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23/10/2019

Roma - Non è mafia ma “normale” criminalità politica e clientelare

La rete criminale autodefinitasi “Mondo di mezzo” non è Mafia Capitale. Così ha deciso la Corte di Cassazione ribaltando il verdetto d’appello e confermando quello del processo di primo grado. La Cassazione ha stabilito che la rete criminale capeggiata dal fascista Massimo Carminati e dal boss delle cooperative sociali a Roma Salvatore Buzzi non è stata un’associazione di stampo mafioso ma un’associazione a delinquere ‘semplice’. Di conseguenza, la pena andrà ricalcolata.

Si andrà dunque ad un nuovo processo d’appello, davanti a una sezione diversa da quella che aveva ipotizzato l’esistenza della mafia a Roma. La sesta sezione penale della Cassazione doveva vagliare la posizione di 32 imputati, di cui 17 condannati dalla Corte d’Appello di Roma, lo scorso anno, a vario titolo per mafia (per associazione a delinquere di stampo mafioso, o con l’aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno). Tra questi, oltre a Carminati e a Buzzi (condannati rispettivamente a 14 anni e 6 mesi e a 18 anni e quattro mesi), anche Luca Gramazio, ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio (8 anni e 8 mesi), e Franco Panzironi, ex ad dell’Ama (8 anni e 4 mesi). Per tutti ci sarà un nuovo processo. Inoltre, per quanto riguarda Buzzi, la Cassazione lo ha assolto da due delle accuse contestategli, di turbativa d’asta e corruzione, mentre per Carminati è caduta anche l’accusa di intestazione fittizia di beni.

In conseguenza della riqualificazione del reato in associazione a delinquere semplice, la Cassazione ha pure annullato alcuni risarcimenti alle parti civili, tra cui alcune associazioni antimafia.

Davanti alla sentenza della Corte d’Appello che sanciva il carattere mafioso della rete criminale che agiva nel malaffare di Roma Capitale, avevamo espresso apertamente le nostre perplessità. Quelle condanne espresse per motivazioni mafiose non ci avevano affatto convinto. Così scrivevamo nel luglio 2017 a proposito della sentenza su Mafia Capitale:
“Le condanne tombali richieste dalla requisitoria dei pm nel processo contro il network di Buzzi, Carminati etc. appaiono per un verso sproporzionate ai reati contestati, per un altro un tentativo di legittimazione sul piano penale di una ipotesi – quella dell’associazione mafiosa – che ha solo scalfito, e molto parzialmente, il sistema politico/criminale che imbriglia la vita economica e sociale della città.

La tesi sostenuta dai pm è che su Roma agiva una organizzazione di stampo mafioso che ha diretto, inquinato, determinato appalti e finanziamenti nell’area grigia del “terzo settore”, quello prosperato con la sistematica de/responsabilizzazione dei soggetti pubblici (Comune, Regione, governo) dalla gestione dei servizi sociali e con lo smantellamento dei sistemi di welfare.

Si è trattato di una associazione mafiosa che, a detta dei magistrati, a Roma però non ha avuto bisogno della coercizione e della violenza caratteristica delle organizzazioni mafiose nel Meridione, perché l’humus su cui agiva (consiglieri comunali, assessori, dirigenti e funzionari) era “bendisposto” ad accettare tutte le proposte che gli venivano fatte, dovendo discutere solo sul “quanto” sarebbe spettato di competenza nella spartizione dei finanziamenti di ogni soggetto del sistema corruttivo. Insomma agitare, e solo agitare, l’intervento dello “spezzapollici” è stato spesso superfluo o più che sufficiente per produrre un sistema integrato che, tramite cooperative sociali, ha gestito i servizi di competenza del Comune di Roma su accoglienza migranti, campi rom, pulizia urbana, “esternalizzati” in nome del risparmio e dei tagli di bilancio”.
La tendenza della magistratura a piegare tutte le fattispecie di reato sul suo livello più grave (mafia o terrorismo, ndr) non fa bene alla verità né alla giustizia, consente solo di avere a disposizione delle indagini più risorse, più uomini, più carcere duro per gli imputati. È un modello emergenziale distorsivo diventato normalità. Ma di notte non è vero che tutte le vacche sono grige e se si mette tutto sullo stesso piano, non è detto che questo faciliti l’individuazione delle responsabilità penali e delle reti criminali per quello che sono realmente.

