In questi giorni abbiamo assistito a forti insurrezioni popolari in Ecuador.
Per comprendere meglio il quadro politico, occorre fare un piccolo
passo indietro nel tempo, partendo da una figura centrale per quel
Paese, l’ex presidente Rafael Correa.
Nel suo primo mandato, Rafael Correa fece
riscrivere, attraverso la convocazione di un’assemblea costituente, la
Costituzione del paese per poter aumentare il controllo pubblico
sull’economia. In questo modo, durante la sua presidenza (2007-2017),
l’Ecuador sperimentò una fase storica e politica estremamente favorevole
per le classi più povere. Per dare una misura dei traguardi raggiunti,
tra il 2008 e il 2016, il governo ha aumentato di cinque volte la spesa
sanitaria media annua rispetto al periodo 2000-2008. Sono stati
costruiti nuovi ospedali pubblici, il numero di dipendenti pubblici è
aumentato significativamente così come gli stipendi. Nel 2008,
il governo ha introdotto una copertura previdenziale universale e
obbligatoria. Per quanto riguarda i risultati economici, il livello di
povertà nel 2007 in termini di reddito è stato del 36,7% e nel 2015 era
sceso al 23,3%, indicando che più di un milione di ecuadoriani si sono affrancati dalla soglia di povertà; per ciò che concerne l’indicatore della
povertà estrema, l’Ecuador ha registrato una diminuzione di otto punti
percentuali rispetto al 2007, attestandosi nel 2015 all’8,5%, secondo
l’Istituto Nazionale di Statistica e Censimenti nella sua indagine
nazionale del 2015. Tra il 2007 e il 2013, il paese sudamericano ha
abbassato il suo coefficiente Gini (un indice che misura la
disuguaglianza dei redditi) di 6 punti (da 0,55 a 0,49), mentre nello
stesso periodo l’America Latina l’ha ridotto di soli due punti (da 0,52 a
0,50). Secondo la relazione presentata dalla Commissione economica per
l’America Latina e i Caraibi (ECLAC) nel dicembre 2015, il PIL è
cresciuto in media del 3,9% tra il 2007 e il 2015, rispetto al 2,9% in
America Latina.
Tutto questo ci serve per capire come
Rafael Correa goda di enorme gradimento tra la gente. Al termine del suo
mandato, fu Correa lo stesso a proporre e sostenere come proprio successore
Lenin (come sa essere beffardo il destino alle volte!) Moreno.
Quest’ultimo ha poi vinto le elezioni promettendo la continuità del
processo politico da tempo avviato. La sua linea, tuttavia, si è
dimostrata fin da subito impopolare e contraria a quella del suo
predecessore avviando un proficuo dialogo con la destra liberale. I
risultati della sua scellerata agenda parlano chiaro: forte
riduzione della spesa pubblica, liberalizzazione del commercio,
avviamento di un processo di privatizzazioni, riduzione delle aliquote
fiscali per le grandi imprese e flessibilità del lavoro. Questo
quadro rappresenta chiaramente una politica di austerità, ribaltando
completamente le politiche di sviluppo e ridistribuzione del precedente
mandato.
Un disastro, nonché un massacro annunciato per le classi più povere dell’Ecuador.
In questo clima infuocato, sarebbe bastata la famosa ultima goccia per
far traboccare il vaso. E, puntualmente, è arrivato un temporale.
Due settimane fa, dopo la firma del
decreto 883 che ha eliminato, tra le altre cose, il sussidio per il
carburante, sono state scatenate proteste sociali in tutto il paese. Per
essere chiari, tale sussidio rappresenta la possibilità materiale per
le classi più povere di comprare il carburante. Ma non finisce qui. La
serie di misure adottate dal governo ha incluso una riduzione delle
retribuzioni fino al 20% dei contratti a tempo determinato del settore
pubblico, la riduzione delle ferie da 30 a 15 giorni per i dipendenti
pubblici e la sottrazione di un giorno di stipendio al mese da devolvere
al governo. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Richard
Martínez, ha dichiarato che questi aggiustamenti rispondono all’accordo
raggiunto a febbraio dal governo con il Fondo Monetario Internazionale
(toh eccolo di nuovo!), grazie al quale il paese ha ottenuto l’accesso a
crediti per 4,209 miliardi di dollari in tre anni, di cui 900 milioni di
dollari sono già stati consegnati. La ricetta del FMI per il
“risanamento” delle finanze di un paese è sempre la stessa: in cambio di
una concessione di prestiti (o investimenti), si impone al governo di
turno un’agenda politica caratterizzata da una deregolamentazione del
lavoro, privatizzazioni selvagge, riduzione dei sussidi e aumenti delle
imposte indirette.
