Crescendo, si matura, si diventa adulti.
Certe avventatezze di gioventù lasciano, volenti o nolenti, il posto a
nuove consapevolezze, e si ripensa agli eccessi ideali di un tempo con
un misto di nostalgia e rimorso. Qualcosa di simile deve essere
certamente successo, da qualche mese a questa parte, alla dirigenza
della Lega. Ce li ricordiamo tutti, nei gloriosi giorni dell’autunno
2018, promettere fuoco e fiamme contro l’austerità di matrice europea.
Erano le settimane, ci dicevano la stampa e i bene informati, di scontro
frontale con le istituzioni europee. Si metteva a punto la prima
Finanziaria del Governo gialloverde e spezzare le reni a Bruxelles
pareva dietro l’angolo. Salvini ripeteva tronfio, a reti unificate, che
nel suo cuore c’era spazio solamente per i 60 milioni di italiani. E se
questo avesse significato arrivare allo scontro frontale con la
Commissione Europea, beh, Salvini si diceva pronto, petto in fuori e
ciglio asciutto. Estirpare la disoccupazione, aumentare il potere
d’acquisto, rilanciare l’economia patria: questa era l’agenda. E se
qualcuno avesse mai sollevato dubbi su come poter raggiungere questi
obiettivi all’interno dei vincoli di bilancio che la costruzione europea impone agli Stati,
o su come conciliare gli stimoli all’economia promessi da Salvini con
il rispetto del Patto di Stabilità e Crescita, Salvini aveva la risposta
pronta: tra il rispetto dei vincoli europei e il benessere dei suoi tanti figli,
non avrebbe esitato neanche per un secondo. Non avrebbe permesso a
numerini e virgole di impedirgli di attuare una rivoluzione copernicana
in politica economica, e i burocrati se ne sarebbero dovuti fare una
ragione. Era finita l’epoca dei vecchi Governi che, con il cappello in
mano, provavano a elemosinare briciole di flessibilità per poi
capitolare al primo colpo di tosse dello Schäuble di turno.
Certo, la storia poi si era permessa, come accade spesso,
di raccontare un’altra versione dei fatti. Ironia della sorte, è
bastato proprio uno di quei colpi di tosse dell’eurocrate di turno, un
balzettino di spread, uno schiaffetto sulle mani ricevuto dalla Commissione Europea, per tramutare prontamente il leone Salvini in un docile agnellino. Al termine di un pietoso balletto giocatosi attorno a quei numeretti e decimali che sembrava non dovessero fare neanche il solletico a Salvini, la montagna aveva partorito il topolino: l’ennesima manovra nel segno dell’austerità più feroce,
scritta tenendo in considerazione anche l’ultima virgola, l’ultimo
ghiribizzo imposto dalle istituzioni comunitarie. Ma sarebbe arrivato il
tempo del riscatto, come garantivano gli economisti Borghi e Bagnai
assieme ad altre macchiette di complemento. Si trattava solamente di un arretramento tattico,
fatto per colpire ancora più forte alla prima occasione, non appena la
Lega avesse avuto mani libere di interpretare a fondo e coerentemente la
volontà popolare di riscatto.
Erano tempi gloriosi,
dicevamo. La gioventù, i sogni dei vent’anni. Poi però arriva la
realtà, a bussare alle porte. Salvini, nella calura agostana, fa il passo più lungo della gamba
e si trova, da un momento all’altro, confinato nell’irrilevanza
politica. Senza più la tribuna del Viminale dalla quale alzare
un’immonda canea contro sfruttati e dannati della terra, l’immagine del
Capitano inizia ad appannarsi. Ed ecco che, come per magia, arriva la
maturità, l’età della responsabilità. Padroni e padroncini del nord
Italia, che incidentalmente sono anche i padroni e i padroncini di
Salvini e della Lega, tirano le orecchie al discolo irresponsabile e
richiamano all’ordine: basta con la ridicola pantomima di abbaiare alla Luna, basta con questa fasulla contrapposizione alle istituzioni
europee! Occorre che la Lega torni ad interpretare il ruolo di guardiano
dei conti anche pubblicamente, alla luce del sole. Non è più
sufficiente farlo in silenzio, nelle stanze del palazzo, mentre si finge
di fare la guerra a Bruxelles. Occorre farlo pubblicamente, così che i
padroni, che sguazzano nella disciplina imposta ai lavoratori
dall’austerità, non corrano nemmeno il rischio di spaventarsi quando
Salvini fintamente sbraita contro l’Europa.
