crea, nulla si distrugge...), appare evidente, come vanno ormai sostenendo praticamente tutti, che il pianeta su cui viviamo è “finito”. Intendendo con questo che lo stock di materie prime su cui possiamo e potremo contare è destinato prima o poi ad esaurirsi, ponendoci di fronte ad un problema di scarsità. I combustibili fossili sono da questo punto di vista un caso esemplare, energia che si è incorporata nella materia in larga parta nel Mesozoico (80-110 milioni di anni fa) che si sta esaurendo con grande rapidità e che non riapparirà sulla terrà, almeno non in un orizzonte temporale rilevante per l’umanità. Ma lo stesso ragionamento, come vedremo, può essere tranquillamente esteso anche a diversi minerali che sono alla base di innumerevoli processi industriali, soprattutto quelli in cui vengono impiegate le cosiddette “tecnologie verdi”.

Seconda (ovvia) premessa

Pur avendo noi una certa ritrosia nell’utilizzare Il Capitale come una sorta di Talmud da cui estrapolare citazioni decontestualizzate, ci pare interessante riportare qui una brevissimo passaggio dal capitolo del primo libro in cui Marx affronta il processo di accumulazione fornendone un’immagine immediatamente visualizzabile: “Considerata in concreto, l’accumulazione si risolve in riproduzione del capitale su scala progressiva. Il ciclo della riproduzione semplice si scambia e si trasforma, secondo una espressione di Sismondi, in una spirale.” Per Marx, dunque, la circolazione, l’accumulo di capitale e la continua conversione di plusvalore in capitale aggiuntivo sono alla base dell’incessante espansione e al dinamismo associata alle economie capitaliste e richiedono la costante conversione del pianeta in mezzi di produzione e merci da vendere e consumare. Il capitalismo, qualunque sia la forma d’accumulazione dominante, è una formazione sociale necessariamente articolata intorno alla produzione e al consumo di merci, e guidata dal costante imperativo di espandere l’accumulo di surplus generando ritorni positivi sull’investimento. La formula generale del capitale di Marx (D-M-D’) lo spiega forse nel modo più semplice possibile, e questa insopprimibile propensione del capitale per il profitto si traduce in politiche orientate alla crescita a qualunque costo.

Alcune considerazioni

Queste semplici considerazioni, che abbiamo tirato giù a mo’ di premessa, potranno sembrare a chi legge tanto ovvie da risultare persino banali, eppure è evidente la difficoltà che abbiamo nell’intrecciarle politicamente ogni qual volta approcciamo alla “questione ambientale” o al cambiamento climatico, limitandoci, magari, ad indicare l’esistenza della cosiddetta “seconda contraddizione”, (quella tra Capitale e Natura) e a postulare gli inevitabili “limiti naturali” alla tendenza di crescita del capitale. In assenza di una posizione autonoma ed originale, di classe, capace anche di prefigurare una visione teorica e pratica dei rapporti sociali post-capitalistici che potrebbero rivelarsi adeguati ad un mondo irreversibilmente cambiato, fare le pulci al movimento per la giustizia climatica può risultare così un esercizio ozioso. È facile, infatti, comprendere l’attrattiva che parole d’ordine come “Green New Deal” o “Green Economy” possono esercitare sulla massa di “sinceri ecologisti”. Per chi considera come incontrovertibili gli aspetti essenziali dell’ordine economico dominante quella del keynesismo verde non può che rappresentare la migliore opzione possibile, anzi l’unica. E il capitalismo finisce per essere trattato, più o meno consapevolmente, non più come il problema, ma come la possibile soluzione della crisi ambientale. Occorre dunque trovare il modo per sottrarci a questo abbraccio mortale, consapevoli dello scontro materiale ed ideologico che si sta consumando sulla questione del cambiamento climatico.

Dietro le quinte è in corso uno lotta tra diverse frazioni della borghesia imperialista che vede in palio non solo l’egemonia politica o culturale degli uni o degli altri, ma ha, soprattutto, imponenti risvolti economici. Nel 2015 un rapporto di Citigroup provocò violente reazioni in tutta l’industria energetica e nell’economia globale indicando nella cifra monstre di 100.000 miliardi di dollari il valore degli stranded assets costituiti da combustibili fossili, nel caso che dal summit di Parigi sul clima fosse uscito un impegno vincolante a limitare il riscaldamento globale a 2 gradi centigradi. Gli stranded assets, per chiarezza, sono quei beni che subiscono delle svalutazioni improvvise o anticipate rispetto al loro prevedibile ciclo di vita e che passano repentinamente dalla colonna degli attivi a quella delle passività. Nella storia dell’economia sconvolgimenti di questo tipo sono perlopiù associati ai grandi cambiamenti di paradigma nella tecnologia delle telecomunicazioni, dell’energia o dei trasporti. Il passaggio dall’epoca della seconda rivoluzione industriale a quella della terza rivoluzione industriale sarebbe infatti associato, almeno secondo i suoi cantori, ad una transizione energetica e digitale che ci traghetterebbe in una nuova era di energia pulita e sobrietà ecologica. Una cornucopia tecnologica, anzi green tech, basata su un piano di disinvestimenti/reinvestimenti senza precedenti nella storia dell’umanità. La specie umana è una specie narrante, vive delle sue narrazioni, ma alcune volte queste narrazioni, per quanto suggestive, sono costrette a fare i conti con la realtà.

La sovrapposizione dell’affermazione del capitalismo globale con la trasformazione dell’atmosfera nel nostro pianeta non è affatto casuale (leggi). Qualcuno ha efficacemente indicato la crisi del 2008 come il “picco della globalizzazione” prendendo a prestito, senza sbagliare, il concetto con cui i geologi definiscono il momento in cui la produzione petrolifera globale raggiungerà l’apice della cosiddetta curva di Hubbert, il “picco della produzione petrolifera globale” per l’appunto, ovvero il punto medio della possibilità di estrazione del petrolio oltre il quale la produzione è destinata a decrescere con la stessa velocità con cui era cresciuta. In seguito al caos finanziario innescato dallo scoppio della bolla dei mutui subprime, il Green New Deal si è imposto come una delle strade percorribili per reagire alla crisi, ed è entrato a far parte delle agende politiche dei partiti progressisti e delle socialdemocrazie occidentali. Il keynesismo verde si basava (e si basa) sull’idea di uno stato interventista, che in qualche modo riproponesse alcune formule del passato riorientate, però, a livello ambientale. E che, attraverso una serie di strumenti di politica economica (soprattutto fiscale, a differenza del primo keynesismo), coordinasse l’intervento pubblico diretto nel campo della transizione energetica, ad esempio, o del trasporto pubblico, o dell’efficientamento energetico del patrimonio edilizio, fino alla riorganizzazione dell’intero complesso infrastrutturale in maniera che potesse svilupparsi in assoluta armonia con le esigenze della cosiddetta terza rivoluzione industriale.

Nonostante questa sua apparente “ragionevolezza”, però, e fatta eccezione per qualche timida misura di facciata, l’agenda verde del keynesismo non è stata adottata in nessun paese. Questo sostanziale fallimento, nonostante la parola d’ordine del green new deal globale riappaia ciclicamente nel dibattito pubblico, è dovuto alle basi materiali su cui poggia la nuova fase imperialista, prima ancora che sull’innegabile offensiva ideologica dei negazionisti climatici. Non basta infatti appellarsi all’influenza nefasta delle “multinazionali fossili” o alla pavidità della classe politica per spiegare perché fino ad oggi nessuna delle sue ricette sia stata realizzata, né in termini di riduzione delle emissioni e protezione ambientale, né tantomeno in termini di un miglioramento dei livelli di occupazione e investimento. Ci sono però differenze chiave rispetto ai “magnifici trenta” di cui non possiamo non tener conto. La prima è che le politiche keynesiane si basano essenzialmente sulla capacità dello Stato di manipolare i flussi di beni, servizi, lavoro e capitale. Una possibilità che è stata fortemente minata dalla ridefinizione su scala globale delle catene del valore e che è inconciliabile con la dimensione per definizione sovranazionale del fenomeno del riscaldamento climatico. La seconda è il passaggio irreversibile ad un modello di accumulazione caratterizzato dalla produzione strutturale di capitale fittizio e da flussi finanziari internazionali, speculativi e non regolati, assolutamente scollegati da quelli che un tempo erano considerati gli indicatori del benessere nazionale: i livelli di reddito e di occupazione. Un keynesismo transnazionale potrebbe basarsi unicamente sul consolidamento di una variazione transnazionale del concetto di sovranità, una sorta di governo mondiale che ci sembra molto al di la da venire, nonché men che meno auspicabile. Il keynesismo verde è dunque una contraddizione a livello economico e politico, una contraddizione che rischia, però, di avere pesanti conseguenze, soprattutto per la sua immutata capacità di catturare consensi.

Sottrarsi alle sirene del “capitalismo progressista” non può significare, però, cadere, anche involontariamente, nel campo di quello reazionario. Il negazionismo climatico, per quanto folle sia nei contenuti, non è né una mera ideologia né un insieme di chiacchiere senza senso, bensì una forza materiale nella storia naturale di questo pianeta che produce danni irreparabili. Indubbiamente la sua leadership (e i suoi finanziamenti) provengono da quella frazione della classe capitalista legata ai combustibili fossili, che influisce in modo pesante a livello ideologico, ma che è anche troppo ridotta per poter esercitare un’influenza in società formalmente democratiche. Le élite che sostengono il negazionismo climatico hanno bisogno di alleati all’interno dei gruppi sociali subalterni e, nei principali paesi capitalisti, in particolare dove il settore dell’energia fossile è esteso, li hanno trovati tra quei segmenti del proletariato che percepiscono le politiche contro il cambiamento climatico come una minaccia per il loro lavoro e il loro stile di vita. Il consenso ottenuto da Trump in larghi settori della classe operaia bianca nella rust belt può essere letto anche in quest’ottica. Sembra così riprodursi anche sulla questione climatica, mutatis mutandis, quello scontro tra élite cosmopolite e populismo reazionario che rimane tutto interno alla borghesia e che ci vede politicamente tagliati fuori.

Prima di concludere queste semplici considerazioni vale la pena aggiungere alcune cose sulle presunte proprietà taumaturgiche delle cosiddette green tech, a cui in molti sembrano guardare con grandi speranze. Quasi a voler far intendere che se è la tecnologia che ci ha condotti in questa situazione, sarà comunque la tecnologia a tirarcene fuori, dimenticando così che il problema del riscaldamento climatico è un problema eminentemente politico. Sappiamo che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è aumentata da circa 270 ppm (parti per milione) dell’era preindustriale agli attuali valori che si avvicinano alle 400 ppm. Sappiamo anche che nei suoi scenari più foschi l’International Panel on Climate Change (IPCC) prefigura la possibilità che si arrivi alle 1000 ppm entro la fine del XXI secolo, con un aumento della temperatura media di 5-6°C. Altri studi meno allarmisti, considerando anche il graduale esaurimento dei combustibili fossili, indicano come prospettiva, comunque sempre troppo alta, quella delle 500/600 ppm. L’effetto più devastante di un aumento della temperatura media globale è quello che si produce sul ciclo dell’acqua. Ogni aumento di temperatura di 1°C porta ad un aumento della capacità dell’atmosfera di trattenere l’acqua in forma gassosa del 7%. Questo provoca radicali cambiamenti nella distribuzione dell’acqua, con un incremento dell’intensità delle precipitazioni, ma una riduzione della loro durata e frequenza. Fenomeni che hanno enormi ricadute geopolitiche, come si è visto recentemente in Siria, dove una siccità prolungata ha spinto più di un milione di contadini impoveriti a spostarsi nei centri urbani. Un esodo che sta alla base della guerra civile e dell’aggressione imperialista che dal 2011 ha martoriato quel paese. Oggi il 7% della popolazione mondiale è responsabile della metà delle emissioni di carbonio a livello globale, mentre metà del pianeta è responsabile del 7% delle emissioni. Questa scandalosa proporzione viene aggravata dal paradosso che nelle nazioni più ricche (e inquinanti), come gli Stati Uniti, il Canada o l’Unione Europea, vivono pochissime persone che rischiano davvero di essere colpite dagli effetti negativi del cambiamento climatico, mentre in Africa e in Asia i profughi climatici sono già decine di milioni. Una disuguaglianza ambientale che fa il paio con lo sfruttamento imperialista.

