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31/10/2019

Oltre l’illusione della green economy. Alcune riflessioni

“È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”
(Fredric Jameson)


Prima (ovvia) premessa

Interrogato su quali leggi scientifiche avrebbero superato indenni il test del tempo senza essere rigettate o radicalmente riformulate dalle future generazioni di scienziati, Albert Einstein indicò la prima e la seconda legge della termodinamica. “È la sola teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che nell’ambito di applicabilità dei suoi concetti di base non verrà mai superata.” Semplificando, le due leggi affermano che l’energia totale dell’universo è costante, non può essere né creata né distrutta, ma che essa cambia continuamente forma, anche se in una sola direzione, da disponibile ad indisponibile, e che il “grado di disordine” del sistema, l’entropia, è in continuo aumento. La terra rispetto al sistema solare rappresenta un sistema termodinamicamente chiuso, ciò significa che assorbe energia dal sole, ma non riceve materia dall’universo circostante. Ora, se alle reminiscenze di fisica aggiungiamo frettolosamente anche quelle di chimica, rispolverando la legge di conservazione della massa di Lavoisier, secondo la quale all’interno di un sistema chiuso la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti (nulla si crea, nulla si distrugge...), appare evidente, come vanno ormai sostenendo praticamente tutti, che il pianeta su cui viviamo è “finito”. Intendendo con questo che lo stock di materie prime su cui possiamo e potremo contare è destinato prima o poi ad esaurirsi, ponendoci di fronte ad un problema di scarsità. I combustibili fossili sono da questo punto di vista un caso esemplare, energia che si è incorporata nella materia in larga parta nel Mesozoico (80-110 milioni di anni fa) che si sta esaurendo con grande rapidità e che non riapparirà sulla terrà, almeno non in un orizzonte temporale rilevante per l’umanità. Ma lo stesso ragionamento, come vedremo, può essere tranquillamente esteso anche a diversi minerali che sono alla base di innumerevoli processi industriali, soprattutto quelli in cui vengono impiegate le cosiddette “tecnologie verdi”.

Seconda (ovvia) premessa

Pur avendo noi una certa ritrosia nell’utilizzare Il Capitale come una sorta di Talmud da cui estrapolare citazioni decontestualizzate, ci pare interessante riportare qui una brevissimo passaggio dal capitolo del primo libro in cui Marx affronta il processo di accumulazione fornendone un’immagine immediatamente visualizzabile: “Considerata in concreto, l’accumulazione si risolve in riproduzione del capitale su scala progressiva. Il ciclo della riproduzione semplice si scambia e si trasforma, secondo una espressione di Sismondi, in una spirale.” Per Marx, dunque, la circolazione, l’accumulo di capitale e la continua conversione di plusvalore in capitale aggiuntivo sono alla base dell’incessante espansione e al dinamismo associata alle economie capitaliste e richiedono la costante conversione del pianeta in mezzi di produzione e merci da vendere e consumare. Il capitalismo, qualunque sia la forma d’accumulazione dominante, è una formazione sociale necessariamente articolata intorno alla produzione e al consumo di merci, e guidata dal costante imperativo di espandere l’accumulo di surplus generando ritorni positivi sull’investimento. La formula generale del capitale di Marx (D-M-D’) lo spiega forse nel modo più semplice possibile, e questa insopprimibile propensione del capitale per il profitto si traduce in politiche orientate alla crescita a qualunque costo.

Alcune considerazioni

Queste semplici considerazioni, che abbiamo tirato giù a mo’ di premessa, potranno sembrare a chi legge tanto ovvie da risultare persino banali, eppure è evidente la difficoltà che abbiamo nell’intrecciarle politicamente ogni qual volta approcciamo alla “questione ambientale” o al cambiamento climatico, limitandoci, magari, ad indicare l’esistenza della cosiddetta “seconda contraddizione”, (quella tra Capitale e Natura) e a postulare gli inevitabili “limiti naturali” alla tendenza di crescita del capitale. In assenza di una posizione autonoma ed originale, di classe, capace anche di prefigurare una visione teorica e pratica dei rapporti sociali post-capitalistici che potrebbero rivelarsi adeguati ad un mondo irreversibilmente cambiato, fare le pulci al movimento per la giustizia climatica può risultare così un esercizio ozioso. È facile, infatti, comprendere l’attrattiva che parole d’ordine come “Green New Deal” o “Green Economy” possono esercitare sulla massa di “sinceri ecologisti”. Per chi considera come incontrovertibili gli aspetti essenziali dell’ordine economico dominante quella del keynesismo verde non può che rappresentare la migliore opzione possibile, anzi l’unica. E il capitalismo finisce per essere trattato, più o meno consapevolmente, non più come il problema, ma come la possibile soluzione della crisi ambientale. Occorre dunque trovare il modo per sottrarci a questo abbraccio mortale, consapevoli dello scontro materiale ed ideologico che si sta consumando sulla questione del cambiamento climatico.

