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17/10/2019

La riemersione della crisi del capitale e l'attualità del socialismo

di Domenico Moro

La crisi, iniziata con lo scoppio della bolla dei mutui subprime nel 2007 negli Usa e proseguita in Europa come crisi dei debiti sovrani, non è mai finita. Semplicemente, specie dopo il 2009, l’anno di recessione mondiale, è stata tenuta sotto controllo: il malato, cioè il sistema di produzione capitalistico, è stato sostenuto con mezzi artificiali sia in Europa sia negli Usa. Ma il problema di base, la sovraccumulazione di capitale, continua a essere presente. In sostanza, è stato accumulato troppo capitale sotto forma di mezzi di produzione affinché l’investimento possa risultare sufficientemente profittevole. Da questo tutta una serie di misure per sostenere le imprese e i profitti.

Sia negli Usa sia in Europa negli ultimi anni le banche centrali hanno sostenuto il sistema economico pompandovi miliari di dollari e di euro. Recentemente in una intervista al Sole24ore Massimo Rostagno, direttore generale della politica monetaria della Bce, ha riconosciuto che “senza le misure di liquidità della Bce l’eurozona sarebbe già in recessione”. Rostagno aggiunge che “i tassi Bce rimarranno ai livelli attuali o anche più bassi dei livelli attuali, finché l’inflazione prevista non raggiunga livelli sufficientemente vicini anche se inferiori al 2%” e riconosce che il calo dello spread italiano negli ultimi tre mesi di 110 punti base dipende “in parte dalla politica monetaria più espansiva” praticata dalla Bce. Infatti, a settembre la Bce ha ripreso a iniettare denaro nel sistema economico (Quantitative easing) e ha tagliato i tassi d’interesse al livello record di -0,5%, malgrado il voto contrario di sette membri su 25 del board della banca.

Lo stesso presidente della Bce, Mario Draghi, riconosce, in una intervista al Financial Times, che la situazione è talmente grave che la politica monetaria espansiva, per quanto importante, non è più sufficiente: “Ho parlato di una politica fiscale come necessario complemento di una politica monetaria dal 2014. Ora ne abbiamo più bisogno di prima. La politica monetaria continuerà a svolgere il suo compito ma la situazione peggiorerà mano a mano che si andrà avanti. [...] Abbiamo fatto abbastanza… ma più precisamente che cosa manca? La risposta è la politica fiscale, che è la differenza tra Europa e Usa.” Eppure è proprio sulla politica fiscale espansiva, cioè su una espansione della spesa statale, che continuano a esserci dei dubbi proprio in Germania.

In effetti, la crisi è riemersa anche nel Paese più forte economicamente dell’Europa, la Germania, la cui manifattura è in frenata, e dopo la contrazione del secondo trimestre ci si aspetta una nuova contrazione nel terzo trimestre, cosa che porterebbe a una recessione tecnica. Intanto l’indice Pmi manifatturiero tedesco è crollato a 41,7 punti, al di sotto dei 50 punti, cioè al livello che indica una contrazione economica del settore. Di fronte a questa situazione la Confindustria tedesca, attraverso il suo presidente Dieter Kampf, si è espressa per derogare al principio del pareggio di bilancio, che impedisce quelle politiche fiscali espansive che potrebbero ridare fiato a una economia in affanno. Anche l’ex capo della banca centrale tedesca, Weber, si è espresso a sostegno di Draghi e a favore di una maggiore spesa. Il governo tedesco, però, non sembra voler venire incontro agli industriali e al presidente della Bce. Il ministro dell’economia Peter Altmaier ha rigettato la prospettiva di stimoli. La Merkel ha assicurato che neanche la manovra pluriennale da 54 miliardi, ispirata al Green deal europeo per tutelare il clima, metterà in discussione il pareggio di bilancio. La spesa verde sarà sostenuta mediante un aumento delle entrate, cioè delle tasse, che si scaricheranno soprattutto sui settori di classe salariata già indeboliti dalla crisi. È quanto accaduto in altri paesi, ad esempio nella Francia, dove le mobilitazioni dei gilet jaunes furono innescate proprio da questo fenomeno. Dall’altro lato, il Green deal europeo servirà a spostare gli investimenti su settori nuovi dove non c’è sovraccumulazione, fornendo quindi un aiuto, attraverso lo Stato, al capitale in difficoltà.