La risposta a tutto questo, come dicevamo, sembrerebbe essere la “semplice” transizione energetica a quelle fonti di energia rinnovabili in cui anche molti sinceri ecologisti ripongono aspettative quasi magiche. C’è un aspetto, però, di questa transizione che viene edulcorato o, molto più semplicemente, non ci viene raccontato.

1) Le energie pulite implicano il ricorso a minerali “sporchi” il cui sfruttamento è tutto tranne che green. L’estrazione dei metalli rari, indispensabili per tutte le nuove tecnologie, è un processo altamente inquinante che spesso viene portato avanti in condizioni di lavoro medievali. Nella Repubblica Democratica del Congo, tanto per fare un esempio, dove viene prodotto la metà del cobalto utilizzato nel mondo, centomila minatori sono quotidianamente esposti a livello di inquinamento senza precedenti. E lo stesso vale per le miniere di cromo in Kazakistan, per quelle di litio in America Latina o per quelle di terre rare in Cina. Secondo un recente rapporto del Blacksmith Institute, l’industria mineraria è la seconda più inquinante al mondo.

2) Le energie stesse che chiamiamo generalmente “rinnovabili” si basano sull’uso intensivo di materie prime che rinnovabili non sono. In occasione del simposio organizzato a Le Bourget nel 2015, a margine delle negoziazioni di Parigi sul clima, un gruppo di esperti ha pronosticato che da qui al 2040 dovremo estrarre tre volte più terre rare, cinque volte più tellurio, dodici volte più cobalto e sedici volte più litio di oggi per sostenere il nostro stile di vita high tech. Un pianeta abitato da 7,5 miliardi di persone consumerà, nei prossimi tre decenni, più metalli delle cinquecento generazioni che ci hanno preceduto. La quantità dei depositi di minerale nella crosta terrestre è spesso descritta come inversamente proporzionale alla concentrazione. Questo andamento viene detto “legge di Lasky”. Questo significa che depositi a bassa concentrazione sono più comuni di quelli ad alta concentrazione e contengono una quantità di materiali più grande. L’esaurimento progressivo dei minerali ad alta concentrazione forza inevitabilmente l’industria mineraria a spostarsi verso minerali a concentrazioni più basse, ma la quantità di energia necessaria per estrarre qualcosa cresce più rapidamente della semplice proporzionalità. Questo problema diventa particolarmente evidente quando parliamo di minerali che vengono utilizzati per produrre energia: i combustibili fossili e quelli nucleari. C’è un limite evidente che è dato da quel livello per il quale l’energia che possiamo ottenere dal minerale estratto non compensa quella spesa per estrarlo. Questo indice si chiama “resa energetica” o EROEI dall’acronimo di Energy Return for Energy Invested. Detta in altro modo il rapporto tra l’energia ottenuta e quella spesa nel processo di estrazione e consumo, EROEI, deve essere maggiore di 1 affinché l’investimento renda un profitto. Il graduale esaurimento delle risorse porta inesorabilmente a una diminuzione di EROEI, quindi il problema non è se questo accadrà, ma quando.

3) Queste energie chiamate anche verdi o “decarbonizzate” poiché ci consentono di fare a meno dei combustibili fossili, si basano su attività che comunque generano gas serra. Ad esempio, la sola produzione di un pannello solare, tenuto conto del silicio che contiene, genera più di 70Kg di CO2. Con un numero di pannelli solari che da qui in avanti aumenterà del 23% su base annua, significa che le istallazioni solari fotovoltaiche produrranno 10 gigawatt di elettricità supplementare ogni anno, rigettando nell’atmosfera terrestre 2,7 miliardi di tonnellate di carbonio, ovvero l’equivalente dell’inquinamento generato in un anno dall’attività di 600.000 automobili. La moderna industria mineraria tratta enormi volumi di roccia. Si stima che circa il 10% dell’energia primaria generata oggi venga usata da questa industria, in gran parte in forma di combustibili.

Ancora una volta, e per essere chiari: il passaggio dalle fonti energetiche fossili a quelle rinnovabili è necessario e auspicabile, ma la domanda corretta che dovremmo porci è quale tipo di società possiamo immaginare utilizzando le energie rinnovabili come sorgente principale di energia. Il rischio, altrimenti, è che la transizione energetica (e digitale) sia una transizione per le classi più agiate e una delocalizzazione, di fatto, dell’inquinamento. Per dirla con le parole di Mike Davis: “L’obiettivo sarebbe la creazione di oasi di opulenza permanentemente verdi e recintate su una pianeta altrimenti derelitto. Naturalmente, continuerebbero ad esserci accordi, crediti di emissione, lotta alle carestie, acrobazie umanitarie e forse la conversione totale di alcune piccole nazioni e alcune città europee alle energie alternative. Ma l’adattamento globale al cambiamento climatico, che presuppone migliaia di miliardi di dollari di investimenti nelle infrastrutture urbane e rurali dei paesi a basso e medio reddito, così come la migrazione assistita di milioni di persone dall’Africa e dall’Asia, imporrebbe necessariamente una rivoluzione di proporzioni quasi mitologiche nella redistribuzione di reddito e potere.”

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Iraq - La repressione non placa le rivolte

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

I giovani iracheni sembrano non aver più paura di nulla. Nonostante la durissima repressione della polizia (250 morti e 8mila feriti da inizio ottobre) e le intimidazioni armate delle milizie sciite che martedì a Karbala hanno compiuto una strage (18 uccisi), le piazze restano piene. Di persone, tende, smartphone che di notte illuminano le marce, di canti. Bella ciao, in arabo, risuonava nei giorni scorsi, intonata da migliaia di persone. Come in Cile, la settimana scorsa. Disobbedienza civile ma anche azioni che hanno effetti concreti.

Ieri i manifestanti hanno bloccato il porto di Umm Qasr, a Bassora. È qui che arrivano grano, verdure, olio, zucchero, poi distribuiti a tutto il paese, ampiamente dipendente dalle importazioni estere per il settore alimentare. Il blocco ha costretto lo scalo a lavorare al 20% della sua capacità, con le autorità portuali che avvertivano: così si impenneranno i prezzi dei beni primari.

Dalla loro i manifestanti hanno l’appoggio dei capi tribali, in Iraq centrali per la tenuta sociale e politica (lo sapeva bene Saddam): le tribù, vicine alle richieste popolari, hanno dato 48 ore al governo per liberare le centinaia di arrestati di Bassora.

Qui nel sud quelle richieste risuonano quasi più impellenti che altrove, non a caso già nelle due estati passate i capi tribali avevano dato man forte alle proteste per il lavoro: la presenza delle grandi compagnie petrolifere straniere non si traduce in occupazione né in servizi migliori, mentre i contadini scappano dalle campagne desertificate dal crollo del livello di Tigri ed Eufrate.

Ha scelto il sud sciita per farsi vedere tra i manifestanti anche il leader religioso Moqtada al-Sadr, come al solito in prima fila nel sostenere le piazze contro l’establishment (di cui è parte): chiede le dimissioni del premier Adel Abdul-Mahdi, le cui promesse di riforme non bastano a un popolo povero e senza prospettive di redistribuzione della ricchezza.

Martedì al-Sadr ha partecipato alle proteste a Najaf, città santa sciita. Tolto il sostegno alla coalizione che appoggia Abdul-Mahdi, ha fatto appello al blocco parlamentare filo-iraniano rivale al-Fatah, guidato dal potente capo dell’organizzazione sciita Badr, Hadi al-Amiri, per far cadere il premier. Vuole elezioni anticipate e vuole farlo con l’avversario che gli ha già risposto di sì.

Ma gli iracheni vogliono di più: non la mera ripetizione di un sistema settario fallimentare ma la sua fine, accompagnata a una nuova costituzione asettaria. Nel mirino c’è proprio la classe dirigente sciita e il suo sponsor, l’Iran. Teheran è preoccupata: ieri, secondo fonti governative, il generale Soleimani, capo dell’unità al-Quds dei pasdaran, ha fatto visita all’esecutivo nella Zona Verde.

A Baghdad, invece, tra ai manifestanti in piazza Tahrir ieri è scesa l’inviata del segretario generale dell’Onu, Jeanine Hennis-Plasschaert: «Condanno l’alto numero di morti e feriti nelle proteste, c’è bisogno di dialogo nazionale», ha detto in riferimento al fuoco aperto sulla folla nella capitale e nelle città del sud. Parole simili quelle dedicate ieri da papa Francesco all’«amato Iraq»: «Invito le autorità ad ascoltare il grido della popolazione che chiede una vita degna e tranquilla».

Per ora il solo intervento parzialmente in linea con le richieste della piazza è quello del Supremo Consiglio giudiziario che ha annunciato l’apertura di inchieste contro parlamentari accusati di corruzione.

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Fascisti e sionisti nella trappola dell’antisemitismo

La mozione per istituire una commissione straordinaria contro “odio, razzismo e antisemitismo”, proposta dalla senatrice a vita Liliana Segre è passata al Senato, ma senza i voti della destra che si è astenuta.

L’aula del Senato l’ha approvata con 151 voti favorevoli, nessun voto contrario e con le 98 astensioni (che al Senato equivalgono però a voto contrario) di tutti i partiti della destra e del centro-destra.

Le motivazioni del voto contrario meritano di essere conosciute e decostruite, sia per sottolineare la stupidità del mondo “liberal” che l’ignominia fascistoide della destra.

“Sul piano dei contenuti riteniamo troppo ambiguo il passaggio sul contrasto ai nazionalismi – ha dichiarato il senatore di Forza Italia Malan – e la necessità di colpire anche dichiarazioni ‘sgradite’, anche quando non siano lesive della dignità della persona. Per noi prevalgono sempre i principi della libertà di espressione sanciti dalla nostra Costituzione, nei limiti previsti dalla legge. Affermare la propria identità deve essere sempre consentito, se non lede la libertà altrui. Ci dispiace che tali aspetti non siano stati espunti dalla mozione di maggioranza, impedendo un voto unanime che era a portata di mano“.