Dietro le quinte è in corso uno lotta tra diverse frazioni della borghesia imperialista che vede in palio non solo l’egemonia politica o culturale degli uni o degli altri, ma ha, soprattutto, imponenti risvolti economici. Nel 2015 un rapporto di Citigroup provocò violente reazioni in tutta l’industria energetica e nell’economia globale indicando nella cifra monstre di 100.000 miliardi di dollari il valore degli stranded assets costituiti da combustibili fossili, nel caso che dal summit di Parigi sul clima fosse uscito un impegno vincolante a limitare il riscaldamento globale a 2 gradi centigradi. Gli stranded assets, per chiarezza, sono quei beni che subiscono delle svalutazioni improvvise o anticipate rispetto al loro prevedibile ciclo di vita e che passano repentinamente dalla colonna degli attivi a quella delle passività. Nella storia dell’economia sconvolgimenti di questo tipo sono perlopiù associati ai grandi cambiamenti di paradigma nella tecnologia delle telecomunicazioni, dell’energia o dei trasporti. Il passaggio dall’epoca della seconda rivoluzione industriale a quella della terza rivoluzione industriale sarebbe infatti associato, almeno secondo i suoi cantori, ad una transizione energetica e digitale che ci traghetterebbe in una nuova era di energia pulita e sobrietà ecologica. Una cornucopia tecnologica, anzi green tech, basata su un piano di disinvestimenti/reinvestimenti senza precedenti nella storia dell’umanità. La specie umana è una specie narrante, vive delle sue narrazioni, ma alcune volte queste narrazioni, per quanto suggestive, sono costrette a fare i conti con la realtà.

La sovrapposizione dell’affermazione del capitalismo globale con la trasformazione dell’atmosfera nel nostro pianeta non è affatto casuale (leggi). Qualcuno ha efficacemente indicato la crisi del 2008 come il “picco della globalizzazione” prendendo a prestito, senza sbagliare, il concetto con cui i geologi definiscono il momento in cui la produzione petrolifera globale raggiungerà l’apice della cosiddetta curva di Hubbert, il “picco della produzione petrolifera globale” per l’appunto, ovvero il punto medio della possibilità di estrazione del petrolio oltre il quale la produzione è destinata a decrescere con la stessa velocità con cui era cresciuta. In seguito al caos finanziario innescato dallo scoppio della bolla dei mutui subprime, il Green New Deal si è imposto come una delle strade percorribili per reagire alla crisi, ed è entrato a far parte delle agende politiche dei partiti progressisti e delle socialdemocrazie occidentali. Il keynesismo verde si basava (e si basa) sull’idea di uno stato interventista, che in qualche modo riproponesse alcune formule del passato riorientate, però, a livello ambientale. E che, attraverso una serie di strumenti di politica economica (soprattutto fiscale, a differenza del primo keynesismo), coordinasse l’intervento pubblico diretto nel campo della transizione energetica, ad esempio, o del trasporto pubblico, o dell’efficientamento energetico del patrimonio edilizio, fino alla riorganizzazione dell’intero complesso infrastrutturale in maniera che potesse svilupparsi in assoluta armonia con le esigenze della cosiddetta terza rivoluzione industriale.

Nonostante questa sua apparente “ragionevolezza”, però, e fatta eccezione per qualche timida misura di facciata, l’agenda verde del keynesismo non è stata adottata in nessun paese. Questo sostanziale fallimento, nonostante la parola d’ordine del green new deal globale riappaia ciclicamente nel dibattito pubblico, è dovuto alle basi materiali su cui poggia la nuova fase imperialista, prima ancora che sull’innegabile offensiva ideologica dei negazionisti climatici. Non basta infatti appellarsi all’influenza nefasta delle “multinazionali fossili” o alla pavidità della classe politica per spiegare perché fino ad oggi nessuna delle sue ricette sia stata realizzata, né in termini di riduzione delle emissioni e protezione ambientale, né tantomeno in termini di un miglioramento dei livelli di occupazione e investimento. Ci sono però differenze chiave rispetto ai “magnifici trenta” di cui non possiamo non tener conto. La prima è che le politiche keynesiane si basano essenzialmente sulla capacità dello Stato di manipolare i flussi di beni, servizi, lavoro e capitale. Una possibilità che è stata fortemente minata dalla ridefinizione su scala globale delle catene del valore e che è inconciliabile con la dimensione per definizione sovranazionale del fenomeno del riscaldamento climatico. La seconda è il passaggio irreversibile ad un modello di accumulazione caratterizzato dalla produzione strutturale di capitale fittizio e da flussi finanziari internazionali, speculativi e non regolati, assolutamente scollegati da quelli che un tempo erano considerati gli indicatori del benessere nazionale: i livelli di reddito e di occupazione. Un keynesismo transnazionale potrebbe basarsi unicamente sul consolidamento di una variazione transnazionale del concetto di sovranità, una sorta di governo mondiale che ci sembra molto al di la da venire, nonché men che meno auspicabile. Il keynesismo verde è dunque una contraddizione a livello economico e politico, una contraddizione che rischia, però, di avere pesanti conseguenze, soprattutto per la sua immutata capacità di catturare consensi.

