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14/10/2019

Limiti e contraddizioni dei negoziati bilaterali Ue-Cina sugli investimenti

L’ambiguità europea circa la CAI (Comprehensine Agreement on Investiment).

Da un lato opportunità strategica, dall’altra minaccia. È intervenuto l’arrocco franco-tedesco. Per sviarlo la Cina deve avere rapporti bilaterali con i Paesi Med e quelli del 16+1.

Per analizzare le risultanze dei negoziati Ue - Cina sugli investimenti (CAI) è utile precisare la situazione europea. A seguito della crisi dei debiti sovrani, iniziata nel 2010 in Grecia, e che si è diffusa nei principali paesi mediterranei, l’UE si è via via strutturata come polo franco tedesco.

Da un punto di vista commerciale e monetario, essa ha 12 paesi core dell’eurozona e i restanti paesi dell’Europa Orientale, entrati nel processo di allargamento nel 2004, che non ne fanno parte. Gli stessi tassi di crescita riflettono questa distanza.

Da un punto di vista economico l’Eurozona si caratterizza nell’ultimo decennio per un basso tasso di investimento (19,1% del pil), contrariamente alla Cina che ha mantenuto un tasso del 41,3%, Gli stessi livelli di istruzione si stanno via via degradando a causa della crescente disuguaglianza che impedisce ad ampie fasce di popolazione di accedere all’istruzione superiore.

Dal punto di vista dei fattori produttivi, a partire dal 2003 con l’Agenda 2000 del cancelliere tedesco socialdemocratico Schroeder, l’Eurozona – che ha imitato il modello mercantilista tedesco – ha abbracciato, marxianamente parlando, il “pluslavoro assoluto”, nel mentre la Cina, con la Riforma del Lavoro del 2008, ha deciso di puntare sul “plusvalore relativo”.

Queste differenti strategie economiche si riflettono nel 2019 in un contesto europeo caratterizzato da scarsa capacità tecnologica: rispetto ai colossi Usa e Cina, l’UE è fuori sul digitale, sull’Intelligenza Artificiale, nella guida autonoma, nella gestione dei big data, nelle piattaforme social e anche nell’auto elettrica. Contrariamente, la Cina in questi dieci anni ha avuto risultati sorprendenti e ormai è alla testa mondiale dell’innovazione tecnologica, di cui il 5G rappresenta solo l’esempio più lampante.

A partire dal febbraio 2019 l’asse franco-tedesco, con la firma del Trattato di Acquisgrana, ha deciso una strategia “dell’arrocco”: il ministro dell’economia tedesco Altmaier e quello francese LeMaire si sono uniti per un’unica voce nella politica industriale europea, attraverso partnership pubblico-privata nei settori dove la Germania, la Francia e tutta l’UE sono deficitarie.

La stessa nuova Commissione, guidata dalla tedesca Von der Layen, ha deciso di puntare nei prossimi dieci anni 1.000 miliardi di euro in politiche industriali “green”. C’è da dire che l’apparato burocratico di Bruxelles è dominato da funzionari tedeschi, quindi i desiderata della Commissione e del Consiglio Europeo riflettono i desiderata della politica tedesca, a cui si unisce la Francia. I paesi med e quelli dell’Europa Orientale subiscono questo approccio, teso in ultimo alla creazione di un Esercito Comune Europeo.

Se cosi stanno le cose, Commissione Europea e Consiglio Europeo come guardano alla Cina?

Con notevole ambiguità. La vedono partner sulle strategie di cambiamento climatico e da un punto di vista diplomatico nell’approccio all’Iran. Per il resto, sulla tecnologia la Cina è vista come un “competitor” e per quanto riguarda i differenti modelli di governance addirittura come “rival sistemic”.

Se andiamo poi a scoprire cosa ne pensa la BDI, l’associazione degli industriali tedeschi, il CAI è visto come “top priority”, ma al contempo giudica la Cina come “a sistemic competitor” sulla tecnologia.

Questi differenti, e ambigui, modi di vedere la Cina si riflettono sui negoziati del CAI. Ufficialmente, l’UE si prepara alla firma dell’intesa nel 2020, ma allo stesso tempo prepara le munizioni finanziarie per fronteggiare quel che ritiene la “minaccia cinese”. Sia la BDI, sia la Camera di Commercio UE in Cina, sia la Commissione Europea non perdonano alla Cina il connubio formidabile tra imprese pubbliche e private nei settori tecnologicamente avanzati, che vede in Made in China 2025 la sua struttura portante.

Al pari degli americani, gli europei vorrebbero lo smantellamento dell’apparato pubblico cinese, la cui economia di scala e l’innovazione tecnologica, unita ad una potenza di fuoco data dal bilancio pubblico, non permette agli europei, e agli americani, aggiungo, di fronteggiare le innovazioni tecnologiche cinesi.

A partire dal marzo 2019 è intervenuta una novità: la “Foreign Investment Law”, cinese che apre alla detenzione di maggioranze assolute nei consigli di amministrazione cinesi da parte degli stranieri e una maggiore protezione sul piano tecnologico. La tedesca BMW ha potuto così detenere la maggioranza nella sua storica partnership con imprese cinesi. Da un punto di vista finanziario la francese BNPParibas e la tedesca Deutsche Bank hanno potuto fare la stessa cosa.

Queste novità provenienti dalla Cina hanno lasciato il segno in Europa, e per questo si spinge per la firma del CAI.

Cosa deve fare la Cina? Pervenire alla firma di un trattato Ue-Cina sugli investimenti il più generico possibile, di modo che abbia via libera, ma subito dopo instaurare dei rapporti bilaterali sugli investimenti che rifletta la strategia One Belt One Road (OBOR), in particolare sui paesi Med, molto più propensi all’apertura con la Cina, e i paesi dell’Europa Orientale (16+1), in modo da sviare l’”arrocco franco tedesco”.

Questa strategia, della pazienza e dello sviamento, potrebbe essere decisiva nei prossimi decenni.

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