“Non è una commissione sull’antisemitismo, come volevano far credere, ma una commissione volta alla censura politica. Purtroppo la mozione Segre è in realtà la mozione Boldrini, perché ricalca fedelmente la commistione ‘Jo Cox’ istituita dall’allora presidente della Camera, con la finalità di creare un gruppo di ‘saggi’ con il potere di censurare chi non rispetta i canoni del politicamente corretto” è invece il commento di Fazzolari, senatore del partito neofascista Fratelli d’Italia. Il quale aggiunge: “È impensabile parlare seriamente di contrasto all’antisemitismo e ai totalitarismi senza fare alcun riferimento all’integralismo islamico – ha aggiunto – visto che il pericolo deriva proprio dal fondamentalismo e dall’immigrazione musulmana, e senza recepire la risoluzione del Parlamento europeo di condanna delle dittature nazista e comunista”.

In sostanza la destra sostiene di non aver votato la mozione per istituire la commissione sul razzismo e l’antisemitismo perché non mette nel mirino anche l’antisemitismo “di sinistra” e quello di matrice islamica, non assume l’equiparazione tra nazismo e comunismo votata dal Parlamento europeo, si appiattisce sul politically correct tanto inviso alla destra fondamentalista statunitense, cui si va conformando (grazie anche ad abbondanti finanziamenti) la destra italiana.

Un insieme di orrori ed errori storici su cui i neofascisti “di piazza e di governo” intendono costruire una nuova narrazione storica ed una neolingua nel senso comune nel nostro paese.

Ma questa ennesima torsione dell’ondata e delle forze reazionarie non assolve la stupidità e la pericolosità dei partiti sedicenti “liberal” che hanno voluto questa commissione.

I fatti ci dicono che negli anni più recenti, gli episodi concreti – oltre che i commenti sulla rete – di antiebraismo (chiamiamo le cose con il loro nome, perché anche gli arabi sono semiti), certamente vergognosi e preoccupanti, sono quantitativamente limitati; mentre i casi di islamofobia e razzismo sono in aumento vertiginoso.

In secondo luogo sappiamo che nella storia sono esistiti la segregazione razziale, il razzismo e il pregiudizio razziale e sono tre status ben diversi. La prima viene in genere normata per legge (apartheid), il secondo è un fenomeno sociale tollerato o istigato dalle istituzioni (nazionali e/o locali), il terzo vive e sopravvive nelle pieghe più ignobili del “senso comune”.

Le società più avanzate, anche quelle socialiste, hanno sconfitto i primi due, ma non sempre il terzo. La regressione sociale e civile complessiva – nel nostro paese, in Europa e in moltissimi altri paesi – ha invece riportato pienamente in auge sia il razzismo che il pregiudizio razziale. Ci sono casi in cui alcune leggi statali (e una pletora di delibere di amministrazioni locali) stanno reintroducendo doppi standard sul piano giuridico e legislativo tra nativi e stranieri; atti che istituzionalizzano la discriminazione razziale.

Alcuni aspetti dei decreti Salvini e Minniti rientrano pienamente in questa tipologia. Una volta istituzionalizzata la discriminazione ci vuol poco ad allargare il raggio dei “discriminabili” (dai “neri” ai Rom, dai gay agli ebrei, ecc).

In Italia come altrove il pregiudizio antiebraico non è mai stato rimosso, e non solo nelle sue manifestazioni estreme di razzismo evocate dagli ambiti neofascisti (che hanno nell’armadio le leggi razziali varate dal loro regime nel ventennio), ma anche nel senso comune di ampi strati della popolazione.

E tale pregiudizio, soprattutto negli ultimi venti anni, si è acutizzato anche sulla base del “vittimismo aggressivo” esercitato da alcuni esponenti di primo piano delle comunità ebraiche, in cui è cresciuto enormemente sia l’elemento identitario sionista, sia l’appiattimento sulle politiche colonialiste e di apartheid dello Stato israeliano verso i palestinesi e di scontro frontale con il mondo arabo-islamico.

In sostanza, un combinato disposto incentivato dalla destra sionista israeliana (e statunitense) che ha acutizzato le tensioni, nutrendosi ampiamente di ogni episodio di antiebraismo, strumentalizzato a sostegno e giustificazione di una politica israeliana aggressiva contro i “nemici” mediorientali di turno.

La stupidità del mondo sedicente “liberal”, di cui il PD è oggi la rappresentazione più evidente, ha sistematicamente rifiutato di misurarsi con questo combinato disposto e sul come agisce e interagisce con il resto della società. Ha appiattito tutta la visione del problema su quella desiderata e imposta dagli apparati ideologici dello Stato israeliano, banalizzando spesso l’antirazzismo e facendo proprio il doppio standard: reticenza o silenzi sull’islamofobia crescente e l’apartheid israeliano, amplificazione strumentale dell’antiebraismo.

Non solo. A nessuno sfugge il rischio che dentro questa visione e dentro una norma che sanzioni l’antiebraismo e il razzismo, alla fine vengano estesi i criteri fino a criminalizzare posizioni e campagne d’opinione contro le politiche dei governi e dello Stato d’Israele (vedi la campagna internazionale Bds). I gruppi sionisti nel nostro e negli altri paesi, puntano esplicitamente a questo obiettivo per depotenziare e zittire le iniziative democratiche contro l’apartheid e il colonialismo israeliano, sostenendo e cercando di imporre la irricevibile tesi che chi contesta le politiche israeliane in realtà lo fa per pregiudizio antiebraico e non sulla base di una analisi e di una politica sul ruolo internazionale e regionale di Israele verso i palestinesi e in Medio Oriente.

Infine. Al Parlamento europeo i “liberal” hanno fatto propria l’equiparazione tra nazismo e comunismo votando una risoluzione vergognosa sul piano storico e politico, i cui primi risultati sono proprio quelli di consentire alla destra e ai neofascisti di impugnarla come una clava politica ed ideologica ma, paradossalmente, rivendicando il proprio passato fascista, come il voto contrario in Senato alla commissione sull’antisemitismo e il razzismo sta a dimostrare.

Un capolavoro di stupidità che spiana la strada alle forze reazionarie, come spesso avvenuto nella Storia, quando proprio le palesi contraddizioni dei liberali consentirono l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania.

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Il demone della competitività vede declinare anche le regioni del Nord

Se si fa riferimento all’Europa anche la Lombardia perde competitività e non ha la forza – e forse nemmeno la voglia – di essere la locomotiva per il resto del paese. Sul piano nazionale nessuna regione italiana ha un indice di competitività superiore alla media europea.

Sono questi i dati che emergono dall’ultima edizione dell’indice di competitività regionale elaborato dalla Commissione europea. La ricerca ha validità di tre anni e prende in considerazione 74 indicatori per confrontare l’andamento economico dei vari territori europei, disaggregandoli anche su base regionale e non solo nazionale.

Dall’indice si rileva che tutte le regioni italiane sono sotto la media del continente. Germania, Austria, Gran Bretagna, Francia e paesi scandinavi risultano essere le aree più competitive. Sulla base degli indicatori risultano “più competitivi” dell’Italia anche territori come la comunità autonoma di Madrid, l’area metropolitana di Lisbona e quella di Varsavia.

La crescita economica che caratterizzava le regioni del Nord Italia, si starebbe esaurendo anche nelle aeree più produttive. Le stesse province lombarde, finora considerate tra i “motori d’Europa” al pari della Baviera e dell’Ile-de-France, hanno rallentato bruscamente.

La Lombardia è un caso emblematico: resta la regione italiana più competitiva, ma è sotto la media europea. Gli indicatori negativi attengono alla qualità delle istituzioni, alla stabilità macroeconomica nazionale, all’educazione di base e a quella superiore, la formazione permanente e la reattività tecnologica. Mantiene invece le posizioni per la sanità, le dimensioni del mercato e la “sofisticazione” del business (non chiedeteci spiegazioni su questo parametro, lo sanno solo quelli che lo hanno inventato, ndr).

Ma sulla sanità, occorre dire che è quella italiana – a livello nazionale e non solo lombardo – a risultare migliore della media europea, ed è l’unico indicatore in positivo per l’Italia secondo i coefficienti utilizzati dall’Indice di competitività economica della Commissione europea.

Contestualmente tutti i parametri della Lombardia risultano superiori alla media italiana e molti altri indici sono allineati all’Europa.

In termini di competitività, la classifica delle regioni italiane vede dunque la Lombardia in prima posizione seguita da: provincia autonoma di Trento, Emilia-Romagna, Lazio, Piemonte, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Toscana, provincia autonoma di Bolzano e Umbria. Sotto la media della competitività in Italia (che a sua volta è inferiore alla media europea) risultano invece Marche, Valle d’Aosta, Abruzzo, Molise, Basilicata, Campania, Sardegna, Puglia, Sicilia e Calabria.

Ma l’indicatore europeo sulla competitività ha fotografato una situazione precedente a quella recessiva che si sta abbattendo sul “cuore” della competitività europea ossia la Germania. È conseguenza che tale recessione si andrà abbattendo come un tornado su tutta la filiera produttiva che ne discende. E qui il sistema produttivo italiano è non solo vulnerabile ma del tutto dipendente dalla subfornitura all’industria tedesca, proprio e soprattutto nelle regioni del Nord, Lombardia inclusa.

Si palesa quindi il rischio di una recessione che non farà sconti né prigionieri anche nelle regioni del Nord, sottoposte anche loro ad uno sviluppo disuguale che ha visto declinare aree metropolitane come quella torinese e genovese e concentrare ricchezza, risorse, tecnologie, servizi, forza lavoro qualificata intorno a quella milanese, in Emilia Romagna e in parte del Nordest.

Se la Commissione ritenesse opportuno indagare anche le disuguaglianze sociali oltre che arzigogolati indici di competitività, scoprirebbe buchi neri e scheletri negli armadi anche nelle zone formalmente più sviluppate. Ma non è questa la “mission” né la natura delle istituzioni europee e dei loro parametri. Sono nate per sostenere le multinazionali e le banche, non i lavoratori e gli abitanti.

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I fascisti e il 4 novembre

Da molti anni le organizzazioni post-fasciste e neo-fasciste stanno dedicando grandi sforzi alle celebrazioni del 4 Novembre, giorno in cui in Italia si festeggia la vittoria nella Prima Guerra Mondiale. Ciò potrebbe apparire coerente con la retorica nazionalista dei fascisti, ma stride pesantemente con la storia. A differenza di quanto oggi si racconti, il Fascismo tradì le conquiste ottenute con la Prima Guerra Mondiale. Si tratta di una vicenda oscurata dal revisionismo, ma su cui vale la pena soffermarsi: tanto per riaffermare la verità, quanto per contrastare operazioni politiche reazionarie.

Con la vittoria nella Prima Guerra Mondiale l’Italia poté annettere diversi territori dell’ormai disciolto Impero Austro-Ungarico, arrivando a definire dei confini grosso modo analoghi a quelli attuali, più dei territori che ora sono rispettivamente parte di Slovenia e Croazia.

In Italia nel 1922 Mussolini prese il potere, mentre in Germania Hitler lo ottenne nel 1933. Nel farneticante disegno politico di Hitler era prevista la costruzione della “Grande Germania” o “Terzo Reich” che tra gli altri includesse i territori di quello che era stato l’Impero Austro-Ungarico. Cioè, nel programma del Capo del Governo tedesco era prevista l’annessione di territori facenti parte dell’Italia. Normalmente ciò basterebbe a congelare qualsiasi rapporto diplomatico, invece Mussolini decise di stringere un’alleanza con Hitler. Dal 1936 si cominciò ad utilizzare la locuzione “Asse Roma-Berlino”, Mussolini si mise così a dare forma all’intesa con chi voleva impossessarsi di una parte d’Italia.

