di Domenico Moro
La crisi, iniziata con lo scoppio della bolla dei mutui subprime nel
2007 negli Usa e proseguita in Europa come crisi dei debiti sovrani, non
è mai finita. Semplicemente, specie dopo il 2009, l’anno di recessione
mondiale, è stata tenuta sotto controllo: il malato, cioè il sistema di
produzione capitalistico, è stato sostenuto con mezzi artificiali sia in
Europa sia negli Usa. Ma il problema di base, la sovraccumulazione di
capitale, continua a essere presente. In sostanza, è stato accumulato
troppo capitale sotto forma di mezzi di produzione affinché
l’investimento possa risultare sufficientemente profittevole. Da questo
tutta una serie di misure per sostenere le imprese e i profitti.
Sia negli Usa sia in Europa negli ultimi anni le banche centrali
hanno sostenuto il sistema economico pompandovi miliari di dollari e di
euro. Recentemente in una intervista al Sole24ore Massimo Rostagno,
direttore generale della politica monetaria della Bce, ha riconosciuto
che “senza le misure di liquidità della Bce l’eurozona sarebbe già in
recessione”. Rostagno aggiunge che “i tassi Bce rimarranno ai livelli
attuali o anche più bassi dei livelli attuali, finché l’inflazione
prevista non raggiunga livelli sufficientemente vicini anche se
inferiori al 2%” e riconosce che il calo dello spread italiano negli
ultimi tre mesi di 110 punti base dipende “in parte dalla politica
monetaria più espansiva” praticata dalla Bce. Infatti, a settembre la
Bce ha ripreso a iniettare denaro nel sistema economico (Quantitative
easing) e ha tagliato i tassi d’interesse al livello record di -0,5%,
malgrado il voto contrario di sette membri su 25 del board della banca.
Lo stesso presidente della Bce, Mario Draghi, riconosce, in una
intervista al Financial Times, che la situazione è talmente grave che la
politica monetaria espansiva, per quanto importante, non è più
sufficiente: “Ho parlato di una politica fiscale come necessario
complemento di una politica monetaria dal 2014. Ora ne abbiamo più
bisogno di prima. La politica monetaria continuerà a svolgere il suo
compito ma la situazione peggiorerà mano a mano che si andrà avanti. [...]
Abbiamo fatto abbastanza… ma più precisamente che cosa manca? La
risposta è la politica fiscale, che è la differenza tra Europa e Usa.”
Eppure è proprio sulla politica fiscale espansiva, cioè su una
espansione della spesa statale, che continuano a esserci dei dubbi
proprio in Germania.
In effetti, la crisi è riemersa anche nel Paese più forte
economicamente dell’Europa, la Germania, la cui manifattura è in
frenata, e dopo la contrazione del secondo trimestre ci si aspetta una
nuova contrazione nel terzo trimestre, cosa che porterebbe a una
recessione tecnica. Intanto l’indice Pmi manifatturiero tedesco è
crollato a 41,7 punti, al di sotto dei 50 punti, cioè al livello che
indica una contrazione economica del settore. Di fronte a questa
situazione la Confindustria tedesca, attraverso il suo presidente Dieter
Kampf, si è espressa per derogare al principio del pareggio di
bilancio, che impedisce quelle politiche fiscali espansive che
potrebbero ridare fiato a una economia in affanno. Anche l’ex capo della
banca centrale tedesca, Weber, si è espresso a sostegno di Draghi e a
favore di una maggiore spesa. Il governo tedesco, però, non sembra voler
venire incontro agli industriali e al presidente della Bce. Il ministro
dell’economia Peter Altmaier ha rigettato la prospettiva di stimoli. La
Merkel ha assicurato che neanche la manovra pluriennale da 54 miliardi,
ispirata al Green deal europeo per tutelare il clima, metterà
in discussione il pareggio di bilancio. La spesa verde sarà sostenuta
mediante un aumento delle entrate, cioè delle tasse, che si
scaricheranno soprattutto sui settori di classe salariata già indeboliti
dalla crisi. È quanto accaduto in altri paesi, ad esempio nella
Francia, dove le mobilitazioni dei gilet jaunes furono innescate proprio da questo fenomeno. Dall’altro lato, il Green deal
europeo servirà a spostare gli investimenti su settori nuovi dove non
c’è sovraccumulazione, fornendo quindi un aiuto, attraverso lo Stato, al
capitale in difficoltà.
Anche negli Usa la crisi non è stata risolta ma solo controllata, con
mezzi che sono stati già utilizzati nel passato. Prima del 2009 i
mutui cosiddetti sub prime venivano concessi anche a chi non disponesse
di adeguati livelli di reddito. Le stesse persone, però, potevano
utilizzare i mutui stessi come garanzia per permettersi di fare acquisti
di beni industriali, sostenendo così artificialmente la produzione
manifatturiera. Nel 2007 la bolla, formata da questi mutui e
dall’indebitamento colossale delle famiglie, scoppiò, coinvolgendo le
banche, che avevano in pancia tutti questi crediti deteriorati. Oggi,
sta accadendo qualcosa di molto simile. Alcune categorie di prestiti
nate per categorie di clienti con significativi patrimoni liquidi, sono
state estese a chiunque non abbia salari tradizionali né tesori da
parte, dai lavoratori della gig-economy (l’economia dei lavoretti) ai
pensionati. I mutui non prime, concessi cioè senza i requisiti
necessari, sono cresciuti, raggiungendo i 45 miliardi di dollari, il
massimo negli ultimi 10 anni. Questi muti sono stati cartolarizzati,
cioè trasformati in titoli negoziabili, venduti dalle principali banche
come Goldman, JP Morgan, Citigroup e Credit Suisse. Ma i mutui e i loro
derivati non sono gli unici prestiti fragili. Nel complesso le famiglie
statunitensi sono soffocate da una montagna di debiti. Escludendo i
mutui, 10mila miliardi, l’indebitamento è giunto al record di 4mila
miliardi, dovuto ai prestiti contratti per lo studio, la sanità, l’auto.
