Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

30/06/2017

Dopo la rivoluzione: i primi atti del potere sovietico

Uno stralcio dell’introduzione di Vladimiro Giacché al volume Lenin, Economia della rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 2017, da oggi in libreria; sono state riprodotte le pagine 14-19, eliminando poche righe di testo, nonché alcune note e riferimenti testuali. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore questa parte del libro è stata pubblicata da Marx XXI e condividiamo su Fattore K
 
Per creare il socialismo, voi dite, occorre la civiltà. Benissimo. Perché dunque da noi non avremmo potuto creare innanzi tutto quelle premesse della civiltà che sono la cacciata dei grandi proprietari fondiari e la cacciata dei capitalisti russi per poi cominciare la marcia verso il socialismo?
 

LENIN, Sulla nostra rivoluzione, 17 gennaio 1923

Quando Lenin, il 30 novembre 1917, licenziò per la stampa Stato e rivoluzione, accluse un poscritto in cui informava il lettore di non essere riuscito a scrivere l’ultima parte dell’opuscolo originariamente prevista. E aggiunse: «la seconda parte di questo opuscolo (L’esperienza delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917) dovrà certamente essere rinviata a molto più tardi; è più piacevole e più utile fare “l’esperienza di una rivoluzione” che non scrivere su di essa».

L’esperienza in questione era iniziata il 25 ottobre 1917 (7 novembre secondo il calendario gregoriano, che dal marzo 1918 sarebbe stato adottato anche in Russia). La notizia era stata comunicata ai cittadini russi attraverso un appello, scritto dallo stesso Lenin, in cui si dava notizia dell’abbattimento del governo provvisorio guidato da Kerenskij e del passaggio del potere statale «nelle mani dell’organo del Soviet dei deputati operai e soldati di Pietrogrado, il Comitato militare rivoluzionario». L’appello proseguiva: «La causa per la quale il popolo ha lottato, l’immediata proposta di una pace democratica, l’abolizione della grande proprietà fondiaria, il controllo operaio della produzione, la creazione di un governo sovietico, questa causa è assicurata».

Nei giorni successivi questo programma si sarebbe tradotto in decreti. Non si trattava di un programma estemporaneo. Al contrario, i suoi punti erano stati esposti in dettaglio dallo stesso Lenin in diversi scritti precedenti la Rivoluzione. Dal punto di vista politico, si trattava di rompere il dualismo di potere creato dalla Rivoluzione di febbraio tra governo provvisorio e consigli (soviet) degli operai e dei soldati, dando «tutto il potere ai soviet». Dal punto di vista economico, già nelle Tesi di aprile Lenin aveva affermato: «il nostro compito immediato non è l’“instaurazione” del socialismo, ma per ora, soltanto il passaggio al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei soviet dei deputati operai». Nel mese di settembre, in La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, dopo aver descritto la situazione di collasso economico e militare del paese e denunciato l’incapacità del governo provvisorio di farvi fronte, aveva individuato in quel passaggio, nel «controllo veramente democratico, cioè “dal basso”, il controllo degli operai e dei contadini poveri sui capitalisti», e al tempo stesso nell’accentramento nelle mani dello «Stato democratico rivoluzionario» del potere economico, gli elementi chiave per evitare la catastrofe e procedere verso il socialismo. Di fatto Lenin individuava nel «capitalismo monopolistico di Stato», e in particolare nell’accentramento delle funzioni produttive e distributive nelle mani dello Stato che diversi paesi in guerra – a cominciare dalla Germania – avevano realizzato, un presupposto essenziale per il socialismo. A patto che il potere non fosse più nelle mani dei capitalisti e dei loro rappresentanti: «il capitalismo monopolistico di Stato, in uno Stato veramente democratico rivoluzionario, significa inevitabilmente e immancabilmente un passo, e anche più d’un passo, verso il socialismo!».

Il 7 novembre stesso il potere fu formalmente consegnato dal comitato militare rivoluzionario nelle mani del II Congresso dei Soviet, che si riuniva proprio quel giorno. Nella stessa sede Lenin lesse un Rapporto sul potere dei Soviet di cui abbiamo un resoconto giornalistico. Il significato della Rivoluzione è ravvisato da Lenin nella creazione di un «governo sovietico [...] senza nessuna partecipazione della borghesia. [...] Il vecchio apparato statale sarà distrutto dalle radici e sarà creato un nuovo apparato di direzione: organizzazioni sovietiche». Nel suo Rapporto Lenin ribadisce che la Rivoluzione «deve come ultimo risultato condurre alla vittoria del socialismo»: in altri termini, la conquista del potere politico per Lenin non coincide immediatamente con l’instaurazione del socialismo. Quanto ai compiti immediati, è posta in prima linea «la necessità di porre subito fine alla guerra» [...].