Il progetto di “Grande Germania” si iniziò a concretizzare nel 1938 con l’Anschluss, l’annessione dell’Austria.

Il 22 maggio 1939 Italia e Germania siglarono il “Patto d’Acciaio” che oltre ai noti aspetti militari, prevedeva il rispetto dei confini: ma ciò era esplicitato solo nel preambolo (oltretutto con una formula molto vaga) e non tra i punti del trattato. Quel riferimento serviva solo a “gettare fumo negli occhi” dell’opinione pubblica italiana, Mussolini sapeva che la Germania non sarebbe stata vincolata al rispetto dei confini e che sicuramente non lo avrebbe fatto. Eppure Mussolini decise di siglare il Patto segnando il destino dell’Italia.

Il primo settembre del 1939 la Germania invase la Polonia dando il via alla Seconda Guerra Mondiale. L’Italia si schierò a fianco della Germania, ma le cose non andarono come prevedevano le forze dell’Asse: ci si ritrovò nella palese impossibilità di vincere o di uscire dignitosamente dal conflitto. Mussolini si era cacciato in un vicolo cieco, la guerra mieteva vittime e portava distruzione, era ormai improcrastinabile un cambiamento.

Su impulso del Re, il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciò Mussolini che venne arrestato, il nuovo capo del Governo fu Pietro Badoglio che firmò l’armistizio entrato in vigore l’8 settembre del 1943. Il giorno dopo il Re e Badoglio scapparono da Roma per rifugiarsi nel sud Italia sotto la protezione degli anglo-americani. Pochi giorni dopo, il 12 settembre del 1943, un commando tedesco liberò Mussolini (che era detenuto sul Gran Sasso) e lo portò in Austria per poi incontrare Hitler. Da quell’incontro nacque la Repubblica Sociale Italiana (RSI), un governo fantoccio del centro-nord Italia affidato a Mussolini, ma in cui di fatto comandavano i tedeschi.

C’è la convinzione diffusa che la RSI governasse su tutta l’Italia settentrionale, ma non è affatto così: Mussolini cedette alla Germania alcune aree nella parte nord-orientale del Paese. Si trattava dei territori ottenuti con la Prima Guerra Mondiale, quelli che facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico e che Hitler voleva riannettere al Reich. I territori in questione erano: il Friuli-Venezia Giulia con Istria e Dalmazia, una porzione di Veneto e il Trentino-Alto Adige. Questi territori divennero parte del Terzo Reich con il nome di “Zona d’Operazioni Litorale Adriatico” (OZAK) e “Zona d’Operazioni Prealpi” (OZAV).

Mussolini svendette alla Germania tutti i morti e le sofferenze della Prima Guerra Mondiale.

I revisionisti preferiscono omettere questa pagina della storia italiana, per loro non parlarne è il modo migliore per evitare il deflagrare delle contraddizioni. Quando li si costringe ad affrontare la questione si trincerano dietro una argomentazione apparentemente valida ma in realtà assolutamente falsa: che le cessioni territoriali del nord Italia al Terzo Reich erano una dolorosa necessità imposta dai mutamenti nei rapporti di forza determinatisi dopo la caduta del Fascismo e l’8 settembre. Ciò non è assolutamente vero, si tratta di una menzogna con cui i fascisti nascondono le proprie responsabilità.

La RSI era uno “Stato fantoccio” messo in piedi da Hitler per poter gestire i territori dell’Italia centro-settentrionale, lo afferma lo stesso Mussolini in un promemoria datato 8 ottobre del 1943. I fascisti e i revisionisti mentono quando sostengono che a seguito della sudditanza della RSI alla Germania non ci si sarebbe potuti opporre alle cessioni territoriali imposte dai tedeschi, infatti il Fascismo aveva già da anni previsto di cedere alla Germania alcuni territori, in particolare quelli che dopo la Prima Guerra Mondiale erano stati annessi a scapito dell’Impero Austro-Ungarico.

Nel 1941 (cioè, ancora in una fase in cui si credeva di poter vincere la Guerra) Benito Mussolini disse: “l’Europa sarà dominata dalla Germania. Gli stati vinti saranno vere e proprie colonie. Gli stati associati saranno province confederate. Tra queste, la più importante è l’Italia. Bisogna accettare questo stato di cose perché ogni tentativo di reazione ci farebbe declassare dalla condizione di provincia confederata a quella ben peggiore di colonia. Anche se domani chiedessero Trieste nello spazio vitale germanico, bisognerebbe piegare la testa”.

La frase è riportata nei diari di Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri e genero del Duce. Questa frase riassume adeguatamente i rapporti di forza che intercorrevano tra Germania e Italia (cioè la sudditanza di Mussolini ad Hitler) e già da sola sarebbe sufficiente a smontare tutta la retorica nazionalista fascista. Emerge con chiarezza che il Fascismo storico in realtà non aveva minimamente a cuore la Patria e accettava la totale subalternità alla Germania.

Ma quel che rileva in merito alla questione del Confine Orientale è che almeno già dal 1941 Mussolini era pronto a cedere ai tedeschi i territori ottenuti con la Prima Guerra Mondiale: cosa che avvenne due anni più tardi al momento di fondare la RSI. Quindi la cessione di Trieste alla Germania era già preventivata dal Fascismo e determinata dai rapporti in essere tra Hitler e Mussolini e non (come vuol far credere la propaganda reazionaria) una contingenza dettata dagli sviluppi bellici successivi alla caduta del Fascismo e alla creazione della Repubblica Sociale Italiana.

Per quel che riguarda il Trentino-Alto Adige e parte del Veneto, la questione era molto più complessa, in quanto Hitler aveva manifestato l’intenzione (tutta da dimostrare come reale) di lasciare quei territori all’Italia e di trasferirne le popolazioni di lingua tedesca nelle regioni conquistate lungo il Fronte Orientale, progetto noto come “Grande Opzione”. Tuttavia il Terzo Reich aveva fin da principio avuto una condotta ambigua nel Tirolo meridionale.

In realtà, il Terzo Reich voleva annettere tutti i territori dell’Impero Austro-Ungarico persi con la Prima Guerra Mondiale, il Fascismo ne era cosciente e accettò di cederli in cambio di qualche remota colonia. Oltre alla questione puramente geografica, ce ne era pure una etnica: venivano ceduti ai tedeschi anche dei territori abitati da italiani a fronte di colonie con cui l’Italia non aveva alcun legame. Quindi il tradimento dei fascisti era sia verso l’Italia che veniva menomata, sia verso i combattenti e in particolar modo i caduti della Prima Guerra Mondiale che per ottenere quei territori avevano dato anche la vita, sia verso gli italiani che vivevano in quelle terre.

Per queste ragioni (e non solo) il Fascismo non era un movimento patriottico, ma fatto da laidi opportunisti che oggi definiremo “vendipatria”.

I fascisti che celebrano la giornata del 4 Novembre, anniversario della vittoria nella Prima Guerra Mondiale, fanno una becera operazione revisionista. Il Fascismo storico si ammantava di una parvenza nazionalista totalmente fasulla, era un regime fantoccio che svendette la Patria.

Non si può lasciare che i movimenti neo-fascisti vadano raccontando fandonie cercando di far passare il Fascismo per quello che non era. Oggi i neo-fascisti tornano a rappresentare il Fascismo attraverso l’immagine costruita dalla propaganda di regime, ma la storia ci ha dimostrato che le cose non stavano affatto come venivano raccontate.

Tra innumerevoli contraddizioni i neo-fascisti cercano di ripulire l’immagine del Fascismo per renderlo più appetibile alle nuove generazioni. Bisogna costantemente riaffermare che il Fascismo non era solo violenza e sopraffazione (aspetti che purtroppo attirano molti giovani), ma anche codardia, meschinità e falsità.

P.S.

Trattando di fascisti e Prima Guerra Mondiale si deve necessariamente menzionare anche un altro evento. Il 12 dicembre 1969 si inaugurò in Italia la cosiddetta “Strategia della tensione”, quella data è indissolubilmente legata alla strage di piazza Fontana a Milano, dove una bomba collocata dai fascisti fece 17 morti e 88 feriti. L’obiettivo era quello di far cadere la responsabilità dell’attentato su gruppi anarchici o comunisti (oggi si direbbe “false flag operation”) al fine di giustificare una feroce repressione. Tuttavia, sebbene molti non lo sappiano, quel giorno esplosero altri quattro ordigni collocati dai fascisti, questi ultimi fecero solo feriti o danni materiali: uno in piazza della Scala a Milano, uno in via Veneto a Roma e due all’Altare della Patria a Roma.

A prescinder da ogni giudizio sul monumento (anche estetico) e della retorica che rappresenta, quel luogo è il principale sacrario di guerra italiano, la tomba del Milite Ignoto, un soldato scelto a caso, di cui non si conosce l’identità, che incarna tutto il popolo italiano. Il Milite Ignoto fu tumulato il 4 novembre 1921 e da allora in quel giorno le massime autorità dello Stato si recano a rendergli omaggio. Il Milite Ignoto sta a ricordare il prezzo della Vittoria e rendendogli omaggio si ringraziano tutti i combattenti. Piazzare delle bombe su quella tomba oltre che meschino è un profondo sprezzo dei valori che quel sacrario rappresenta. Solo i fascisti ne sono stati capaci.

Il fatto che dopo quell’attentato il 4 novembre dei fascisti si rechino ad omaggiare il Milite Ignoto è una farsa oltraggiosa.

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The frayed ends of sanity


Imperialismi in stallo. I comunisti, le crisi e le alternative per il XXI Secolo

Il mondo del XXI Secolo sta diventando una scacchiera con più giocatori in conflitto ma in una condizione di stallo. Ognuno vorrebbe portare scompiglio sui quadrati degli avversari ma non trova la possibilità di farlo, rimescola la posizione dei propri pezzi; i competitori fanno altrettanto ma si riproduce continuamente uno stallo sul campo. L’unica tentazione – o soluzione come altre usate in passato – è quella di sbaragliare la scacchiera. Con esiti drammatici, come quelli vissuti nel secolo precedente.

Cambiando metafora – e passando dalla scacchiera all’aerodinamica – se un aereo va in stallo, un attimo dopo precipita. E qui, come direbbe il maestro Kassovitz, il problema non sarebbe la caduta ma l’atterraggio.

Traslando questi scenari alle relazioni internazionali di questo primo ventennio del XXI Secolo, lo stallo configura gli attuali rapporti nella competizione interimperialista. Sì perché continua ad essere erroneo ritenere che l’unico imperialismo sia quello degli Stati Uniti o che vi sia un solo impero che sussume e media tutte le contraddizioni e le ambizioni dei vari poli imperialisti che si sono venuti determinando.

Di questo si è discusso a Roma sabato scorso nel forum organizzato dalla Rete dei Comunisti – in una sala piena nonostante il tema più che impegnativo in una fase di pensiero “short and smart” – proprio sul tema dello “Stallo degli imperialismi” e di come contraddizioni e conflitti tra i vari poli si sviluppano con gli strumenti oggi possibili: dalle guerre commerciali a quelle monetarie. Lo strumento militare può essere giocato solo con le sanzioni, la destabilizzazione interna o con conflitti parziali – magari su più teatri di crisi – ma senza poter ricorrere agli armamenti più decisivi come quelli nucleari.

