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26/10/2019

Una guerra civile mondiale (?)

Propongo il testo che segue perchè ha il merito di mettere in fila gli avvenimenti più recenti tentando di darne una chiave di lettura organica generale.

A parere del sottoscritto, tuttavia, il motivo prevalente per cui va letto, è costituirsi degli anticorpi nei confronti dell'appoggio acritico al ribellismo.

È dallo scoppio della crisi del 2007-2008 che ogni evento caratterizzato da atti di rivolta nei confronti del potere costituito, viene esaltato a sinistra mettendo da parte qualsiasi analisi dialettica e trattando ogni avvenimento come fosse una semplice tappa all'interno dello scontro tra sfruttati e sfruttatori che si immagina assolutamente lineare quando, nella realtà delle cose, è infinitamente più complesso e contraddittorio.

Nel caso specifico del testo seguente, ciò si manifesta quando le rivolte di Gilet gialli e masse cilene vengono equiparate alla tentata rivoluzione colorata di Hong Kong, oppure alle giravolte geopolitiche dei curdi siriani del PYD.

Si tratta di forzature a mio avviso molto azzardate.

In un caso, quello di Hong Kong, perchè di carattere chiaramente reazionario (chi è sceso in piazza nell'ex colonia britannica lo ha fatto per nostalgia dei privilegi dell'epoca coloniale, non certo per reclamare d'essere parte attiva all'interno della modernizzazione cinese che, pur tra grandi contraddizioni, continua a impattare positivamente sulle condizioni materiali delle masse popolari); dall'altro perchè la rivoluzione del Rojava, proprio a seguito dei più recenti avvenimenti siriani, ha dimostrato d'essere un gioco esclusivamente di parte gestito in totale spregiudicatezza dal PYD, che è molto difficile, se non impossibile, inquadrare in un generale approccio anche solo progressista per le masse mediorientali tutte.

*****

di Sandro Moiso

“Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita”
(Franco Battiato, Un’altra vita, 1983)

“Se l’emancipazione delle classi operaie esige il loro concorso fraterno come potranno compier tale missione finché una politica estera che persegue disegni criminosi punta sui pregiudizi nazionali e spreca in guerre di rapina il sangue e i tesori dei popoli? Non la saggezza della classe dominante ma l’eroica resistenza della classe operaia inglese alla sua follia criminale fu ciò che salvò l’Occidente europeo dal gettarsi a corpo morto in un’infame crociata per propagare la schiavitù sull’altra riva dell’Atlantico. L’approvazione vergognosa, la simpatia ipocrita o l’indifferenza idiota con cui le classi superiori dell’Europa hanno visto la Russia prender la fortezza montuosa del Caucaso e annientar l’eroica Polonia; gli attacchi incontrastati di tale potenza barbarica, la cui testa è a Pietroburgo e le cui mani sono in tutti i gabinetti ministeriali europei, hanno imposto alle classi operaie il dovere di iniziarsi ai misteri della politica internazionale, vegliare sugli atti diplomatici dei loro rispettivi governi, opporsi ad essi all’occorrenza con tutti i mezzi in loro potere, e, se non possono prevenirli, coalizzarsi e denunciarli simultaneamente e rivendicar le semplici leggi della morale e della giustizia che dovrebbero regolare sia i rapporti superiori fra i popoli che le relazioni tra gli individui. La lotta per una tale politica estera fa parte della lotta generale per l’emancipazione della classe operaia. Proletari di tutti i paesi, unitevi!” (Karl Marx, Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai, fine ottobre 1864)

Due citazioni in apertura potrebbero sembrare davvero troppe per molti lettori.
Soprattutto due citazioni tratte da autori e contesti così lontani tra di loro.

Eppure, eppure...

L’attuale situazione internazionale, in cui non passa giorno senza che nuove proteste esplodano in ogni parte del mondo, a Est come a Ovest e a Sud come a Nord, ci deve far riflettere sull’enorme scontento sociale che agita milioni di persone in ogni angolo del globo.

Un malessere che non può trovare risposta nelle politiche messe in atto da governi apparentemente così diversi tra di loro per forme istituzionali e rappresentanze politiche, ma uniti sostanzialmente dalla necessità di salvaguardare gli interessi del capitale finanziario internazionale.

Governi disposti, in ogni area del pianeta, a distruggere la vita della specie e devastare l’ambiente con cui essa dovrebbe convivere pur di continuare a far vivere ciò che è già morto, per sua stessa essenza.

Infatti ci vuole un’altra vita, inteso come slogan, potrebbe sintetizzare benissimo il contenuto delle proteste attuali: dalle marce dei giovani in difesa della giustizia climatica ed ambientale alle manifestazioni in difesa dell’esperienza rivoluzionaria del Rojava, dalle proteste di Hong Kong a quelle dei giovani iracheni, dalle rivolte cilene ed ecuadoriane a quelle catalane fino ai gilets jaunes e ai movimenti NoTav e NoTap ai quali, nel corso degli ultimi giorni si sono aggiunte anche le proteste in Libano (qui).

