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26/10/2019

Il gioco delle tre Brexit

Una serie tv, di quelle ben fatte che hanno successo planetario, con protagonisti studiati al dettaglio e colpi di scena che ti inchiodano al divano per l’episodio successivo. Che nella fattispecie è il giorno o anche solo l’ora successiva, dati gli svolgimenti che nell’ultima settimana ha registrato il negoziato tra Regno Unito e Unione Europea per le modalità d’uscita del primo dalla seconda.

L’ultima in ordine temporale è, ovviamente, di giovedì, quando il premier Boris Johnson ha dichiarato che lunedì presenterà una mozione per ottenere lo scioglimento della House of Commons, la “camera bassa” del parlamento britannico (rispetto alla House of Lords) e cuore del sistema democratico d’oltre manica in quanto formata su elezione dei cittadini, e andare al voto appunto il prossimo 12 dicembre.

In termini di cronaca, la mozione rappresenta la risposta del premier inglese al fallito tentativo di far partire l’“iter sprint” per ratificare il divorzio dall’Ue entro il 31 ottobre sulla base dell’accordo strappato a Westminster, dopo numerosi stop and go, il 22 ottobre. I laburisti si dichiarano diffidenti, facendo sapere che accetteranno le elezioni anticipate solo se l’ipotesi No deal venisse definitivamente eliminata dal tavolo delle contrattazioni.

Insomma, il premier in carica non sembra poter mantenere le promesse su cui aveva basato il suo mandato politico, ossia la chiusura definitiva della faccenda entro e non oltre il 31 ottobre, indipendentemente dal risultato ottenuto, che fosse il raggiungimento di un accordo fino a un’uscita unilaterale, obiettivo che lo aveva portato perfino alla sospensione (con il benestare della Regina) delle attività parlamentari per quasi cinque settimane nel tentativo di impedire manovre volte ad allungare nuovamente i tempi del negoziato.

Un tira e molla che si trascina oramai da tre anni, da quel giugno 2016 dove il leave prevalse di una misura sul remain nel referendum proposto dall’ex guida dei tories David Cameron, che di quel giorno fece la fine della sua carriera politica, e che da un anno a questa parte è caratterizzato da accelerazioni, bocciature e rinvii più o meno trimestrali della soluzione definitiva.

Ma quali sono le possibilità emerse in questo lasso di tempo?

Sostanzialmente tre: l’uscita senza accordo del Regno dal Mercato interno dell’Unione e dai suoi organi decisionali; l’accordo tra le parti, che nella proposta avanzata da Johnson prevedeva l’uscita britannica dal Mercato interno e il posizionamento dei controlli doganali nel Mar d’Irlanda (nella proposta della May invece era previsto il rinvio sine die della decisione sull’uscita da questo da parte del Parlamento Uk), bocciata dagli unionisti nordirlandesi; il rinvio a oltranza del termine entro cui stabilire la risoluzione del negoziato.

Ebbene, tutte e tre le posizioni sono segnali di continua tenuta europeista nei confronti di episodi più o meno espliciti di messa in discussione dell’organicità del progetto “europeo”, il quale negli ultimi anni ha registrato piccoli ma costanti passi in avanti – dai progetti militari, alla legittimazione per “silenzio-assenso” della repressione interna come in Catalogna, fino alle ultime elezioni del maggio scorso.

1) In caso di mancato accordo infatti il Regno Unito potrebbe affrontare un periodo di forte instabilità dovuto al taglio netto di quei legami, in primis commerciali, che lo legano al continente, come per l’approvvigionamento di generi alimentari o medicinali, su cui non ci sarebbe il tempo necessario per riorganizzare, internamente o con accordi bilaterali, la filiera produttiva che oramai lega a doppio filo tutte le realtà capitalistiche del pianeta: la preoccupazione e gli effetti globali dei dazi Usa-Cina ne sono l’esempio più lampante.

Non che l’Unione ne uscirebbe indenne, ma politicamente sarebbe uno spot importante con cui “educare” i propri membri sui pericoli di un mondo “fuori dall’Ue” – pericoli che farebbero capolino se il distacco non fosse preparato al millimetro con nuovi accordi finanziari e commerciali con paesi terzi per riparare l’economia dall’attacco speculativo che sicuramente colpirebbe il paese che decidesse di abbandonare il blocco europeo.

2) Per come emersi, i possibili accordi bocciati fino a oggi avrebbero comunque segnato un punto a favore dell’Ue. Nell’ultimo tentativo targato May il Regno Unito sarebbe rimasto de facto nel Mercato interno mediante il congelamento della questione della frontiera tra le due parti d’Irlanda (il famoso “backstop”), che avrebbe così da una parte lasciato uno spazio all’Unione, soprattutto all’asse franco-tedesca, per mantenere allo stato odierno i rapporti commerciali (e i profitti) tra i paesi, e dall’altra eliminando il fastidioso alleato dalle decisioni interne dell’Unione.

Nell’accordo Johnson invece la questione ha assunto un carattere più politico: infatti, il posizionamento della dogana nel Mar d’Irlanda, seppur a controllo britannico, se da una parte avrebbe continuato a rappresentare una possibile falla a favore dell’Unione per l’arrivo “libero” di merci, capitali e persone nella parte Nord dell’isola nonostante la sua appartenenza al Regno, dall’altra avrebbe idealmente sancito la separazione di quest’ultima dal resto dello United Kindgom, possibilità che ha fatto imbufalire gli unionisti e di conseguenza naufragare l’ipotesi in Parlamento.

Quella di un riposizionamento della dogana nel territorio irlandese avrebbe allo stesso modo un portato destabilizzante potenzialmente pesantissimo, vista la storia recente del paese. E proprio su questa consapevolezza si basa la strategia “europea”, che si è cementificata sulle sue posizioni mettendo in enorme difficoltà le parti del parlamento britannico, in panne dinanzi all’incapacità di trovare una soluzione alternativa praticabile a quella voluta da Bruxelles.

3) E infatti, i continui rinvii sono la terza via percorsa dalle parti, la quale per un verso rappresenta lo sfiancamento dei sudditi di sua maestà e la continuazione del mantenimento dentro l’orbita economica dell’isola, e dall’altro un suo parallelo depotenziamento politico all’interno delle istituzioni dell’Unione.

L’obiettivo forse celato di questo “arroccamento” è la spinta a un nuovo referendum oltre manica, opzione che i media nostrani non smettono di sostenere mediante continui servizi sulle richieste di ripensamento della società civile, e da cui probabilmente (ma visto il primo risultato, mai dire mai) ne uscirebbe un esito diverso da quello di giugno.

In definitiva, in questo “gioco delle tre Brexit” chi muove le carte sa bene come muovere le mani, e i rappresentanti di Westminster, tutti compresi, dai tories a Corbyn, mostrano segnali di impotenza o scarsa presa nella popolazione del Regno, la cui mobilitazione sola potrebbe (il condizionale è d’obbligo, visti i precedenti catalani) avere un ruolo nello spostamento dei rapporti di forza tra Londra e Bruxelles.

Di fatto, una scommessa di difficile riuscita. Come quella di azzeccare la carta vincente contro i professionisti del magheggio.

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