Arriviamo così ai giorni odierni. Un ‘nuovo’ Governo raccoglie il testimone dal ‘vecchio’ e, alla prova del primo pronunciamento in tema di politica economica, si affretta a chiarire la sua agenda: una gestione ordinata e remissiva dell’esistente nel solco dell’austerità.
Ma il tempo non deve essere passato invano, per quelli che furono
baldanzosi leghisti. L’aria deve essere cambiata e strepitare (a parole)
contro l’Europa, contro quella morsa che costringe l’Italia a
disoccupazione e precarietà, non è più una priorità. Ecco così che
arriva Riccardo Molinari, capogruppo leghista alla Camera, a criticare
l’atroce prima manovra del Conte Bis esattamente per le ragioni opposte a
quelle per cui andrebbe criticata. Il problema non sono le risorse
drenate, per l’ennesima volta, all’economia italiana tramite un avanzo primario di bilancio. No, al contrario, il problema è che “il deficit sale, il debito pure e le misure per la crescita non si vedono”, come neanche una Emma Bonino qualsiasi
direbbe. A ruota, seguono le dichiarazioni di Massimo Garavaglia, già
viceministro all’Economia del Conte I, il quale ci spiega dove si annida
il problema: si tratterebbe di “una manovrina tutta in deficit”.
Ad una considerazione superficiale, sembra di assistere a un ridicolo e
pietoso gioco delle parti. Probabilmente in maniera inconsapevole,
Molinari e Garavaglia usano esattamente le stesse parole, gli stessi vuoti argomenti con cui il Partito Democratico (e compagnia cantante)
avevano stigmatizzato la politica fiscale del governo giallo-verde.
Andando leggermente più a fondo, però, è facile rendersi conto di come
non ci sia in realtà nulla di strano, nulla di cui stupirsi. Dopo una
breve parentesi nella quale la Lega si è – con successo – intestata la
bandiera della lotta contro la gabbia dell’austerità di matrice europea, si torna prontamente all’ovile. Questo permette anche di fare, una volta per tutte, chiarezza su quanto fosse completamente simulata e farlocca la volontà di rottura che la Lega sbandierava nell’autunno-inverno
2018. Come abbiamo scritto e riscritto, la Lega si trova benissimo a
sguazzare nella melma dei vincoli di bilancio europei. Il lavoro sporco,
cioè spezzare la schiena al mondo del lavoro e obbligarlo ad accettare
salari da fame sotto la minaccia di una disoccupazione a due cifre,
viene delegato a istituzioni lontane quali la Commissione Europea e la
Banca Centrale, che agiscono impunite senza alcun controllo democratico.
Il blocco sociale storico di riferimento della Lega prospera, o pensa
di prosperare, spremendo fino all’ultima goccia chi lavora e produce la ricchezza che si intasca. Al contempo, nel vuoto politico lasciato da un presunto
centro-sinistra più realista del re nel difendere rigore e disciplina di
bilancio, c’è anche un nemico da additare e contro il quale fintamente
agitarsi, per una o due campagne elettorali condotte come sciacalli
senza vergogna. I famosi due piccioni con una fava, fino a che giunge il
momento della responsabilità e il giro può iniziare un’altra volta da
capo.
Salvini e il suo codazzo urlante saranno di nuovo
a Roma, questo sabato. I cani da guardia dell’austerità, al grido di
legge e ordine, proveranno ancora una volta a vomitare il loro carico di
odio in una città su cui, fino a ieri, sputavano fango al grido di Roma ladrona, la Lega non perdona. In contemporanea, sabato 19 dalle ore 15, in Piazza dell’Esquilino,
scenderanno in piazza anche tutte quelle realtà impegnate da mesi a
garantire che razzismo istituzionale e guerra tra poveri non passeranno,
per ricordare e gridare che Salvini è solamente l’ultimo
piccolo esemplare di una lunga stirpe di portavoce e portaborse degli
interessi dei pochi sulle spalle dei molti. Ci vediamo in piazza.
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