Oggi i soggetti che dispongono di armi nucleari sono molteplici e un rapporto costo/benefici del loro uso per “piegare” un avversario darebbe esiti terrificanti per tutti. In qualche modo sembra essere tornati alla situazione di equilibrio e di mutua distruzione assicurata della Guerra Fredda tra Usa e Urss ma in un mondo diventato multipolare e non più bipolare.

Su questo aspetto e sulla funzione che deve provare a svolgere una organizzazione comunista agente in uno dei poli imperialisti – l’Unione Europea – ha introdotto i lavori Mauro Casadio, ricollegando la discussione su questa fase a quella già avviata nel forum del dicembre 2016 su “Il vecchio muore ma il nuovo stenta a nascere” che in qualche modo la anticipava. Ed è proprio in questo “interregno” che, secondo Gramsci, “si sviluppano i fenomeni morbosi più svariati”. È in questo cambiamento di fase storica e in questa zona grigia della storia che, secondo Casadio, i comunisti devono saper ritrovare il loro ruolo nella messa in campo di alternative di società e di modello produttivo contro quelli esistenti che si vanno avvitando in una crisi senza soluzioni indolori per l’umanità.

Le relazioni che hanno contribuito alla discussione nel forum sono state ampie e ben documentate. La storia della competizione monetaria, dalla disdetta dell’accordo di Bretton Woods da parte degli Usa nel 1971 fino a oggi, è stata ripercorsa da Francesco Piccioni segnalando come il dollaro per decenni abbia agito come strumento di egemonia dell’imperialismo Usa, in quanto moneta non più ancorata a valore reale ma meramente “fiduciaria”, avendo come unica garanzia la deterrenza militare del Pentagono.

Luciano Vasapollo, aiutatosi con diverse slide che saranno rese disponibili a breve, si è soffermato su un processo con un doppio aspetto: quello delle criptomonete. Non sono una alternativa ma anzi sono collaterali al dollaro e all’imperialismo Usa, ma possono essere utilizzate contro di esso, soprattutto da parte dei paesi che stanno puntando sulla de/dollarizzazione negli scambi commerciali reciproci e su criptomonete legate a beni reali come oro o petrolio. È il caso del Venezuela, ma anche di paesi sottoposti alle sanzioni statunitensi come Iran, Russia, Siria e recentemente la stessa Turchia, o la Cina contro cui gli Stati Uniti hanno scatenato una guerra commerciale di proporzioni globali.

Sergio Cararo ha invece ricostruito la rincorsa delle potenze europee dalla fine del XX Secolo verso la costruzione di un polo imperialista autonomo dagli Usa con ambizioni che stanno mettendo in crisi anche uno strumento come la NATO. Un processo che, come scrive il premio Nobel Peter Handke, ha avuto anche un suo atto traumatico di fondazione, quella guerra in Jugoslavia con cui “è morta l’Europa ed è nata l’Unione Europea”. In particolare si è soffermato su due documenti strategici per il progetto imperialista europeo come il “Piano Altmaier” redatto dal ministro dell’industria ed energia tedesco da qui al 2030 e il Trattato di Aquisgrana siglato a gennaio da Francia e Germania.

Guglielmo Carchedi, anche qui con l’aiuto di alcune slide, si è soffermato sui nessi strettissimi tra competizione produttiva e competizione monetaria evidenziando anche gli obiettivi contraccolpi di una rottura con l’euro fondata sulla tesi – sbagliata – dell’utilità della svalutazione competitiva della moneta. Giorgio Gattei ha affrontato la fase della competizione interimperialista attraverso le categorie della geopolitica, usando come metafora lo scontro tra “potenze marittime e potenze terrestri”. Alle prime è ascrivibile lo storico blocco angloamericano, al secondo quello europeo e russo con evidenti conseguenze sulla Nato per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.

Manfredi, del collettivo di economisti Coniare Rivolta ha messo in discussione la tesi del declino del dollaro, ritenendo anche i tentativi di de/dollarizzazione avviati da alcuni paesi più come azioni di resistenza che di offensiva tese a demolire l’egemonia globale della moneta statunitense.

Giacomo Marchetti ha invece sviluppato una questione fin troppo sottovalutata (o strumentalizzata come avvenuto nei mesi del governo giallo-verde) cioè l’uso colonialista del Franco CFA nell’Africa francofona. I meccanismi di dipendenza dei paesi africani ex colonie francesi verso il “centro” sono tuttora micidiali e vincolanti oltre ogni immaginazione. La totale subordinazione al Franco francese è stata poi trasferita all’Euro, con interventi militari, colpi di stato, eliminazione fisica di leader africani scomodi da parte della Francia per impedire ogni aspirazione di indipendenza economica dei paesi dell’Africa francofona.

Nel dibattito è intervenuto Francesco Della Croce per la segreteria del PCI con il quale da tempo è attivo un confronto di merito proprio sulla natura imperialista dell’Unione Europea e su come opporsi ad essa.

Le conclusioni del Forum del 26 ottobre, hanno in qualche modo ricostruito il filo rosso dell’elaborazione che la Rete dei Comunisti ha messo in piedi in questi anni, riaffermando il valore della proposta di rottura con l’Unione Europea in quanto “nostro” strumento dell’imperialismo. La rottura della catena imperialista nei suoi anelli deboli e la rimessa in campo di alternative – tattiche come l’Area Alternativa Euromediterranea – e strategiche come il socialismo, non può più essere una visione rimossa nella elaborazione e nell’azione dei comunisti sul piano politico, sociale, sindacale, ideologico, anche in questa fase di “interregno e di fenomeni morbosi più svariati” in cui ci troviamo ad agire.

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L’eredità di Draghi: un pilota automatico sulla via dell’austerità

Al di là della retorica di queste ore, in cui si celebra la fine del suo mandato come Presidente della Banca Centrale Europea (BCE), la figura di Mario Draghi è una chiave utile a comprendere gli aspetti fondamentali dell’attuale contesto economico e politico europeo. Il suo operato alla guida dell’autorità monetaria passa per alcuni snodi fondamentali: dalla lettera a Berlusconi che firmò da Governatore della Banca d’Italia fino al “whatever it takes” con cui – si dice – abbia salvato l’euro, dalla repressione del dissenso greco nel 2015 al cosiddetto Quantitative Easing con cui ha inondato di liquidità i mercati finanziari europei. Tuttavia, se fossimo stati invitati alla sua cerimonia di commiato che si è tenuta lunedì scorso a Francoforte, avremmo scelto come sintesi della sua eredità politica l’immagine del “pilota automatico”, che coniò nel lontano 2013.

Anno significativo, il 2013 anticipa tutto quello che vedremo svolgersi in Italia fino ai giorni nostri. Si apre, infatti, con le prime elezioni politiche che vedono la partecipazione del Movimento 5 Stelle, un partito che al suo ingresso nel panorama politico parlamentare si aggiudica circa il 25% dei consensi. Si trattava di un marcato mutamento degli assetti politici tradizionali: all’indomani della fallimentare esperienza del Governo Monti, nessuna opzione politica – tra quelle che avevano scandito gli ultimi venti anni di vita politica italiana – appare percorribile: archiviato il bipolarismo, salta lo schema dell’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra e si rendono necessarie nuove strategie e alleanze. Da lì in avanti assisteremo ad un disordinato rimescolamento della classe politica italiana, a partire dal Governo Letta – che vede convergere il centro-sinistra con pezzi consistenti del centro-destra – fino all’inedita alleanza tra PD e Movimento 5 Stelle che governa oggi.

Quell’anno inaugura dunque un’apparente instabilità politica che non sembra ancora esaurirsi, ma quando viene interpellato sui rischi di questa instabilità, il Presidente della BCE Mario Draghi stupisce tutti:
L’Italia prosegue sulla strada delle riforme, indipendentemente dall’esito elettorale. Le riforme continuano come se fosse inserito il pilota automatico.
In qualche maniera, la risposta delude i cronisti che stavano seguendo con passione i continui stravolgimenti del panorama politico nazionale: secondo Draghi, questo caos è solo un’apparenza, sotto alla quale resiste – solido – un disegno di società, un modello di politica economica che si va rafforzando “indipendentemente dall’esito elettorale”, cioè a dire indipendentemente dalla volontà espressa dal popolo sovrano circa la direzione da prendere per organizzare la nostra società.

Volendo riassumere in poche righe l’eredità politica che Draghi lascia all’Europa, nulla è più efficace della figura del pilota automatico. Dietro a quell’immagine c’è un attento lavorio, con il quale le istituzioni europee – la cui punta di diamante è la BCE guidata da Draghi – hanno usato la crisi del 2009 per perfezionare i meccanismi disciplinanti con cui governano l’economia ed impongono ad un intero continente una medesima linea politica, quella del neoliberismo più sfrenato, della deregolamentazione dei mercati, dello smantellamento dello stato sociale e della svalorizzazione del lavoro. Ma quali sono i pilastri di questa architettura politico-economica che Draghi chiama pilota automatico? Superata l’Europa di Maastricht, meno efficace nelle decisioni ed incapace di accompagnare il rapido evolversi del quadro economico internazionale, Draghi lascia alle sue spalle un’Europa nuova, più flessibile e per questo capace di rafforzare il suo governo dell’economia, un controllo che passa per due momenti fondamentali: sorvegliare e punire.

Sorvegliare

Appena insediatosi a Francoforte, parlando ad un Parlamento Europeo diviso sul percorso da intraprendere per riformare l’Europa in piena crisi economica, Draghi indica una via. Mettere da parte le divisioni e concentrarsi immediatamente sulla disciplina fiscale:
Credo che la nostra unione economica e monetaria abbia bisogno di un nuovo contratto di finanza pubblica – una riscrittura fondamentale delle regole di bilancio da associare agli impegni dei Paesi della zona euro.
Un contratto fiscale, un accordo sulla disciplina dei conti pubblici scorporato da tutte le altre questioni sulle quali i politici europei si sarebbero potuti continuare a confrontare per lustri: è la nascita del Fiscal Compact, che impone ai paesi europei non più l’indicativa soglia del 3% massimo di deficit pubblico, ma un rigido pareggio di bilancio accompagnato da un monitoraggio costante dei conti pubblici, il Semestre Europeo. Si tratta di un vero e proprio salto qualitativo rispetto allo schema di Maastricht, uno schema che aveva consentito continue eccezioni alla regola, lasciando ampi spazi ai governi europei per aggirare la disciplina di bilancio. Con il Fiscal Compact, il disavanzo pubblico di medio termine viene sostanzialmente bandito, costringendo tutti i Paesi ad una stretta fiscale. Con il Semestre Europeo, le istituzioni europee hanno la possibilità di vagliare ogni singolo passaggio nella definizione della politica economica dei Paesi membri, costretti a trasmettere a Bruxelles con anticipo tutti i documenti fondamentali di finanza pubblica. La Commissione Europea controlla così la scrittura stessa della Legge di Bilancio, e può indicare a ciascun Paese i passi che deve intraprendere per tornare sul percorso di riduzione del debito pubblico imposto dal Fiscal Compact. Questo schema consente dunque una sorveglianza totale sulla politica economica dei singoli Paesi da parte delle istituzioni europee.