Eppure, gli scempi del Fondo Monetario
Internazionale sono ancora sotto gli occhi di tutti per quanto accaduto
alla più vicina Grecia. Nel 2009, di fronte ad una crisi economica senza
precedenti intervenne la cosiddetta Troika in suo “soccorso”:
Commissione europea, Banca centrale e proprio l’ineffabile FMI. Un
intervento accuratamente subordinato alla sottoscrizione di un
Memorandum, un documento in cui il governo greco si impegnava ad
implementare una serie di dettagliatissime misure di politica economica:
dai tagli alla spesa pubblica agli aumenti delle tasse e all’abolizione
delle tutele dei lavoratori. L’effetto di queste misure, come noto, è
stato devastante dal punto di vista sia economico che sociale.
Insomma, la ricetta-ricatto del
Fondo Monetario Internazionale (FMI) è una vera e propria macelleria
sociale, un banchetto al quale partecipano i falchi (dell’austerità) e
gli avvoltoi (capitalisti). Ma, purtroppo, nulla di nuovo sotto al sole.
Eppure, la situazione in Ecuador è molto
diversa da quella in cui si trovava la Grecia nel 2009. L’Ecuador non ha
i sintomi di un’economia in procinto di default pubblico o, più in
generale, di crisi imminente. L’economia è caratterizzata da una bassa
inflazione e una disoccupazione relativamente contenuta. Né sembrano
esserci problemi di bilancia dei pagamenti, come vedremo tra poco.
Tuttavia, alcuni mesi fa il governo ha deciso di avviare un accordo con
il Fondo monetario internazionale. Perché? Vediamo le possibili ragioni.
L’Ecuador è un’economia dollarizzata dal 2000, anno in cui è stato sostituito il sucre ecuadoriano
con il dollaro statunitense. La dollarizzazione altro non è che un
sistema monetario nel quale i residenti di un dato Paese utilizzano
strumenti monetari e finanziari denominati nella valuta di un altro
Paese (in questo caso il dollaro statunitense). La dollarizzazione può
avvenire in modo ufficiale o di fatto. Nel primo caso, una valuta
straniera ha corso legale in un Paese dove la banca centrale non esiste
oppure ha un ruolo molto limitato, e questo è proprio il caso
dell’Ecuador. La presenza di un tasso di cambio fisso e la mancanza di
una politica monetaria completamente indipendente fanno perdere un
importante meccanismo di aggiustamento nel caso in cui un paese dollarizzato
sia in condizioni economiche molto diverse rispetto al paese della
valuta di riferimento. In particolare, non è possibile per questo paese
svalutare la propria valuta e recuperare in questa maniera competitività
internazionale.
Per un’economia dollarizzata,
solitamente, l’instabilità economica deriva da una crisi della bilancia
dei pagamenti, che al momento non sembra essere il problema
dell’Ecuador. Ora cercheremo di spiegare perché.
A tal proposito dobbiamo entrare nel
dettaglio della bilancia dei pagamenti. Questa è formata da due voci: le
partite correnti, principalmente rappresentata dal saldo netto delle
esportazioni (ossia il valore delle esportazioni meno il valore delle
importazioni) e il conto finanziario. La somma di questi due capitoli
fornisce il saldo della bilancia dei pagamenti. Dal 2010 l’Ecuador
presenta un persistente deficit commerciale, dunque una
passività delle partite correnti, compensato da un attivo del conto
finanziario grazie agli investimenti diretti esteri (acquisto di
attività da parte di investitori privati stranieri), ai flussi
finanziari a breve termine (acquisto di titoli privati con scadenza
ravvicinata) e ai prestiti al governo.