Il primo decreto approvato dal Congresso dei soviet è infatti quello sulla pace. In un testo recente dedicato al 1917 la sua presentazione è così sintetizzata: l’8 novembre «alle 20.40 Lenin sale alla tribuna del Congresso e dà lettura del Decreto N° 1 sulla pace: il governo operaio e contadino, forte dell’appoggio dei soviet, propone a tutti i popoli belligeranti (e poi ai loro governi!) l’immediato inizio di trattative per una pace giusta e democratica senza annessioni e senza indennità; per la prima volta nella storia, la legittimità dei possessi coloniali e la pratica della diplomazia segreta vengono ufficialmente rigettate, e il governo sovietico, nel proporre un armistizio, si rivolge in particolare agli “operai coscienti delle tre nazioni più progredite dell’umanità” (Francia, Inghilterra, Germania) affinché leghino la lotta per la pace a quella per il socialismo». [1]

Sotto il profilo economico il decreto cruciale è però il secondo, il Decreto sulla terra, approvato dal Congresso dei soviet nella notte tra l’8 e il 9 novembre. Esso prevedeva l’abolizione immediata e senza alcun indennizzo della grande proprietà fondiaria e metteva a disposizione dei comitati contadini e dei soviet distrettuali tutti i possedimenti dei grandi proprietari fondiari e le terre dei conventi, delle chiese e della corona, con il compito di distribuirle ai contadini. Al decreto era annesso il Mandato contadino sulla terra, approvato nell’agosto 1917 da un congresso contadino e frutto di 242 risoluzioni di assemblee contadine, cui veniva così conferito valore di legge. Questo mandato, ispirato dai socialisti-rivoluzionari, era rimasto lettera morta durante il governo provvisorio, di cui pure i socialisti-rivoluzionari facevano parte. Adesso lo realizzavano i bolscevichi, pur non condividendone appieno i contenuti: esso infatti poneva l’accento più su una ripartizione egualitaria della terra che sulla necessità di creare grandi imprese agricole collettive in grado di aumentare la produttività del lavoro agricolo. Questi diversi punti di vista emersero nella discussione del Congresso dei soviet. Alle perplessità di una parte dei bolscevichi Lenin rispose così: «Si sentono qui voci le quali affermano che il mandato e il decreto stesso sono stati elaborati dai socialisti-rivoluzionari. Sia pure. [...] Come governo democratico non potremmo trascurare una decisione delle masse del popolo, anche se non fossimo d’accordo. [...] Ci pronunciamo perciò contro qualsiasi emendamento di questo progetto di legge [...]. La Russia è grande e le condizioni locali sono diverse. Abbiamo fiducia che i contadini sapranno risolvere meglio di noi, in senso giusto, la questione. La risolvano essi secondo il nostro programma o secondo quello dei socialisti-rivoluzionari: non è questo l’essenziale. L’essenziale è che i contadini abbiano la ferma convinzione che i grandi proprietari fondiari non esistono più nelle campagne, che i contadini risolvano essi stessi tutti i loro problemi, che essi stessi organizzino la loro vita». Ancora nel dicembre del 1917 Lenin ribadirà questo punto di vista: «Ci dicono che siamo contro la socializzazione della terra e che perciò non possiamo metterci d’accordo con i socialisti-rivoluzionari di sinistra. A questo rispondiamo: sì, noi siamo contro la socializzazione della terra come la vogliono i socialisti-rivoluzionari, ma ciò non ci impedisce una onesta alleanza con i socialisti-rivoluzionari di sinistra»: l’obiettivo fondamentale è infatti «la stretta alleanza degli operai e dei contadini». Ancora nel febbraio 1918 la Legge fondamentale sulla socializzazione della terra che sostituì il Decreto avrebbe espresso il prevalere di posizioni riconducibili ai socialisti-rivoluzionari di sinistra.