Nessuna di queste cause può rappresentare in sé e per sé un assoluto, ma il loro insieme, la simultaneità sempre più frequente delle lotte e il richiamo che intercorre spesso tra l’una e l’altra (la solidarietà del movimento NoTav nei confronti dei combattenti del Rojava, gli studenti di Hong Kong che indossano gilet gialli, manifestanti catalani con gli ombrelli, la diffusione a macchia d’olio della maschera eversiva del Joker nelle rivolte, solo per fare alcuni esempi) ci aiutano a ricostruire un mosaico politico e sociale accomunato da un disegno che, pur non essendo ancora stabilmente delineato, inizia a manifestare una sua intrinseca organicità. Probabilmente dovuta proprio alle risposte messe in campo dai governi in maniera pressoché univoca.

In tutti i casi le proteste nascono da un malessere più generale che affonda le proprie radici in un modo di produzione in cui l’accumulo di lavoro morto trasformato in valore-denaro sta soffocando la vita e il lavoro vivo della specie, sia sul piano meramente fisico che su quello psichico.

In nome di un profitto sempre più effimero, soprattutto se si osserva come ormai un 20% dei titoli di Stato complessivi e almeno il 40% del debito aziendale a rischio default conservato nelle casseforti delle otto principali economie mondiali consista in titoli a tasso negativo (qui).

Le differenze che caratterizzano tutti i movimenti elencati prima possono nascondere soltanto ad un occhio spento o accecato dall’ideologia il fatto che gli stessi derivano tutti dalla necessità di interrompere un rapporto di sottomissione in cui, come affermava uno slogan di successo di qualche anno or sono, Siamo il 99%!, la maggioranza dell’umanità (donne, lavoratori salariati, disoccupati, giovani privi di futuro sia dal punto di vista climatico che economico, classi medie in rovina, popoli indigeni e piccoli contadini) è costretta a ridurre sempre più le proprie esigenze minime in favore del rilancio di un profitto che si accumula quasi esclusivamente nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di investitori e compagnie multi e sovranazionali. Oppure di imperialismi, vecchi e nuovi, che vedono ridursi sempre più gli spazi per la loro espansione finanziaria ed estrattivista, se non a rischio di nuove e sempre più devastanti guerre.

Dai curdi del Rojava che non vogliono vedere distrutto il loro esperimento di autogoverno che ha messo al centro di ogni iniziativa politica e militare la questione femminile, quella ambientale e quella di nuove forme di democrazia non basate sullo Stato e sulla nazionalità, ai giovani e ai rivoltosi di ogni genere e età di Hong Kong, assillati da una situazione economica disastrosa per la maggioranza degli abitanti della ex-colonia britannica1; dai milioni di Catalani scesi in piazza per le durissime condanne inflitte ai promotori del referendum indipendentista del 2017 e per ribadire la propria voglia di indipendenza ed organizzazione repubblicana nei confronti di uno Stato che fonda ancora le proprie radici nel fascismo franchista e in una monarchia ormai fuori dalla Storia, ai giovani iracheni scesi in piazza contro l’aumento del costo della vita e la mancanza di lavoro o altre fonti di reddito; dai popoli indigeni amazzonici in Ecuador e Brasile all’esplosione sociale di Santiago del Cile, fino alle proteste ambientali e territoriali di movimenti come quelli italiani NoTav e NoTap, sembra levarsi dal pianeta un unico urlo di rivolta che invita a farla finita con un sistema di sfruttamento della vita, nostra e delle altre specie, ormai insopportabile.

L’elenco delle proteste e delle lotte potrebbe ancora continuare a lungo, così come quello delle forme di organizzazione e delle richieste immediate messe in campo dai rivoltosi di ogni dove, ma ciò che qui occorre sottolineare è il fatto che tutte queste lotte si trovano davanti a uno spazio di manovra e trattativa istituzionale sempre più ristretto, a dire il vero quasi nullo.

Dai carri armati messi in campo da Erdogan nel Nord-est curdo-siriaco quanto da Pinera in Cile, alle parole sprezzanti del rappresentante del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE), Pedro Sánchez Pérez-Castejón, nei confronti degli indipendentisti condannati in Spagna; dai carri armati e le truppe minacciosamente ammassate dal governo cinese ai confini con Hong Kong fino alla condanna definitiva per i militanti NoTav accusati per il blocco di un casello stradale nel 2012 oppure fino alle decine di denunce per i militanti del Movimento NoTap per atti assolutamente risibili, la risposta dei governi non è altra che quella legata alla intimidazione, alla repressione e al silenziamento, se non al massacro, dei movimenti e dei militanti che negli stessi sono coinvolti.