Anche negli Usa la crisi non è stata risolta ma solo controllata, con mezzi che sono stati già utilizzati nel passato. Prima del 2009 i mutui cosiddetti sub prime venivano concessi anche a chi non disponesse di adeguati livelli di reddito. Le stesse persone, però, potevano utilizzare i mutui stessi come garanzia per permettersi di fare acquisti di beni industriali, sostenendo così artificialmente la produzione manifatturiera. Nel 2007 la bolla, formata da questi mutui e dall’indebitamento colossale delle famiglie, scoppiò, coinvolgendo le banche, che avevano in pancia tutti questi crediti deteriorati. Oggi, sta accadendo qualcosa di molto simile. Alcune categorie di prestiti nate per categorie di clienti con significativi patrimoni liquidi, sono state estese a chiunque non abbia salari tradizionali né tesori da parte, dai lavoratori della gig-economy (l’economia dei lavoretti) ai pensionati. I mutui non prime, concessi cioè senza i requisiti necessari, sono cresciuti, raggiungendo i 45 miliardi di dollari, il massimo negli ultimi 10 anni. Questi muti sono stati cartolarizzati, cioè trasformati in titoli negoziabili, venduti dalle principali banche come Goldman, JP Morgan, Citigroup e Credit Suisse. Ma i mutui e i loro derivati non sono gli unici prestiti fragili. Nel complesso le famiglie statunitensi sono soffocate da una montagna di debiti. Escludendo i mutui, 10mila miliardi, l’indebitamento è giunto al record di 4mila miliardi, dovuto ai prestiti contratti per lo studio, la sanità, l’auto. Inoltre il 74% del credito è stato concesso al 90% meno abbiente. In sostanza l’economia Usa è sostenuta dal credito da decenni e continua ad esserlo anche oggi. Il problema è che il livello del debito porta a bolle speculative che scoppiano in maniera ricorrente con risultati devastanti.

Lo scoppio delle bolle è, però, sempre legato all’economia reale. Infatti, l’economia a debito non è in grado alla lunga di risolvere i problemi che nascono nell’economia reale. A questo proposito, bisogna rilevare che la crisi si sta ripresentando nella manifattura non solo in Germania e in Europa ma anche negli Usa. L’indice Ism manifatturiero degli Usa è crollato a 47,8, segnando la performance peggiore dal giugno 2009, anno di recessione. Le difficoltà economiche sono dimostrate anche dal calo della borsa di Wall Street, compresi i titoli tecnologici, spinti al ribasso da grandi imprese come Facebook, Amazon, Apple, Alphabet-Google, Microsoft. Non è un caso che il presidente della Banca centrale Usa, la Fed, abbia annunciato che ci sarebbero stati a ottobre nuovi tagli sul saggio di interesse. I problemi di indebitamento, in un’economia in rallentamento e forse in recessione, potrebbero, inoltre, portare seri problemi a istituti finanziari e bancari sovraesposti, rideterminando una situazione simile a quella del 2007.

Ad ogni modo, quel che appare dimostrato è che l’economia a credito e la massiccia iniezione di liquidità da parte delle banche centrali non risolve i problemi di base del capitalismo se non nel breve periodo e che la crisi è destinata a ripresentarsi. Anzi, proprio la massiccia iniezione di liquidità e la crescita dell’indebitamento determinano crisi più ampie e profonde. Oggi, viviamo un periodo di sovraccumulazione assoluta, cioè di eccesso di investimento, rispetto al livello di profitto che i grandi investitori si aspettano. Quando ci fu lo scoppio della bolla sub-prime e poi la recessione del 2009, Larry Summers, ex segretario al Tesoro con Bill Clinton, riprese il termine di “stagnazione secolare”, usato già durante la crisi degli anni ’30, per definire la situazione economica davanti alla quale ci si sarebbe trovati negli anni a venire. Quella nella quale siamo immersi non è, quindi, una “normale” crisi ciclica, ma la seconda grave crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, dopo quella degli anni ’30.

La crisi “secolare” ha un riflesso anche sulle politiche economiche. Essa accentua, come ogni crisi, la concorrenza tra capitali, che in questo ciclo storico si manifesta con il mercantilismo tedesco e la risposta americana, basata sull’introduzione dei dazi e di guerre commerciali, che quindi sono un effetto della crisi e non la causa scatenante. Anche il piano di investimenti verdi rappresenta per certi settori di capitale la possibilità di introdurre nuove tecnologie, grazie alle quali ridare sia fiato a settori dove la sovraccumulazione è giunta a livelli gravi come l’auto, sia dare luogo a settori industriali nuovi, dove il livello di accumulazione è più basso e quindi il saggio di profitto è più alto. La gravità della crisi è talmente chiara che anche settori importanti del capitale capiscono che c’è bisogno di cambiare politiche, come  nel caso della Confindustria tedesca per quanto riguarda la necessità di derogare al pareggio di bilancio. Tuttavia, tutte queste “soluzioni” sono o un aggravante della crisi (i dazi) o un palliativo (i piani verdi), o si scontrano (il pareggio di bilancio) con le posizioni ancora troppo forti della concezione neoliberista o ordoliberista, come vogliamo chiamarla.

L’unica soluzione alla “stagnazione secolare” è mettere fine al mercato autoregolato, ma è impossibile che il capitale faccia questa scelta spontaneamente perché la fine del Keynesismo negli anni ’80 è stata determinata proprio dal ripresentarsi della crisi e quindi dalla necessità di abbattere tutti i paletti e i limiti esistenti alla creazione di profitto. Un capitalismo controllato non può esistere a lungo, a meno che non sia soltanto il prodromo al suo opposto, cioè non sbocchi nel socialismo. Oggi, dunque, si ripropone, dopo anni di damnatio memoriae, l’attualità storica del socialismo come superamento della proprietà privata capitalistica e affermazione della proprietà collettiva dei mezzi di produzione che permetta l’abolizione della produzione anarchica e l’affermazione della produzione pianificata sotto il controllo dei produttori liberamente associati.

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