In un contesto caratterizzato da un deficit commerciale strutturale, l’Ecuador
ha continua necessità di flussi finanziari a breve termine in entrata
per garantire l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Un
Paese può attrarre capitali esteri semplicemente alzando il tasso di
interesse interno, che è la remunerazione del capitale; l’Ecuador, però,
stretto tra la necessità di evitare tassi troppo elevati sul debito
estero privato ed il peggioramento della bilancia dei pagamenti indotto
dalla forte contrazione del prezzo del greggio (-20% tra settembre 2018 e
gennaio 2019), ha deciso di arginare gli squilibri commerciali
attraverso un prestito concordato con il Fondo Monetario Internazionale,
che avrebbe concesso al Paese 6 miliardi di dollari per tre anni.
I prestiti del Fondo Monetario sono però
sempre condizionati all’attuazione di politiche economiche liberiste: se
vuoi i loro soldi, devi accettare il loro modello di sviluppo, che è
quello della globalizzazione e della deregolamentazione selvaggia. Così,
nel marzo 2019, il Fondo Monetario osserva che i salari sono cresciuti
in Ecuador al di sopra della produttività nell’ultimo decennio (governo
Correa), e che questa dinamica avrebbero compromesso la “competitività”
del Paese, lasciando il tasso di cambio reale “sopravvalutato”. Il
problema della competitività può essere risolto facendo leva sul tasso
di cambio, ma questo richiederebbe l’abbandono della dollarizzazione;
piuttosto, il FMI traccia un’altra strada per l’Ecuador, quella della
deflazione interna, ossia la compressione dei salari. Eppure,
soprattutto per un paese in via di sviluppo come l’Ecuador, la via
maestra sarebbe quella di potenziare la capacità produttiva interna, in
modo tale da costruire un’indipendenza economica dalle merci estere e
limitare le importazioni. Al contrario, per l’Ecuador la soluzione
peggiore è proprio quella di aprirsi al mercato internazionale,
accettando l’ancoraggio al dollaro, perché ciò non risolve il problema
strutturale del deficit commerciale ma lo perpetua, lasciando il Paese
alle dipendenze dei capitali stranieri.
Una via alternativa a quella indicata dal
FMI richiederebbe un massiccio intervento pubblico nell’economia, e
questo era la strada tracciata giustamente dal presidente Correa. Ma un’economia con una forte presenza pubblica lascia poco spazio al profitto privato,
ed è dunque una minaccia per gli interessi che il Fondo Monetario
difende con i suoi dollari. Diventa dunque una condizione fondamentale
per il FMI imporre un regime di austerità fiscale, affinché il governo
rinunci ad un ruolo rilevante nell’economia, lasciando spazio e settori
economici alla sete di profitto dei capitalisti. Tuttavia, affinché
questi possano ottenere un (mai abbastanza soddisfacente, per loro)
profitto bisogna creare un divario tra il prezzo delle merci e il costo
del lavoro necessario a produrle. Ora è più facile comprendere come la
ricetta del Fondo Monetario chiuda perfettamente il cerchio, attraverso
l’imposizione di una deregolamentazione del lavoro e una forte riduzione
dei salari.
Perseguendo la logica dell’austerità, il
surplus primario del bilancio pubblico ha caratterizzato l’Ecuador nel
2018 e nel 2019: il governo attuale segue fedelmente le ricette imposte
dal FMI per indebolire il peso dello Stato in economia e mettere in
ginocchio i lavoratori. Le implicazioni sociali e politiche
dell’austerità non hanno tardato, come sappiamo, ad arrivare. Già a
marzo, tra l’altro, il FMI aveva affermato molto chiaramente che
politiche di questo tipo avrebbero scatenato una resistenza sociale.
Ed eccoci giunti all’attualità. Fortunatamente, le classi subalterne si sono sollevate manifestando per giorni il loro fermo dissenso alle politiche antipopolari del governo.
La repressione poliziesca si è prontamente manifestata in forme
gravissime lasciando sul campo feriti e morti. Malgrado tutto, la
pressione popolare è riuscita ad ottenere un risultato straordinario: il ritiro del pacchetto di misure imposte dal FMI e annunciate dal presidente Moreno.
Manifestiamo la nostra più
profonda solidarietà al popolo ecuadoriano nella speranza che le lotte
sociali contro il neoliberismo, l’austerità e le politiche di classe
mosse contro la maggioranza sociale possano continuare a sortire i loro
frutti.
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