Punire

Questo meccanismo disciplinante sarebbe però inefficace se non prevedesse un’adeguata punizione per i Paesi restii a seguire le prescrizioni del Fiscal Compact. E qui interviene, direttamente, l’azione dell’autorità monetaria. Tutti i nuovi strumenti di politica monetaria introdotti sotto la Presidenza Draghi (dalle Operazioni Monetarie Definitive, le OMT, al Quantitative Easing, il QE) hanno condotto sul proscenio del governo dell’economia europea la sua banca centrale, confinata fino ad allora ai compiti tradizionali di gestione dei mercati finanziari e valutari. Quando Draghi dichiarò che avrebbe fatto tutto il necessario per salvaguardare la tenuta della moneta unica, il famoso “whatever it takes”, sancì l’inizio di una dominanza monetaria sull’economia europea che passava per una impetuosa inondazione di liquidità. Più che triplicando la dimensione del proprio bilancio, la BCE si è posta al centro del funzionamento del sistema economico e, ciò che più conta, si è messa nella posizione di poter condizionare pesantemente le politiche fiscali nazionali.

La politica fiscale, ovvero la politica di bilancio di uno Stato, concerne le scelte di spesa pubblica e di finanziamento della stessa che può avvenire o tramite i tributi o in deficit (tramite il ricorso al debito pubblico): controllare i meccanismi e le condizioni dell’indebitamento pubblico significa, di fatto, controllare una parte rilevante della politica di bilancio di un Paese. Esattamente quello che la BCE sta facendo negli ultimi anni. In che modo? Tra i più importanti strumenti concreti di conduzione della politica monetaria adottati da una banca centrale vi sono le compravendite di titoli sui mercati finanziari: si tratta di operazioni che consentono di immettere e ritirare moneta dal sistema economico. L’oggetto principale degli acquisti condotti dalla BCE dal 2015 ad oggi sono stati i titoli del debito pubblico dei Paesi membri, ed oggi l’autorità monetaria è il principale creditore di tutti i governi europei. Questa posizione di dominio gli permette di attestarsi un ruolo di vertice anche nelle scelte di politica fiscale dei singoli Paesi. Ad esempio, se un governo prova a realizzare un deficit di bilancio maggiore di quello consentito dalla Commissione Europea, il tentativo viene immediatamente rilevato dal capillare meccanismo di sorveglianza dei conti e scatta la punizione: la BCE inizia a ridurre gli acquisti dei titoli del Paese indisciplinato, o addirittura inizia a vendere sui mercati lo stock di quei titoli in suo possesso. Ciò provoca una diminuzione del prezzo del titolo e, parallelamente, un aumento del tasso d’interesse: appare così lo spread, ed il Paese indisciplinato inizia a ballare la rumba dell’instabilità finanziaria. Ecco che, usando la leva monetaria, cioè tutta la potenza di fuoco inaugurata con il “whatever it takes” e messa in campo con il QE, la BCE ha il potere di ricattare i governi europei: o accettano il percorso disegnato dal Fiscal Compact, e cioè la linea politica dell’austerità, oppure sono condannati all’instabilità finanziaria e alla crisi.

Ecco il pilota automatico

Noi possiamo certamente votare, in via ipotetica, per ricostruire lo stato sociale, per migliorare la legislazione sul lavoro, per nazionalizzare i settori strategici o per ogni altra misura che possa avvantaggiare le classi subalterne, ma l’Italia, piaccia o non piaccia al popolo sovrano, deve proseguire lungo i binari dell’austerità fiscale e della distruzione del modello sociale europeo, indipendentemente dall’esito elettorale. Perché la nostra moneta, l’euro, non è un neutrale strumento di gestione dell’economia: è un progetto politico preciso, a cui Draghi ha conferito la forza di imporre disoccupazione, precarietà e sfruttamento fuori da ogni controllo democratico.

Sì, Draghi ha salvato l’euro, ma per farlo ha condannato 500 milioni di europei ad un modello di società incentrato sul profitto di pochi e sulla precarietà di molti, il cui perimetro di definizione è scritto a chiare lettere nei trattati dell’Unione Europea. Questa è la sua eredità.

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30/10/2019

La polveriera libanese

Con le dimissioni del primo ministro, Saad Hariri, la crisi politica e sociale in Libano è entrata in una fase nuova e decisamente delicata. Il capo del governo di Beirut, di fede sunnita, si è ritrovato senza molte altre scelte dopo le quasi due settimane di proteste oceaniche nel paese dei cedri. L’intensità della rivolta in atto contro l’intera classe politica libanese è tale però che cambiamenti cosmetici o trascurabili potrebbero non essere sufficienti a ristabilire l’ordine. Allo stesso tempo, la precarietà dell’economia, le turbolenze regionali e, soprattutto, un’impalcatura costituzionale rigorosamente settaria rendono complicato qualsiasi reale progresso sul piano politico e sociale.

Hariri è apparso martedì in diretta televisiva rilasciando una dichiarazione di meno di un minuto per prendere atto dello stallo politico venutosi a creare di fronte alle manifestazioni di massa. Prima di recarsi dal presidente, il cristiano maronita Michel Aoun, per rimettere il suo mandato, il premier pare abbia cercato senza successo di rimescolare le carte all’interno del governo assieme ai suoi alleati, in modo da provare a mandare un qualche segnale alla piazza.

Già settimana scorsa, Hariri aveva proposto una serie di “riforme” in risposta alla crisi, tra cui il dimezzamento degli stipendi dei politici e un contributo da parte delle banche alla riduzione del gigantesco debito libanese. Le misure erano state però giudicate tardive e insufficienti dai manifestanti, del tutto contrari inoltre al fatto che a implementarle avrebbero dovuto essere gli stessi politici responsabili della situazione odierna del Libano. Alla fine, le dimissioni di Hariri sono apparse inevitabili a un’élite che per il momento non vede altre soluzioni per mantenere una stabilità necessaria a evitare la radicalizzazione dello scontro e a garantire la conservazione dei propri privilegi.

A rendere esplosivo il quadro libanese odierno è in primo luogo il carattere unitario e non settario delle proteste. Ciò mette i dimostranti su posizioni diametralmente opposte a quelle della classe politica, la cui legittimazione deriva da un sistema basato invece proprio sulle divisioni confessionali, stabilite dall’ex potenza coloniale francese al termine del primo conflitto mondiale.

La rigida spartizione delle strutture del potere, assieme alla creazione di un apparato clientelare nel paese da cui i principali clan traggono la propria autorevolezza, è sempre servita alle potenze regionali e internazionali a mantenere il Libano debole e a farlo diventare un terreno di scontro su cui combattere per la supremazia nel Medio Oriente. Nella sua espressione più macroscopica, l’architettura settaria del Libano prevede che l’incarico di presidente sia assegnato a un esponente della comunità cristiana maronita, quello di primo ministro a un musulmano sunnita e quello di presidente del parlamento a uno sciita.

Le proteste di questi giorni hanno visto invece uniti i libanesi di tutte le confessioni, impegnati precisamente a chiedere la fine delle divisioni settarie, strettamente collegate al monopolio del potere politico e delle ricchezze del paese da parte di un numero ristretto di famiglie e di ultra-ricchi. I leader e i partiti sunniti e quelli sciiti, incluso Hezbollah e gli alleati di Amal, sono stati così spesso presi di mira dalle proteste proprio nelle loro roccaforti. La stampa occidentale ha raccontato anche in varie occasioni di episodi nei quali esponenti del “partito di Dio” avrebbero attaccato i manifestanti nelle strade.

Il numero uno di Hezbollah, Hassan Nasrallah, era intervenuto pubblicamente per riconoscere le ragioni della protesta, ma aveva chiesto anche moderazione e si era detto contrario allo scioglimento del governo Hariri, di cui fa parte il suo partito-movimento. Nasrallah si rende conto perfettamente che un eventuale vuoto politico minaccerebbe non solo la stabilità del Libano, ma esporrebbe il paese a interferenze di potenze, come Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita, che puntano a indebolire l’asse della “resistenza” in Medio Oriente. Un Libano ancora più debole e diviso è utile in altre parole a limitare l’influenza su di esso dell’Iran, soprattutto dopo il sostanziale fallimento dell’operazione di cambio di regime in Siria orchestrata da Washington e Riyadh.

La delicatezza della situazione libanese risiede nel fatto che gli spazi di cambiamento sono drammaticamente ristretti. In assenza di una prospettiva efficace dell’opposizione di piazza, gli scenari ipotizzabili non sembrano incoraggianti. Un nuovo governo o nuove elezioni riproporrebbero in sostanza gli stessi scenari odierni, senza contare che la formazione di un esecutivo o il raggiungimento di un accordo su questioni importanti per il paese richiedono solitamente mesi, se non addirittura anni, di discussioni e trattative.

L’unica soluzione è per molti la fine del sistema settario, intrecciato agli indirizzi economici neo-liberisti adottati dopo la fine della guerra civile (1975-1990), che domina la vita politica e sociale del paese. Un passo in questa direzione richiederebbe però decisioni fin troppo coraggiose per una classe politica che nel settarismo trova la sua stessa identità e grazie a esso può continuare a soddisfare i propri interessi.

Con i manifestanti che ritengono insufficienti i passi fatti finora, dopo le dimissioni di Hariri toccherà al presidente Aoun, uno dei bersagli principali delle proteste, decidere i prossimi sviluppi della crisi. L’anziano leader cristiano-maronita potrebbe ridare l’incarico allo stesso Hariri, anche se, al di là del nome del capo del prossimo governo, si stanno moltiplicando le richieste per un gabinetto di tecnici.

Ufficialmente, questa scelta dovrebbe servire a superare almeno in parte e per il momento i vincoli settari e permettere l’apertura di un percorso di “riforme” che rispondano alle richieste dei libanesi scesi nelle piazze. In realtà, non appena dovesse esserci una qualche stabilizzazione politica, ritorneranno le pressioni per rimediare alla disastrosa situazione finanziaria del Libano, lasciando poco spazio a misure necessarie a migliorare redditi e servizi pubblici. Lunedì, infatti, il governatore della Banca Centrale libanese ha avvertito in un’intervista alla CNN che il paese ha solo pochi giorni di tempo per evitare il disastro finanziario.

Il terremoto in corso in Libano è ad ogni modo un fenomeno che si inserisce in un quadro planetario segnato da crescenti rivolte popolari contro classi dirigenti sempre più arroccate nella difesa del privilegio e delle differenze di classe, quasi sempre con metodi repressivi e anti-democratici.

Nel vicino Iraq, ad esempio, da settimane è in atto una crisi per molti versi simile a quella libanese. L’invasione americana del 2003 ha anche qui dato vita a una divisione settaria del territorio e delle strutture politiche, mentre le condizioni della maggior parte della popolazione sono decisamente peggiori di quelle riscontrate in Libano.

Inoltre, come a Beirut, anche a Baghdad gli scenari interni hanno riflessi su quelli regionali, essendo anche l’Iraq terreno di scontro tra potenze, principalmente USA e Iran, con interessi contrastanti. In Iraq, la risposta del governo alle proteste è stata tuttavia molto più sanguinosa, come dimostrano gli almeno 250 morti registrati dall’inizio degli scontri il primo giorno del mese di ottobre.