Le conseguenze del decreto, dal punto di vista dell’entità della terra redistribuita, furono immense. Anche perché nell’attuazione pratica, demandata a livello locale, si andò oltre le stesse previsioni del mandato: di fatto, la parte del patrimonio agrario sottratta alla distribuzione fu molto inferiore a quella prevista. In media, in tutto il paese, la terra concessa in uso ai contadini passò dal 70 per cento al 96 per cento di tutta l’area coltivata, in Ucraina dal 56 per cento al 96 per cento, mentre in altre regioni arrivò quasi al 100 per cento. Passarono così ai contadini 150 milioni di ettari di terra in tutta la Russia; i contadini furono inoltre liberati da fitti nei confronti dei grandi proprietari fondiari del valore di 700 milioni di rubli all’anno e da un debito di 3 miliardi di rubli nei confronti della Banca dell’Agricoltura; il valore degli attrezzi espropriati si aggirò intorno a 300 milioni di rubli. Non meno importanti le conseguenze in termini di stratificazione sociale nelle campagne: il decreto ridusse la polarizzazione sociale, accrescendo il peso dei contadini medi.

Decisive e immediate furono infine le conseguenze politiche: con il decreto sulla terra la Rivoluzione si conquistò l’appoggio dei contadini, legittimando e incentivando un processo dal basso di esproprio delle grandi proprietà fondiarie già in corso, e accentuò la spaccatura all’interno dei socialisti-rivoluzionari tra la destra, ostile all’esperimento rivoluzionario, e la sinistra, che infatti nel mese di dicembre entrò a far parte del Consiglio dei commissari del popolo vedendosi attribuito tra l’altro proprio il Commissariato all’agricoltura.

È interessante notare che nel 1924, in un discorso tenuto poche settimane dopo la morte di Lenin, uno dei principali dirigenti bolscevichi, Zinov’ev, individuò tra le principali innovazioni di Lenin alla teoria e prassi rivoluzionarie precisamente «il suo atteggiamento nei confronti dei contadini. Probabilmente fu questa la più grande scoperta di Vladimir Il’ič: l’unione della rivoluzione degli operai con la guerra contadina»; e ancora: «il problema del ruolo dei contadini [...] è la questione di fondo del bolscevismo, del leninismo». [2] Convergente la testimonianza dello scrittore russo Maksim Gor’kij, il quale ricorda così i motivi del proprio dissidio con Lenin nell’anno della Rivoluzione, sin dalle Tesi di aprile: «pensai che sacrificasse ai contadini l’esercito sparuto ma eroico degli operai politicamente consapevoli e degli intellettuali sinceramente rivoluzionari. Quest’unica forza attiva sarebbe stata gettata, come una manciata di sale, nell’insipida palude delle campagne e si sarebbe dissolta senza mutare lo spirito, la vita, la storia del popolo russo». Per Gor’kij la politica di Lenin avrebbe insomma assecondato in misura eccessiva i contadini, non tenendo conto della necessità di «sottomettere gli istinti della campagna alla ragione organizzata della città». [3]

Con riferimento a queste prime mosse dei bolscevichi al potere, è utile riproporre il commento di Andrea Graziosi:

“Lenin si mosse con straordinaria risolutezza emanando decreti di forza impressionante, che riunivano il meglio delle tradizioni socialiste, democratiche e persino liberali. Quello sulla pace arrivò solo due ore dopo l’arresto del governo, seguito il giorno stesso da quello sulla terra. Entrambi furono approvati dal Congresso nazionale dei soviet, nella sua prima seduta, assicurando in qualche modo la legittimità del nuovo potere. Il 15 novembre un nuovo decreto proclamava l’uguaglianza e la sovranità dei popoli dell’ex impero, riconoscendone il diritto all’autodeterminazione e alla secessione. Esso fu presto seguito da altri provvedimenti che abolivano la pena di morte [...] e introducevano il controllo operaio, nonché misure liberali in materia di previdenza sociale, istruzione ecc. L’impatto fu enorme, sia nel paese, dove queste misure, tanto desiderate, rafforzarono l’appoggio al governo di buona parte delle campagne, dell’esercito e delle minoranze nazionali, sia fuori di esso”. [4]


NOTE
1. G. Carpi, Russia 1917. Un anno rivoluzionario, Carocci, Roma 2017, p. 157.
2. Cit. in A. Nove, An Economic History of the Ussr 1917-1991, Penguin, London 19923, p. 29. Di «unione della “guerra dei contadini” con il movimento operaio», a proposito della Rivoluzione russa, parlò lo stesso Lenin in uno dei suoi ultimi scritti, ricordando che essa era stata ritenuta «una prospettiva possibile» anche da Marx nella Prussia del 1856 (Lenin, Opere complete, vol. XXXIII, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 438).
3. M. Gor’kij, Lenin (1931), a cura di I. Ambrogio, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 46.
4. A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin, Il mulino, Bologna 2007, p. 93.