L’accusa di mafia sostenuta dalla Procura di Roma, ruotava attorno alla costituzione di una “nuova” mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale. Una “collaudata” organizzazione criminale che aveva le caratteristiche tipiche del 416bis: vale a dire, “la forza di intimidazione espressa dal vincolo associativo e la condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva”, scrivevano i giudici d’appello.

Il processo di primo grado su Mafia Capitale si era concluso il 20 luglio 2017 con pesanti condanne. Ma la sentenza aveva escluso l’aggravante mafiosa – cioè l’esistenza di una organizzazione e modalità riconducibili a quelle mafiose – ed aveva invece confermato l’esistenza di una associazione a delinquere con l’obiettivo di estorcere soldi pubblici dal Comune di Roma per la “gestione” di alcune emergenze come quella dei rifiuti, dell’accoglienza degli immigrati o dei campi rom.



Le condanne, anche senza l’aggravante mafiosa, erano state comunque pesanti (tenendo conto che non ci sono stati fatti di sangue). L’ex Nar Massimo Carminati è stato condannato, in primo grado, a 20 anni di reclusione. Il cosiddetto “ras delle coop” Salvatore Buzzi è stato riconosciuto colpevole nell’ambito del processo ed è stato condannato a 19 anni di carcere. 11 anni di carcere per Luca Gramazio, l’ex capogruppo del Pdl in Comune poi passato alla Regione. Per l’ex presidente dell’assemblea Capitolina Mirko Coratti (Pd) la corte ha deciso una pena di 6 anni di reclusione. Luca Odevaine, ex capo di gabinetto di Veltroni e poi collaboratore di Zingaretti, responsabile del tavolo per i migranti, è stato condannato a 6 anni e 6 mesi. Undici anni per il presunto braccio destro di Carminati, Ricardo Brugia, 10 per l’ex Ad di Ama Franco Panzironi, entrambi squadristi fascisti di lungo corso. L’ex presidente del municipio di Ostia, commissariato per infiltrazione mafiose, Andrea Tassone è stato condannato a 5 anni.

Ma la Corte d’Appello aveva rovesciato la sentenza di primo grado accettando invece la tesi dell’organizzazione mafiosa nella gestione del malaffare a Roma. L’11 dicembre 2018 la Corte d’Appello di Roma aveva depositato le motivazioni della pronuncia di secondo grado del processo “Mafia Capitale”.

Pur mantenendo ferma la ricostruzione dei fatti effettuata dalla sentenza di primo grado, i giudici della Corte d’Appello avevano rivisto la precedente sentenza, ravvisando invece gli estremi per la configurazione del reato di associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p.: una categoria che va applicata, secondo il ragionamento della Corte d’appello, anche nei confronti di “una forma di criminalità di nuova derivazione che reinterpreta i tradizionali contenuti del metodo mafioso all’interno di un territorio profondamente frammentato sotto il profilo criminale, e sprovvisto di una presenza mafiosa storicamente riconosciuta”.

Una chiave di lettura, questa di una parte della magistratura, che suscita molti dubbi sull’applicabilità dell’art. 416-bis c.p. alle mafie “non tradizionali” ma anche perché legittima una giurisprudenza che sembra aver ormai stabilmente abbracciato l’impostazione estensiva dell’incriminazione per motivi mafiosi, nel tentativo di allargare le maglie della disposizione normativa di fronte alle evoluzioni della criminalità organizzata con l’espansione nelle città del Nord delle mafie storiche o la nascita di clan criminali su base etnica.

La Corte di Cassazione ha sentenziato che questa chiave di lettura non corrisponde alla realtà, avanzando la tesi che va condannato il “Mondo di mezzo” ma non “Mafia Capitale”, e forse non ha tutti i torti.

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