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La "formula" del M5S non funziona più

Salvini grida vittoria e dice che questa è la dimostrazione che il governo Conte non ha la maggioranza del paese con sé. È possibile che questa diagnosi abbia del vero, ma basarla sul risultato di una regione che rappresenta circa l’1,5% dell’elettorato mi sembra un po’ azzardato. Quantomeno aspettiamo gennaio con il voto il Calabria ed Emilia per avere una indicazione più generale.

Anche perché era un voto condizionato da un fattore locale come lo scandalo che, pochi mesi fa, ha travolto la giunta di Catiuscia Marini e che era stato fatto scoppiare proprio dai 5 stelle che ora erano alleati del Pd che avevano denunciato e, pertanto, è stato un errore della maggioranza quello di politicizzare un test perso in partenza come questo.

Comunque, il dato non va sottovalutato e bisogna capire sino a che punto segnala tendenze replicabili anche nel resto del territorio nazionale.

Cerchiamo di capirlo partendo dalle evidenze maggiori: il blocco di destra segnala una vittoria gonfiata dal dato locale, ma abbastanza in linea con i sondaggi e con il risultato delle europee, anche relativamente ai singoli partiti, con la Lega saldamente in testa, Fdi in salita e Forza Italia che precipita. Quindi c’è poco da dire se non prendere atto che gli italiani, almeno per ora, non sembrano guariti dalla “salvinite”.

E qui, per spiegare le ragioni del persistente successo, bisogna lavorare su due temi: tasse e sicurezza. Ne riparleremo.

Le novità sono nel campo giallo-rosso. Il Pd, considerando che ha appena subito una scissione, che subiva in prima persona gli effetti dello scandalo, che c’erano diverse liste di appoggio eccetera, non se l’è cavata male replicando sostanzialmente il risultato delle europee con quel 22%.

Il crollo avviene tutto sul terreno del M5s che dimezza i voti rispetto a 5 mesi fa, rispetto ad un risultato che già dimezzava i voti rispetto alle politiche. Cosa non ha funzionato?

Di Maio dice che è l’esperimento a non aver funzionato: il M5s perde se è in coalizione con altri (tanto Lega quanto Pd) e che vede restare da solo per recuperare consensi.

Ma, per la verità, la scelta di eliminare la norma che proibiva al M5s di allearsi con chiunque fu proposta proprio da lui che era in fregola governista e si sarebbe alleato coi marziani pur di entrare a Palazzo Chigi. Può darsi che questo abbia avuto un peso, ma, nel caso, il valente uomo politico dovrebbe trarne le conclusioni.

Ma io non credo che il punto sia questo: anche se nel 2018 il M5s fosse restato solo e si fosse andati ad elezioni anticipate, il suo destino, dopo un po’ sarebbe stato lo stesso poco favorevole perché, a meno dell’improbabile caso di prendere il 51%, il suo sarebbe parso un voto inutile e lo stesso gli elettori si sarebbero ritirati.

Il punto chiave è un altro: il M5s ha perso ogni credibilità. Dopo aver promesso di cambiare la politica in questo paese (ed aver promesso anche molto più di quel che sarebbe stato possibile) si è rivelato tanto uguale agli altri ed è diventato anche esso un partito personale come Forza Italia, la Lega, il Pd.

In più ha dimostrato una singolare inattitudine a governare, una singolare impreparazione della maggioranza dei suoi esponenti, Di Maio in testa. Ma, soprattutto, ha mostrato di non avere alcuna linea politica, salvo una collezione di slogan inconcludenti.

Il colpo di grazia è venuto a maggio, dopo il risultato delle europee che segnavano un tracollo senza precedenti nella storia dell’Italia repubblicana.

Questo avrebbe dovuto indurre Di Maio ad una dignitosa ritirata nella speranza di trovare un altro modo di rilanciare il movimento, ma Di Maio, anche in questo uguale al resto della casta, a tutto ha pensato meno che a farsi da parte e si è accontentato dell’inutile ed irrilevante liturgia sulla piattaforma Rousseau: quando 6 milioni di elettori ti girano le spalle, il plebiscito di 60.000 pasdaran non spostano di un millimetro la situazione.

Poi è venuto il rovesciamento delle alleanze (per la verità voluto da Salvini) e lui, uomo per tutte le stagioni, è disinvoltamente passato dalla divisa giallo verde a quella giallo rossa: in politica, quando si cambia linea ed alleanze si cambia anche il generale.

Ora temo che qualsiasi cosa faccia il M5s sia troppo tardi per invertire la tendenza che lo vede avviarsi ad essere un partitino sotto il 10%. Magari Conte potrebbe fare un suo partito giocando sul suo consenso personale, e magari potrebbe avere successo, ma temo che la disfatta abbia compromesso anche lui, anche perché, salvo un forte recupero in Calabria ed Emilia (e sempre che non sia pugnalato alle spalle da Di Maio), credo abbia poco tempo per realizzare questo progetto.

Ripeto quel che ho già detto in altra occasione: il M5s è stato un esperimento interessante all’inizio, pur fra errori ed insufficienze, dopo è arrivata l’era Di Maio che lo condurrà alla tomba. Peccato.

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L’innominabile realtà della violenza. Note su Joker

di Jack Orlando

Non capita spesso che da un film scaturisca un dibattito serrato e prolungato all’interno dell’habitat di movimento, solitamente distratto agli stimoli esterni. Eppure su Joker di Todd Phillips si stanno spendendo fiumi di inchiostro e di post; grande cosa l’interrogarsi a partire da certe cose, ma spesso l’analisi si concentra sulla banale assimilazione o rinnegamento del personaggio secondo i nostri schemi interpretativi e l’approfondimento si arena allora sulla benedizione o l’accantonamento.

Ci si chiede se Joker sia un potenziale stragista nero, un apprendista Spartaco, una vittima da compatire o curare prima che la sua furia degeneri. La questione, se permettete, è più complessa.

Joker non è un nazista, non è un incel, non è un compagno, né un vendicatore mascherato e nemmeno un semplice psicopatico.

Joker è l’immagine estrema ed estremizzata del subalterno: il prodotto violento di una società violenta; è l’individuo alienato, sfruttato, rinnegato, rigettato ai margini di un mondo che non lo necessita e non si esime dallo sputargli addosso tutta la sua mostruosità.

Joker/Arthur Fleck è un individuo mediocre, non è bello, né brillante, non ha aspirazioni se non quella di fare il comico, di esercitare un mestiere: aspira al suo posto nel mondo potendo mangiare con ciò che gli piace; e tuttavia non brilla nemmeno nella sua comicità se non quando è oggetto di scherno sadico. Come un giullare deforme alla corte di un sovrano annoiato.

Joker assume su di sé tutta la violenza strutturale di un sistema classista, rapace e psicotico, la respira nei bassifondi della sua città, la mangia con il cibo precotto e gli psicofarmaci mentre la osserva dalla sua postazione tv.

Joker è la parte mostruosa di ognuno di noi, non in quanto individuo psicopatologico, ma in quanto soggetto alienato, straccio da piedi della società, produttore/consumatore deumanizzato.

È rinnegato dalla sua stessa comunità che lo addita con un misto di scherno e paura: è il mostro, il matto, il negro, il pezzente, lo spiantato, il fallito, è ciò che fa capolino allo specchio del bagno ad ogni abluzione mattutina.

Il povero Arthur Fleck non aspira altro che a diventare umano. E lo diventa solo nel momento in cui la vendetta diventa un opzione praticabile, quando un qualche giovane ricco e di successo cade a terra impallinato come merita. Nel gesto violento, irrazionale, finanche accidentale Joker schiude a se stesso una dimensione liberatoria, anche quando quel gesto è assolutamente ingiustificabile ed abominevole, Joker si riprende se stesso facendo a pezzi i totem del dominio che lo ha tenuto schiavo.

E la violenza vendicatrice è immediatamente recepita dalla massa subalterna nel suo significante liberatorio, il pagliaccio assassino di ricchi da ultimo resto della catastrofe neoliberista diviene immediato volto della rivolta sociale, della “giusta vendetta”. La comunità degli oppressi, amorfa e incattivita trova la sua collocazione nel mondo tracciando una linea invalicabile tra sé ed il proprio nemico. Ricchezza e plebaglia, ville lussuose e slums, poliziotti che proteggono la società e sbirri che difendono i privilegiati. È la semplice divisione manichea del mondo che diviene tangibile nel momento dello scontro, il momento che rende tale una comunità e che dipana nella pratica il concetto di classe. Non ci sono buoni né cattivi, non c’è una morale che possa essere univoca, ognuno ha il suo posto nella gerarchia del mondo tardo capitalista e da lì può scegliere se piegarsi o muovere guerra.

Chiariamoci, Joker non è un personaggio esplicitamente politico, se ne frega della rivolta anche quando la trova bella e gode della sua apocalittica performance, la sua è una vendetta individualista e nichilista contro il mondo e contro se stesso, contro ciò che il mondo lo ha costretto ad essere ed è, in fondo, lo stesso sentimento che muove ognuno degli stereotipati insorti di Gotham City. È la recezione di quella sfera liberatoria da parte del proprio simile collettivo a schiudere un piano di sovversione. Ciò che c’è di politico nel film è anzitutto il disvelamento parossistico di un mondo diviso brutalmente per classe in due mondi differenti e non compatibili l’uno con l’altro, un mondo a compartimenti stagni dove ognuna delle due metà non può che essere, in fondo, irriducibile all’altra. Laddove viga la pace sociale, è una pax armata garantita dal rapporto di forza. L’altro elemento politico del film, per quanto stereotipato ai limiti del banale è la suddetta violenza che nel gesto disperato ed individuale trova una profonda eco collettiva nel momento in cui risponde alle più recondite esigenze esistenziali di un soggetto subalterno che è perennemente sull’orlo del baratro di una crisi di nervi o di una sommossa popolare.

Per tornare al Joker ed al suo essere né un fascio né un compagno, ma un figlio bastardo del capitalismo, esso non è interessante in quanto villain o psico-giustiziere, è la verità che impone al mondo tramite il gesto innominabile ad essere profondamente interessante.

Purtroppo è una verità che si manifesta nello stesso identico modo degli attentati dei cani sciolti nazisti o dei radicalizzati islamici, ma (ed è un MA grande come la Trump Tower) verticalizzata tramite la sommossa secondo linee di classe. Joker individuo colpisce chi gli procura sofferenza più da vicino ed è spesso orrendo nel farlo, ma la traiettoria che disegna andando ad ammazzare i ricchi è la carta che genera un Joker collettivo, con un nemico che più chiaro non può essere quando inizia a muoversi al grido di Kill the rich!, le stesse pulsioni compresse e lo stesso nemico trasformano l’umanità disgregata da bassifondi in forza d’urto della rivolta.

È in questa coincidenza tra gesto individuale e nichilista e soggettivazione collettiva che si condensa il dato politico di una storia simile. È una versione sangue e merda della dialettica servo-padrone di Hegel se volete, oppure ancora il principio fanoniano della rivolta; è qualcosa che dovremmo ben conoscere insomma.