Inoltre il 74% del credito è stato concesso al 90% meno abbiente. In
sostanza l’economia Usa è sostenuta dal credito da decenni e continua ad
esserlo anche oggi. Il problema è che il livello del debito porta a
bolle speculative che scoppiano in maniera ricorrente con risultati
devastanti.
Lo scoppio delle bolle è, però, sempre legato all’economia reale.
Infatti, l’economia a debito non è in grado alla lunga di risolvere i
problemi che nascono nell’economia reale. A questo proposito, bisogna
rilevare che la crisi si sta ripresentando nella manifattura non solo in
Germania e in Europa ma anche negli Usa. L’indice Ism manifatturiero
degli Usa è crollato a 47,8, segnando la performance peggiore dal giugno
2009, anno di recessione. Le difficoltà economiche sono dimostrate
anche dal calo della borsa di Wall Street, compresi i titoli
tecnologici, spinti al ribasso da grandi imprese come Facebook, Amazon,
Apple, Alphabet-Google, Microsoft. Non è un caso che il presidente della
Banca centrale Usa, la Fed, abbia annunciato che ci sarebbero stati a
ottobre nuovi tagli sul saggio di interesse. I problemi di
indebitamento, in un’economia in rallentamento e forse in recessione,
potrebbero, inoltre, portare seri problemi a istituti finanziari e
bancari sovraesposti, rideterminando una situazione simile a quella del
2007.
Ad ogni modo, quel che appare dimostrato è che l’economia a credito e
la massiccia iniezione di liquidità da parte delle banche centrali non
risolve i problemi di base del capitalismo se non nel breve periodo e
che la crisi è destinata a ripresentarsi. Anzi, proprio la massiccia
iniezione di liquidità e la crescita dell’indebitamento determinano
crisi più ampie e profonde. Oggi, viviamo un periodo di
sovraccumulazione assoluta, cioè di eccesso di investimento, rispetto al
livello di profitto che i grandi investitori si aspettano. Quando ci fu
lo scoppio della bolla sub-prime e poi la recessione del 2009, Larry
Summers, ex segretario al Tesoro con Bill Clinton, riprese il termine di
“stagnazione secolare”, usato già durante la crisi degli anni ’30, per
definire la situazione economica davanti alla quale ci si sarebbe
trovati negli anni a venire. Quella nella quale siamo immersi non è,
quindi, una “normale” crisi ciclica, ma la seconda grave crisi
strutturale del modo di produzione capitalistico, dopo quella degli anni
’30.
La crisi “secolare” ha un riflesso anche sulle politiche economiche.
Essa accentua, come ogni crisi, la concorrenza tra capitali, che in
questo ciclo storico si manifesta con il mercantilismo tedesco e la
risposta americana, basata sull’introduzione dei dazi e di guerre
commerciali, che quindi sono un effetto della crisi e non la causa
scatenante. Anche il piano di investimenti verdi rappresenta per certi
settori di capitale la possibilità di introdurre nuove tecnologie,
grazie alle quali ridare sia fiato a settori dove la sovraccumulazione è
giunta a livelli gravi come l’auto, sia dare luogo a settori industriali
nuovi, dove il livello di accumulazione è più basso e quindi il saggio
di profitto è più alto. La gravità della crisi è talmente chiara che
anche settori importanti del capitale capiscono che c’è bisogno di
cambiare politiche, come nel caso della Confindustria tedesca per
quanto riguarda la necessità di derogare al pareggio di bilancio.
Tuttavia, tutte queste “soluzioni” sono o un aggravante della crisi (i
dazi) o un palliativo (i piani verdi), o si scontrano (il pareggio di
bilancio) con le posizioni ancora troppo forti della concezione
neoliberista o ordoliberista, come vogliamo chiamarla.
L’unica soluzione alla “stagnazione secolare” è mettere fine al
mercato autoregolato, ma è impossibile che il capitale faccia questa
scelta spontaneamente perché la fine del Keynesismo negli anni ’80 è
stata determinata proprio dal ripresentarsi della crisi e quindi dalla
necessità di abbattere tutti i paletti e i limiti esistenti alla
creazione di profitto. Un capitalismo controllato non può esistere a
lungo, a meno che non sia soltanto il prodromo al suo opposto, cioè non
sbocchi nel socialismo. Oggi, dunque, si ripropone, dopo anni di damnatio memoriae,
l’attualità storica del socialismo come superamento della proprietà
privata capitalistica e affermazione della proprietà collettiva dei
mezzi di produzione che permetta l’abolizione della produzione anarchica
e l’affermazione della produzione pianificata sotto il controllo dei
produttori liberamente associati.
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