Silenziamento e repressione che si avvalgono, a seconda della situazione, di armi, ipocriti appelli alla condivisione di obiettivi comuni (tipo il Green New Deal o le raccolte firme online a favore dei Curdi da parte di personaggi come Roberto Saviano ed Enrico Mentana) mentre la polizia reprime le manifestazioni di piazza a favore del Rojava (come a Firenze), la magistratura inquisisce chi è andato a combattere per quella causa (come a Torino) e sono oscurati i profili Fb delle testate che più si sono impegnate a difendere il Rojava, insieme a quelli individuali dei militanti che maggiormente si sono dati da fare per diffondere in rete iniziative e messaggi in tale direzione (come a Brescia, ma non soltanto).

Tutto questo sembra aver fatto perdere la bussola anche a molti di coloro che avrebbero dovuto prendere una posizione univoca e solidale a favore di tutti questi movimenti, a prescindere da ciò che affermano in prima istanza nelle parole delle loro organizzazioni o dei loro rappresentanti.

Dimenticando la lezione di Karl Marx e dell’Associazione Internazionale dei lavoratori del 1864, troppi hanno iniziato a disquisire sulla validità o meno dei singoli obiettivi o sugli appoggi che tali movimenti potrebbero ricevere da forze altre, facendo in modo che la cultura del sospetto di staliniana memoria tornasse sotto forma di apparenti dotte analisi geo-politiche oppure politiche, ma in realtà soltanto prossime al disfattismo.

Insomma, alcuni fingendo di rappresentare un’autentica ortodossia marxista hanno finito col tradire lo spirito che ha sempre contraddistinto l’azione e la riflessione del Moro di Treviri, sempre ed esclusivamente rivolto a trovare e denunciare i gangli vitali del modo di produzione capitalistico, da un lato, e ad individuare i suoi reali antagonisti insieme alle lotte destinate a superarlo, dall’altro.

È vero che oggi l’appello all’unità non può più passare soltanto attraverso quello rivolto alla classe operaia, ma è anche vero che l’appello del 1864 si concludeva con quel proletari di tutto il mondo unitevi! che superava la soglia ristretta dei semplici operai salariati per rivolgersi a tutti gli espropriati d’Europa e del mondo intero. A quell’immenso proletariato in cui, i processi di espropriazione ed impoverimento della maggioranza della popolazione, stanno precipitando tanto i milioni di rifugiati e profughi che migrano da un angolo all’altro del pianeta, in cerca di una sicurezza esistenziale ed economica che nessun governo intende realmente garantire loro, quanto le classi medie impaurite dell’Occidente, che nello slogan dei gilets jaunes, Fine del mondo – fine del mese stessa cosa possono riconoscere un perfetta sintesi della loro situazione.

Una gigantesca ricomposizione di classe in cui, al momento attuale e soprattutto sul versante occidentale del pianeta, proletariato e proletariato marginale, sottoproletariato e lavoratori salariati si confondono in continuazione grazie alla diffusione del lavoro precario, delle agenzia del lavoro e, soprattutto, del venir meno di qualsiasi garanzia del e sul posto di lavoro. Non comprendere ciò significherebbe ridurre la “classe operaia” ad un mero feticcio da sventolare in occasione delle celebrazioni del 1° maggio, rendendola oltretutto schiava di una visione lavorista che la relegherebbe ad essere una semplice appendice dell’apparato produttivo senza più alcuna reale autonomia di classe.

Marx aveva inoltre ben chiaro che “Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale […] cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, ma cresce anche la ribellione”.2 Affermazione cui andrebbe aggiunta quella di Friedrich Engels, là dove scriveva: “Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre crescente la grande maggioranza della popolazione in proletari, crea la forza che, pena la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento.”3

Probabilmente non tutti coloro che scendono in piazza in Catalogna condividono le stesse finalità (tra l’indipendentismo di Carles Puigdemont i Casamajó e quello dei CDR, i comitati di difesa della repubblica, oppure dei comitati di quartiere corrono diversi lunghezze di distanza in termini di obiettivi e modalità di lotta e organizzazione dal basso), così come ad Hong Kong gli interessi coinvolti nelle agitazioni possono essere tanti quanti quelli presenti tra i governi che hanno parzialmente appoggiato, e poi tradito, i curdi del Rojava nelle loro lotta, obbligata dalla necessità della sopravvivenza, contro l’Isis, ma ciò non vuol dire che non sia assolutamente necessario appoggiare e condividere tutte queste lotte, in nome di un comune e necessario superamento non solo delle ingiustizie consumate a livello planetario, ma anche del modello sociale e del modo di produzione che le rendono plausibili.*

Occorre infine considerare che molti movimenti indipendentisti nascono proprio dalla crisi degli stati nazionali, ormai troppo spesso ridotti ad una mera funzione repressiva, e della scarsa, o nulla, autonomia decisionale dei propri governi. Senza tali considerazioni, che andrebbero certamente approfondite, non si riesce però nemmeno a cogliere la sempre più evidente insignificanza dei governanti e dei loro partiti: da Di Maio a Trump, passando da Salvini, il PD, Boris Johnson e tutte quelle forze che, fingendosi di volta in volta, sovraniste, populiste, democratiche o liberali, non possono far altro che riscaldare la solita vecchia minestra e portare avanti lo stesso progetto predatorio e repressivo.