Sottrarsi alle sirene del “capitalismo progressista” non può significare, però, cadere, anche involontariamente, nel campo di quello reazionario. Il negazionismo climatico, per quanto folle sia nei contenuti, non è né una mera ideologia né un insieme di chiacchiere senza senso, bensì una forza materiale nella storia naturale di questo pianeta che produce danni irreparabili. Indubbiamente la sua leadership (e i suoi finanziamenti) provengono da quella frazione della classe capitalista legata ai combustibili fossili, che influisce in modo pesante a livello ideologico, ma che è anche troppo ridotta per poter esercitare un’influenza in società formalmente democratiche. Le élite che sostengono il negazionismo climatico hanno bisogno di alleati all’interno dei gruppi sociali subalterni e, nei principali paesi capitalisti, in particolare dove il settore dell’energia fossile è esteso, li hanno trovati tra quei segmenti del proletariato che percepiscono le politiche contro il cambiamento climatico come una minaccia per il loro lavoro e il loro stile di vita. Il consenso ottenuto da Trump in larghi settori della classe operaia bianca nella rust belt può essere letto anche in quest’ottica. Sembra così riprodursi anche sulla questione climatica, mutatis mutandis, quello scontro tra élite cosmopolite e populismo reazionario che rimane tutto interno alla borghesia e che ci vede politicamente tagliati fuori.

Prima di concludere queste semplici considerazioni vale la pena aggiungere alcune cose sulle presunte proprietà taumaturgiche delle cosiddette green tech, a cui in molti sembrano guardare con grandi speranze. Quasi a voler far intendere che se è la tecnologia che ci ha condotti in questa situazione, sarà comunque la tecnologia a tirarcene fuori, dimenticando così che il problema del riscaldamento climatico è un problema eminentemente politico. Sappiamo che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è aumentata da circa 270 ppm (parti per milione) dell’era preindustriale agli attuali valori che si avvicinano alle 400 ppm. Sappiamo anche che nei suoi scenari più foschi l’International Panel on Climate Change (IPCC) prefigura la possibilità che si arrivi alle 1000 ppm entro la fine del XXI secolo, con un aumento della temperatura media di 5-6°C. Altri studi meno allarmisti, considerando anche il graduale esaurimento dei combustibili fossili, indicano come prospettiva, comunque sempre troppo alta, quella delle 500/600 ppm. L’effetto più devastante di un aumento della temperatura media globale è quello che si produce sul ciclo dell’acqua. Ogni aumento di temperatura di 1°C porta ad un aumento della capacità dell’atmosfera di trattenere l’acqua in forma gassosa del 7%. Questo provoca radicali cambiamenti nella distribuzione dell’acqua, con un incremento dell’intensità delle precipitazioni, ma una riduzione della loro durata e frequenza. Fenomeni che hanno enormi ricadute geopolitiche, come si è visto recentemente in Siria, dove una siccità prolungata ha spinto più di un milione di contadini impoveriti a spostarsi nei centri urbani. Un esodo che sta alla base della guerra civile e dell’aggressione imperialista che dal 2011 ha martoriato quel paese. Oggi il 7% della popolazione mondiale è responsabile della metà delle emissioni di carbonio a livello globale, mentre metà del pianeta è responsabile del 7% delle emissioni. Questa scandalosa proporzione viene aggravata dal paradosso che nelle nazioni più ricche (e inquinanti), come gli Stati Uniti, il Canada o l’Unione Europea, vivono pochissime persone che rischiano davvero di essere colpite dagli effetti negativi del cambiamento climatico, mentre in Africa e in Asia i profughi climatici sono già decine di milioni. Una disuguaglianza ambientale che fa il paio con lo sfruttamento imperialista.

La risposta a tutto questo, come dicevamo, sembrerebbe essere la “semplice” transizione energetica a quelle fonti di energia rinnovabili in cui anche molti sinceri ecologisti ripongono aspettative quasi magiche. C’è un aspetto, però, di questa transizione che viene edulcorato o, molto più semplicemente, non ci viene raccontato.