Confindustria e Papa bastonano CgilCislUil: “inutili e corrotti”

I salari sono bassi, vergognosamente bassi. Anche quei pochi “fortunati” (i giornali padronali ancora scrivono “privilegiati”) che hanno un lavoro da molti anni, e dunque salari fissati da contratti nazionali stipulati in altre condizioni, negli ultimi anni hanno visto bloccarsi la dinamica verso l’alto. Per precari e discontinui, invece, la dinamica è addirittura discendente, quando si passa da un lavoro all’altro. In molti comparti, specie nella grande distribuzione, i 600 euro al mese per orari settimanali decisi arbitrariamente dalle aziende, sono diventati quasi la normalità.

Per le aziende è ovviamente una pacchia, a un primo sguardo (che è poi quello delle aziende stesse, notoriamente molto miopi). Ma basta guardare il problema da un po’ più in alto – un paese, per esempio – e subito si vede che questa compressione salariale è anche un problema negativo per l’economia capitalistica. Se la gente lavora e viene pagata poco – o addirittura nulla, come in molti stage o all’Expo – non ha molto da consumare. Insomma, compra poche merci, riduce i servizi, taglia le spese superflue e anche gran parte di quelle necessarie (le cure mediche, per prima cosa). Ma se la domanda di consumi cala, anche per le aziende le cose si mettono male, sono costrette a ridurre la produzione, ecc.

Si chiama spirale deflazionistica, un mostro alimentato da dieci anni di crisi economica e politiche di austerità (soprattutto in Europa), da cui neanche l’immenso quantitative easing praticato dalla Bce da due anni e mezzo è riuscito a farci uscire.

Bene. Da diversi mesi la stessa Bce va dicendo che se non si rimettono a crescere i salari reali (che, con inflazione quasi a zero, corrispondono ai salari monetari) il tentativo di rimettere in moto un circuito virtuoso (leggermente inflazionistico, ma intorno al 2% annuo) non avrà successo. E dunque la “crescita” rimarrà soffocata nella culla.

La cosa sorprendente, fino ad un certo punto, è che anche il giornale di Confindustria – IlSole24Ore – ha finalmente colto l’invito di Mario Draghi, approfittandone per fare una dura ramanzina... ai sindacati complici (CgilCislUil)! L’editoriale di Alberto Orioli (L’assist Bce che il sindacato non coglie) non fa sconti, ma soprattutto dice cose addirittura sacrosante: 

Mario Draghi anche nell’ultimo discorso che tanto ha spiazzato i mercati ha citato il tema della sottoccupazione che induce a vedere come priorità il consolidamento del proprio posto di lavoro (magari lavorando più ore) piuttosto che non l’aumento delle retribuzioni per via contrattuale”.

la tesi del numero uno della Bce è che la sottoccupazione crea una dinamica distorsiva nell’inflazione, soprattutto perché – ed è questa la novità su cui il sindacato deve riflettere – lo sviluppo dei contratti di secondo livello ha creato una flessibilità che non sempre si è tradotta al rialzo”.

Accentuare ancora – nel dibattito pubblico del Paese europeo con la più alta presenza sindacale – argomenti minori come sono, ad esempio, i voucher, per farli diventare il simbolo di una nuova battaglia per i diritti stile anni '70 (come sta facendo la Cgil) rischia di rendere sfuocato il vero tema strategico dei salari”.

Le parti sociali sono ancora in tempo per correggere un altro errore prospettico: quello di trasformare la discussione su come rivitalizzare i salari nel dibattito tutto politico-ideologico del salario minimo o di cittadinanza. Il che sposta l’asse dal tema del lavoro a quello dell’assistenza. E sposta anche il “gioco di potere” dal campo dei corpi intermedi a quello proprio della politica”.

Naturalmente Confindustria non sta correndo sulle tracce di Corbyn o Melenchon. La sua soluzione è molto prosaica e pro-imprese: “abbattimento del cuneo fiscale per i giovani, per favorirne l’ingresso sul mercato e nel contempo alzarne le retribuzioni e nuova articolazione delle relazioni industriali”. Ossia una risposta sistemica che non sposta i rapporti di forza tra i “fattori del lavoro”, anzi, ma chiede ancora una volta allo Stato di farsi carico del differenziale contributivo, consentendo così alle aziende di destinare quel margine monetario in più all’aumento dei salari.

E qui casca l’asino dei sindacati complici. Le aziende, infatti, non concederanno mai spontaneamente un salario più alto. Serve che qualcuno glielo chieda, magari anche con la faccia incazzata; insomma, con qualche mobilitazione che abbia al centro questo tema. Altrimenti si limitano a mettere quei soldi in banca o nella speculazione finanziaria (il vero sogno segreto di molti padroncini italiani), lasciando stagnare produzione e consumi come negli ultimi anni.

