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Uno spettro continua ad aggirarsi per il mondo globalizzato al tempo della crisi permanente? Da Santiago del Cile a Beirut, da Barcellona a Quito, nel giro di poco più di una decina di giorni, ai quattro angoli della terra, centinaia di migliaia di donne e uomini si sono riversati nelle strade con una radicalità straordinaria. Si tratta, certamente, di contesti differenziati, ognuno contrassegnato dalle proprie dinamiche interne, dai soggetti sociali che ne sono espressione, dagli scenari politici entro cui si inseriscono. Eppure, dietro all’epifenomeno di una molteplicità di circostanze specifiche e non reciprocamente riducibili, questa ondata di conflittualità estesa su scala internazionale non può che parlarci del permanere di una frattura negli equilibri sociali complessivi, della mancanza di un piano globale di ristrutturazione capitalistica.
Sono ormai trascorsi più di dieci anni da quando l’esplosione finanziaria della crisi del capitale ha raggiunto la sua fase più acuta, ma le contraddizioni latenti che questo evento ha portato in superficie sono ben lungi dall’essere state riassorbite. Mentre si inasprisce la lotta tra le potenze imperialistiche a scaricare sui propri avversari gli effetti sociali ed economici della stagnazione del tasso di profitto, la narrazione di un consenso plurilaterale a quello che veniva presentato come unico futuro pensabile sembra essere stata messa definitivamente in soffitta. E’ proprio nello spazio lasciato libero da questa voragine nel piano narrativo della globalizzazione neoliberista che si vedono aprirsi spazi d’azione sempre più radicale.
D’altronde, quella della fine della storia è una barzelletta che non prende più sul serio neppure chi l’ha inventata, e gli Stati Uniti, impero globale al cui unipolarismo assertivo questa storiella ha per qualche decennio fatto da paravento, con lo sdoganamento della figura di Trump sembrano essersi definitivamente congedati dall’universalistica retorica dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani. Gli alleati europei, pertanto, tra un imbarazzato silenzio e qualche strillo ipocrita, non hanno altra scelta che contemplare inermi lo spettacolo di una potenza imperiale che cerca di rilanciarsi nella competizione transnazionale sbandierando l’intenzione di stringere le briglie del proprio dominio. Questa volta imposto senza cura per l’egemonia, in particolare nella sua versione soft.
La politica dei dazi ai competitori cinesi e agli avversari russi e iraniani, sfacciata espressione di un’aggressiva strategia di scontro inter-imperiaistico, che prende il sopravvento su considerazioni di ordine economico – senza naturalmente mai del tutto prescinderne – accompagnata dal calcolo ben misurato delle priorità tattico-militari, che nella pratica significano il terribile pegno di sangue che si vorrebbe far pagare alla Siria del Nord in vista di una soddisfacente – per lor signori, si intende – compensazione negli equilibri in Medio Oriente, mostrano tuttavia la stanchezza della prima potenza mondiale, che sembra aver sempre meno capacità di creare consenso attorno al raggiungimento dei propri obiettivi.
Ecco, allora, cosa accomuna una tassa sui servizi VoIp in un paese mediorientale, l’aumento del costo della metropolitana e l’eliminazione dei sussidi per la benzina in due stati del Sud America, e la condanna comminata ai leader indipendentisti di uno dei principali stati dell’Unione Europea. Nel contesto di crescente scoloramento dell’orizzonte ideologico del progetto di mondializzazione capitalistica per come fino a pochi anni fa era propugnato, ogni scintilla può davvero diventare una miccia esplosiva. Fuor di metafora, dopo un decennio di macelleria sociale indiscriminata, le politiche di austerity hanno perduto ogni credibilità. È venuta ormai meno la promessa consumistica delle “meravigliose sorti e progressive” del villaggio globale in crescita permanente; e mentre il mito racchiuso nella famigerata promessa: “arricchirsi è glorioso” si dissolve nel grigiore del realismo capitalista, cultura di élites non più in grado di propagandare un immaginario futuro, ipso facto viene a cadere la struttura argomentativa della retorica del sacrificio.
Il minaccioso monito ad adattarsi, a cedere alle riforme strutturali per non perdere il treno della globalizzazione – come dimostrano le piazze ecuadoregne che rifiutano fermamente i diktat del FMI – sembra avere perso qualsiasi efficacia, ora che quel treno pare essere diretto verso il baratro. Intanto, nelle strade della Catalogna, l’integrità di uno degli stati nazione più antichi del mondo, nel contesto dell’integrazione europea – la quale tende ad autoproclamarsi una specie di necessario e naturale compimento della storia umana – viene profondamente messa in discussione. D’un tratto, insomma, il progressivo incedere – ormai declinante – del tempo storico che sembrava essere stato scritto, si infiamma nel fuoco delle rivolte che divampano per il mondo.
Se a monte, per di più, ad accomunare queste piazze è il crescente sgretolamento dell’ordine ideologico globale, a valle si segnalano altrettanto rilevanti consonanze. Sono piazze che nascono per un motivo specifico, in gran parte apparentemente secondario, che nonostante ciò si contraddistinguono per una radicalità vivacissima. E ancora, sono piazze che sanno vincere ma, allo stesso tempo, sanno imparare dalla vittoria il valore della propria forza, e sanno perciò non accontentarsi del conseguimento – quasi immediato – di una risoluzione positiva della vertenza per cui si erano auto-convocate. Anche i Gilet Jaunes francesi, del resto, hanno anticipato questa tendenza, tornando nelle strade ben oltre il dietrofront di Macron sull’odiosa tassa sui carburanti. Oggi, questa stessa determinazione riappare nelle strade libanesi, ecuadoregne, cilene, dove né i tentativi pacificatori dei governi né la furia repressiva degli eserciti scalfiscono la voglia di cambiamento di cui si fa portavoce la straordinaria varietà umana che affolla le strade.
Con questo, certo, non si vuole lasciarsi inebriare dall’illusione di trovarsi al cospetto di un evento univoco, dimenticandosi il punto da cui eravamo partiti: le specificità, i contesti, i soggetti sociali. Dopotutto, sta proprio qui una delle forze di queste piazze: sono calibrate su chi le ha messe in campo, sono piazze autonome, indipendenti, capaci di esprimere una straordinaria forza proprio nel loro provenire dal basso, nel loro parlare il linguaggio delle composizioni che le animano. Eppure, tenendo fermo il realismo dell’analisi, che non deve pretendere di vedere più collegamenti di quelli che ad ora vi sono, l’immaginazione trasformativa non può che sentirsi chiamata ad elaborare nella direzione di un ampliamento, di un congiungimento, di un’ibridazione degli immaginari delle rivolte che stanno scuotendo il mondo. Bisogna sentirsi chiamati a battere il tempo di Santiago, di Barcellona, di Beirut, di Parigi, di Port-au-Prince. Battere il tempo delle donne e degli uomini del Rojava, che con la propria vita difendono la più grande alternativa al capitalismo globale emersa all’indomani della crisi. Battere il tempo delle rivolte di oggi, per tenersi pronti a farle andare all’unisono con quelle che verranno.
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