1) Le energie pulite implicano il ricorso a minerali “sporchi” il cui sfruttamento è tutto tranne che green. L’estrazione dei metalli rari, indispensabili per tutte le nuove tecnologie, è un processo altamente inquinante che spesso viene portato avanti in condizioni di lavoro medievali. Nella Repubblica Democratica del Congo, tanto per fare un esempio, dove viene prodotto la metà del cobalto utilizzato nel mondo, centomila minatori sono quotidianamente esposti a livello di inquinamento senza precedenti. E lo stesso vale per le miniere di cromo in Kazakistan, per quelle di litio in America Latina o per quelle di terre rare in Cina. Secondo un recente rapporto del Blacksmith Institute, l’industria mineraria è la seconda più inquinante al mondo.

2) Le energie stesse che chiamiamo generalmente “rinnovabili” si basano sull’uso intensivo di materie prime che rinnovabili non sono. In occasione del simposio organizzato a Le Bourget nel 2015, a margine delle negoziazioni di Parigi sul clima, un gruppo di esperti ha pronosticato che da qui al 2040 dovremo estrarre tre volte più terre rare, cinque volte più tellurio, dodici volte più cobalto e sedici volte più litio di oggi per sostenere il nostro stile di vita high tech. Un pianeta abitato da 7,5 miliardi di persone consumerà, nei prossimi tre decenni, più metalli delle cinquecento generazioni che ci hanno preceduto. La quantità dei depositi di minerale nella crosta terrestre è spesso descritta come inversamente proporzionale alla concentrazione. Questo andamento viene detto “legge di Lasky”. Questo significa che depositi a bassa concentrazione sono più comuni di quelli ad alta concentrazione e contengono una quantità di materiali più grande. L’esaurimento progressivo dei minerali ad alta concentrazione forza inevitabilmente l’industria mineraria a spostarsi verso minerali a concentrazioni più basse, ma la quantità di energia necessaria per estrarre qualcosa cresce più rapidamente della semplice proporzionalità. Questo problema diventa particolarmente evidente quando parliamo di minerali che vengono utilizzati per produrre energia: i combustibili fossili e quelli nucleari. C’è un limite evidente che è dato da quel livello per il quale l’energia che possiamo ottenere dal minerale estratto non compensa quella spesa per estrarlo. Questo indice si chiama “resa energetica” o EROEI dall’acronimo di Energy Return for Energy Invested. Detta in altro modo il rapporto tra l’energia ottenuta e quella spesa nel processo di estrazione e consumo, EROEI, deve essere maggiore di 1 affinché l’investimento renda un profitto. Il graduale esaurimento delle risorse porta inesorabilmente a una diminuzione di EROEI, quindi il problema non è se questo accadrà, ma quando.

3) Queste energie chiamate anche verdi o “decarbonizzate” poiché ci consentono di fare a meno dei combustibili fossili, si basano su attività che comunque generano gas serra. Ad esempio, la sola produzione di un pannello solare, tenuto conto del silicio che contiene, genera più di 70Kg di CO2. Con un numero di pannelli solari che da qui in avanti aumenterà del 23% su base annua, significa che le istallazioni solari fotovoltaiche produrranno 10 gigawatt di elettricità supplementare ogni anno, rigettando nell’atmosfera terrestre 2,7 miliardi di tonnellate di carbonio, ovvero l’equivalente dell’inquinamento generato in un anno dall’attività di 600.000 automobili. La moderna industria mineraria tratta enormi volumi di roccia. Si stima che circa il 10% dell’energia primaria generata oggi venga usata da questa industria, in gran parte in forma di combustibili.

Ancora una volta, e per essere chiari: il passaggio dalle fonti energetiche fossili a quelle rinnovabili è necessario e auspicabile, ma la domanda corretta che dovremmo porci è quale tipo di società possiamo immaginare utilizzando le energie rinnovabili come sorgente principale di energia. Il rischio, altrimenti, è che la transizione energetica (e digitale) sia una transizione per le classi più agiate e una delocalizzazione, di fatto, dell’inquinamento. Per dirla con le parole di Mike Davis: “L’obiettivo sarebbe la creazione di oasi di opulenza permanentemente verdi e recintate su una pianeta altrimenti derelitto. Naturalmente, continuerebbero ad esserci accordi, crediti di emissione, lotta alle carestie, acrobazie umanitarie e forse la conversione totale di alcune piccole nazioni e alcune città europee alle energie alternative. Ma l’adattamento globale al cambiamento climatico, che presuppone migliaia di miliardi di dollari di investimenti nelle infrastrutture urbane e rurali dei paesi a basso e medio reddito, così come la migrazione assistita di milioni di persone dall’Africa e dall’Asia, imporrebbe necessariamente una rivoluzione di proporzioni quasi mitologiche nella redistribuzione di reddito e potere.”

Fonte

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