Ancora negli anni Sessanta dell’Ottocento, Marx invitava gli operai inglesi, avversi alla presunta concorrenza lavorativa dei lavoratori immigrati irlandesi, a difendere quei lavoratori più deboli e meno garantiti invece di combatterli poiché chi non sa difendere gli altrui diritti, non sa difendere neppure i propri. Tutto ciò vale ancora, e forse di più, per noi oggi. Guai a tradirne il mandato.

Anche perché oggi, a livello internazionale, è diventato necessario parlare di guerra civile, poiché l’obiettivo ultimo di questo scontro globale si potrà completare non tanto e soltanto con la vittoria di uno dei due attori principali (operai e borghesi per semplificare secondo un mal digerito marxismo) ma, piuttosto, con la negazione di entrambi attraverso una negazione e un superamento dell’attuale modo di produzione, anche attraverso la distruzione immediata dello Stato nazionale, proprio come Marx aveva affermato sull’onda dell’esperienza della Comune di Parigi. Guerra civile che, tra l’altro, i difensori più feroci del dis/ordine esistente non esitano più a dichiarare apertamente, così come ha fatto in questi giorni il presidente cileno Pinera (qui).

Carcere, lager, morte, tortura e violenza non sono stati strumenti repressivi tipici soltanto del passato e dei regimi totalitari, ma sempre più lo saranno nel presente, in ogni angolo d’Europa e del mondo. Miseria y represion come sta scritto su uno striscione dei manifestanti cileni. Ma tutto questo non costituisce soltanto una momentanea deviazione dalla normalità quotidiana politica e democratica, così come tutti i media vorrebbero ancora farci credere; piuttosto deve essere appropriatamente riconosciuto e chiamato col nome più adatto: guerra civile, aperta o strisciante che sia4, dichiarata dai governi e dalle élite dell’economia mondiale in nome dei “sacri diritti” del profitto e dello sfruttamento. Ma che dovrà essere rovesciata nel suo contrario.

Una violenta e tutt’altro che sotterranea guerra civile che si è aperta tra sfruttatori, sia della specie umana che dell’ambiente, e sfruttati che si risolverà soltanto con la ridefinizione delle forme sociali di governo e di produzione. Forme che non possono ancora essere del tutto date, ma che potrebbero esserlo nel corso degli eventi oppure definirsi completamente soltanto al loro termine; certo è che dobbiamo, con intelligenza e lucidità di pensiero, renderci conto che dalla Comune in avanti tutte le lotte fino a quelle attuali, fanno tutte parte di una lunga, forse lunghissima, guerra civile (non solo di classe, poiché spesso gli attori sono stati più numerosi delle due classi canonizzate dall’ideologia) destinata a ridefinire i confini del futuro della nostra specie. Uno scontro, quello che viviamo, che soltanto dal futuro, inteso come negazione dei rapporti sociali di produzione presenti e passati, può trarre l’ispirazione e le giuste motivazioni.

Lasciando agli odierni manutentori del dis/ordine imperiale mondiale attuale il ruolo che già toccò alle peggiori forze conservatrici, liberali, fasciste o fintamente socialiste che fossero, del passato. Ovvero quello di negare, con ogni mezzo, un futuro diverso e possibile affinché ciò potesse e possa ancora impedire qualsiasi azione di cambiamento del presente.

N.B.

In occasione della manifestazione Logos-Festa della Parola che si terrà a Roma dal 23 al 27 ottobre presso il CSOA EX SNIA si svolgeranno incontri, dibattitti e presentazioni di libri direttamente collegati ad alcuni dei temi qui trattati (qui il programma).

Note:

1) Si veda H. Dieter, Poveri e senza casa: le radici sociali della protesta in Hong Kong: una Cina in Bilico, Limes n° 9/2019, pp. 117-120

2) K. Marx, Il capitale, Libro primo, cit. in A.Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli 1974, p. 87

3) F. Engels, Antidühring, in A. Heller, op. cit. p. 87

4) cfr. https://www.carmillaonline.com/2019/03/07/tre-secoli-di-guerra-civile/

Fonte

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