Ora, duole ammetterlo, ma i ragazzotti bianchi e frustrati di Crhistchurch, di El Paso, Oslo o Macerata, come anche i giovani immigrati radicalizzati del Bataclan e di Nizza, quando agiscono compiono un gesto immensamente politico: elevano la propria violenza nichilista (ed il proprio sacrificio) ad atto di redenzione che cauterizza tutte le ferite riportate in anni e anni di esistenza frustrante, priva di significato e prospettiva. Uno lo fa in nome della supremazia bianca, l’altro in nome della Jihad. Ma la matrice è la stessa e la possiamo trovare nelle macerie fumanti del nostro tempo, proprio lì all’angolo sotto casa.

Ognuno di questi gesti crea un precedente, disegna una traiettoria, indica un nemico, chiama all’azione il suo simile e interroga il presente sulle sue responsabilità nella catastrofe dell’Occidente. È questa politicità, quasi sempre negata dal potere, a rendere chiaro, comprensibile e soprattutto ripetibile questo gesto. Dopo un Breivik ce ne sarà un altro, per ogni Johnny Jihad in tv ce ne sono alti dieci al computer. Pionieri tristi della guerra civile che viene, la cui violenza non si scaglia verso l’alto ma in orizzontale o verso il basso, contro il proprio omologo o subordinato. Alfieri di un apocalisse che l’antagonismo ha smesso di accarezzare per dedicarsi al pietismo, alle autonarrazioni, al far le pulci ad ogni cosa si muova fuori dalla finestra, rimbecillito e compiaciuto della propria marginalissima ed autolegittimata ragione.

Che la violenza di una vita miserabile possa essere maneggiata da un qualche disperato e rispedita contro la società in modo confusionario e nichilista, desti scandalo tra le facce pulite dei salotti bene, degli yuppies e delle aspiranti famiglie Wayne è normale: ogni cosa turbi il buon ordine liberale è qualcosa di inaccettabile, maligno e corrotto. Ma che i supposti rivoluzionari non colgano (che non vuol dire condividerne le enunciazioni ma comprenderne la forma e le causali) il dato politico dei gesti d’insubordinazione e (auto)distruzione è assai grave.

Come Joker, così come i novelli stragisti, tempi addietro a scaricare il proprio odio e la propria vendetta contro il nemico c’erano Sante Caserio, Giovanni Passanante, Jean-Jacques Liabeuf, Gaetano Bresci e tutta una sequela di celeberrimi Signor Nessuno che irrompevano, con la loro drammatica verità, sul teatro della storia a scompigliar le carte del dominio. E per ognuno di questi Signor Nessuno c’era una schiera di altrettanto cenciosi Nessuno ad erigere barricate per rivendicare il gesto e la liberazione del vendicatore, a celebrarne le gesta sui muri o anche solo ad annuire compiaciuti alla notizia riportata sul quotidiano.

Chiariamoci di nuovo, tutto questo parlare di violenza parrebbe macabro ed eccessivo, non si vuole certo fare qui apologia dello stragismo o dell’infanticidio, non sono mica nelle nostre corde!

C’è qui da riflettere piuttosto su quanto la realtà di una violenza strutturale e sistemica, subita sulla pelle giorno dopo giorno da milioni di individui, sia tristemente sparita dal nostro orizzonte. Come se il semplice discettare di politica e proporre colazioni meticce e solidali, fare a spintoni con la polizia ogni tanto e riunirci nei nostri mirabolanti parlamentini ci basti a non guardare fuori (e dentro) di noi; come se bastasse un centro sociale a cancellare la rabbia, la tristezza, la frustrazione delle vite mutilate. I nostri nemici sono cartonati da campagna stagionale, i nostri eroi vendicatori sono diventati caricature innocue, la nostra militanza diventa panacea per non affrontare l’orrore. E ci si ritrova spesso a condividere il biasimo della classe dirigente, scuotendo tristemente la testa davanti all’ennesimo gesto disperato.

Joker non è un rivoluzionario né un eroe, è un banalissimo dato di fatto. E mentre il milieu militante si guarda l’ombelico chiedendosi se Arthur Fleck sia buono o cattivo, nazi o rosso, malato o ribelle, fuori da queste stanze, qualcuno molto meno preparato di noi comprende l’essenza del messaggio, veste la stessa maschera e scende in strada. E noi o saremo in grado di comprenderla ed indossarla quella maschera, o il fuoco che muoverà brucerà noi per primi.

Sono gli altri ad essere impazziti, o siamo noi ad aver perso la bussola?

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Il Maledetto United (2009) di Tom Hooper - Minirece


L’Umbria parla dell’Italia intera

I primi commenti dei dirigenti che hanno – largamente, solennemente, indiscutibilmente – perso in Umbria spiegano bene perché i risultati di ieri sono solo l’inizio di una via crucis che porterà alla futura vittoria della destra alle politiche.

Invisi a tutti, antipatici come la varicella, distanti anni luce della realtà, i giallorossi adesso si barricheranno al governo dicendo che, in fondo, l’Umbria è uno sputacchio di regione e il voto ha riguardato solo quattro gatti.

Una posizione demenziale: in un paese governato dai sondaggi fatti con qualche centinaio di telefonate, ieri su un campione di quasi mezzo milione di elettori, la destra è andata vicina al 60% (e Salvini e Meloni in due stanno sopra al 50%). Era chiaro, infatti, che di eleggere una presidente incompetente come la Tesei non gliene fregasse niente a nessuno: l’obiettivo era mandare un messaggio a Zingaretti, Di Maio, Speranza, Conte e Renzi per far loro presente che dovrebbero andarsene al diavolo una volta per tutte.

Come sia potuto accadere è sotto agli occhi di tutti, ma vale la pena ribadirlo brevemente. Sabato ho intervistato Renato Covino, docente di storia contemporanea all’Università di Perugia. La prima cosa che mi ha detto, circa 18 ore prima dell’apertura delle urne, è che la destra aveva già vinto. Perché? Risposta: «Perché qui negli ultimi dieci anni c’è stata una crisi sociale spaventosa e questi hanno continuato a ripetere fino all’ultimo che va tutto bene. Sono andati sui coglioni a tutti, persino a chi li vota».

Il «qui» di Covino è l’Umbria, ma in fondo vale per quasi tutta l’Italia. Il prof poi ha aggiunto: «Il Pd è un partito che non esiste più, se non sta al governo o non amministra, non è capace di fare niente. Non ci sono sedi, non ci sono circoli, non ci sono militanti. Ormai non è più un partito». Né, visti i risultati, un insieme di comitati elettorali.

E ancora, certo: la propaganda, le cazzate, il vento che tira, eccetera.

Vent’anni abbondanti di sinistra ultrasoft, dieci strati di morbidezza, paura di dare dispiaceri ai moderati, ossequio verso i padroni (qualsiasi padrone), politiche timide e pratiche di destra per cercare di prendere i voti di destra (non riuscendoci mai, ovviamente), non solo hanno avuto conseguenze sociali nefaste, ma stanno anche regalando il paese alla destra estrema.

Adesso qualsiasi cosa accadrà sarà un disastro: l’alleanza di governo può scegliere di resistere e logorarsi finché praticamente non sarà scomparsa in società, oppure può decidere di tornare al voto, andando incontro a una sconfitta addirittura peggiore di quella che avrebbe subito se non ci fosse stato il Conte bis.

[Di quello che accade a sinistra del Pd non parlo, per carità. Mi limito a consigliare qualche seduta di psicoterapia e poi un lungo periodo di riposo]

E poi, un’altra cosa: continuare a fare alleanze non sulla base di motivi politici ma per paura che vincano gli altri non è mai stata una buona idea, e ieri ne abbiamo avuto un’ennesima dimostrazione.

Salvini ha definito «storica» la vittoria in Umbria. Ha torto: era una vittoria scontata.

Quella «storica» sarà la vittoria di gennaio, in Emilia Romagna.

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Con il risultato in Argentina ritorna l’ondata progressista in America Latina

Avevano dato per morta l’ondata progressista in America Latina e invece la Spada di Bolivar è più viva che mai. Quello che era esploso in Ecuador e poi in Cile erano solo segnali di un risveglio di massa. Si erano illusi che con Bolsonaro e Macri l’America Latina fosse tornata ad essere il cortile di casa degli Stati Uniti, ma i popoli di quelle terre si stanno riprendendo la loro indipendenza e sovranità”.

La vittoria di Evo Morales in Bolivia è un segnale straordinario. Ha scatenato subito i tentativi di colpo di stato. Non dimentichiamo che l’internazionale nera ha avuto grande ospitalità in Bolivia, dove l’oligarchia è molto potente e c’è una lotta di classe in corso per l’esproprio delle grandi risorse di cui gode quel paese. In Venezuela è il petrolio, in Bolivia è per il litio. Le Guarimbas in Bolivia non sono finite e bisogna rimanere in massima allerta per difendere l’indipendenza e le conquiste sociali di Evo.

In passato abbiamo sempre difeso Cristina Kirchner nonostante le idiozie di certa sinistra italiana. Per il suo appoggio al Venezuela a Cuba alla Bolivia, per le sue ricette politico economiche di nazionalizzazioni contro il Fondo Monetario Internazionale e contro l’imperialismo statunitense, il ritorno del peronismo può dare ulteriore impulso a tutto il continente.

Come membro fondamentale del Mercosur, l’Argentina potrà dare un segnale forte di nuova linfa di integrazione regionale che negli ultimi anni era stata abbattuto dai vassalli degli Usa. Non dimentichiamo che Nestor Kirchner, insieme a Chavez, Lula e Fidel sono stati i primi grandi artefici dell’ondata progressista e socialista che ha tolto dalla povertà milioni e milioni di persone, offrendo al mondo un modello alternativo alle barbarie del neo-liberismo. Per questo l’attacco fatto di colpi di stato e guerre ibride da parte degli Stati Uniti è stato particolarmente feroce in questi anni.

Dopo il fascista e lobbista delle oligarchie Macri, la parola è tornata al popolo argentino. La parola torna a chi aveva già combattuto il FMI e aveva vinto. La battaglia sarà difficilissima, perché lo strozzinaggio del FMI è enorme. Era stato spezzato via dal paese da Nestor, con Macri è rientrato e ha subito portato il paese in una fase di crisi devastante. Ma ora il popolo è tornato a riprendere in mano le sue sorti. Per il futuro dell’Argentina non ci sono alternative alle nazionalizzazioni, alla redistribuzione, alle politiche sociali. Solo un governo progressista può farlo.

Fondamentali si rivelano anche le vittorie progressiste in Colombia contro l’uribismo e tutta l’estrema destra che da anni attraverso l’imperialismo nord-americano ha lavorato per abbattere la sovranità del Venezuela e di Cuba. È un segnale enorme nel paese che è il maggior vassallo dell’imperialismo statunitense e ora avamposto della Nato che lavoro per la destituzione anche armata del legittimo governo di Caracas.

Il Gruppo di Lima, quel Cartello di paesi dell’America Latina che, umiliando il diritto internazionale e la sovranità delle proprie nazioni, ha lavorato per conto degli Stati Uniti e contro il socialismo, sta per essere sepolto e spazzato via dalla storia.

In America Latina è in corso una straordinaria lotta di classe che, quella si, deve essere esportata in tutto il mondo. A partire dalla dormiente Europa. A partire dalla morente Italia in cui il capitale trionfa con la guerra tra poveri costruita ad arte per premiare le finte alternative delle destre.

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