Ma CgilCislUil si sono ormai adattati da quasi un quarto di secolo alle politiche di “moderazione salariale”, alla “contrattazione aziendale” (dove i lavoratori sono in genere più deboli) prevalente su quella nazionale, alla difesa di un “ruolo politico” anziché impegnato nella salvaguardia degli interessi almeno economici dei lavoratori. Un esempio clamoroso è venuto dall’ultimo rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, categoria un tempo gloriosa e combattiva, che coincideva quasi per intero con la rappresentanza Fiom, in cui l’aumento salariale concordato è di... 1,70 euro al mese!

I sindacati complici stanno ormai svolgendo da anni un ruolo così di supporto alle richieste aziendali – in un panorama imprenditoriale segnato da un padronato miserabile e micragnoso – da essere diventati un fattore di freno all’uscita dalla spirale deflazionistica.

Grosso modo, con parole diverse, è la stessa critica rivolta dal Papa ai presunti cattolici della Cisl. Anche in quel caso il richiamo a “fare il proprio mestiere” di sindacato è stato perentorio: 

Nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire la sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare, alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile”.

«Le “pensioni d’oro” – e tutti hanno pensato subito all’ex segretario Raffaele Bonanni, oltre a tanti boiardi di Stato – sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni».

Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari, che, come i profeti biblici, non dà voce a chi non ce l’ha. E che non comprenda una sana cultura dell’ozio, per esempio del tempo che si può dedicare ai figli e alla famiglia”.

Il capitalismo di oggi non comprende il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti. Ma forse anche la nostra società non lo vede lottare abbastanza nei luoghi dei diritti del non ancora, nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro, tra gli immigrati, i poveri”.

Fino al lapidario a volte la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti”, che è sembrato a tutti una fotografia impietosa del sindacato italiano, più che un rimbrotto morale.

Ecco, se Papa e Confindustria sono dovuti arrivare a questo punto, è segno che i sindacati complici non sono percepiti più – da decenni – come un “nemico”, ma neanche come qualcosa di economicamente utile. Erano diventati così per imbrigliare una combattività di massa che faceva salire troppo velocemente i salari, erodendo i profitti. Dopo un quarto di secolo di eroina iniettata nelle vene del conflitto di lavoro, il risultato raggiunto è l’eccesso opposto.

Ma la constatazione – o la domanda – è altrettanto semplice: quei gruppi di venduti seduti ai vertici del sindacato complice non sono in grado di cambiare natura, abito mentale, postura personale. Inutili sia ai lavoratori che alle imprese. 

E’ il destino dei “moderati”, quello di arrivare sempre dopo.

Catalogna indipendente, ora! Intervista a Iranzo e Vehi


Fra il 19 e il 21 di giugno, diverse realtà politiche italiane, Noi Restiamo, Genova City Strike, Rete dei Comunisti, Militant, CUMA e Cortocircuito, Zenti Arrubia hanno ospitato una serie di iniziative dal titolo “Catalunya Ara!” (Catalogna ora!), per parlare del processo politico indipendentista della Catalogna, che avrà come prossima tappa il referendum unilaterale per l’indipendenza il 1 ottobre. In questa quattro giorni di iniziative, partita a Torino e proseguita a Genova, Bologna e Roma, hanno partecipato due ospiti direttamente da Barcellona, un rappresentante della SEPC (Sindacato degli studenti catalano) e della CUP (Candidatura d’unità popolare). Pubblichiamo qui l’intervista realizzata da Radio Città Aperta a Icar Iranzo (SEPC) e a Mireia Vehì, deputata della CUP.

Buon pomeriggio a tutti. Abbiamo con noi ospiti oggi Mireia Vehì, deputata della Cup al Parlamento catalano e Icar Iranzo della Sepc. E’ con noi anche Marco Santopadre, della Rete dei Comunisti. Buon pomeriggio a tutti.

Buon pomeriggio.

Con loro vogliamo parlare di cosa sta accadendo in Catalogna e anche cosa si può pensare che accadrà, in previsione del referendum sull’indipendenza che è stato annunciato per il primo ottobre. Icar, puoi farci un quadro intanto della situazione?

Certo. Innanzitutto grazie per averci invitato. Rispetto a quello che è il processo di indipendenza della Catalogna dobbiamo pensare che è un processo che inizia, più o meno, nel 2009, con le consultazioni popolari organizzate in diversi paesi che hanno fatto agglutinare le forze politiche pro-indipendentiste e le hanno portate all’avanguardia politica. Ha avuto anche un altro elemento fondamentale che è stato la soppressione dell’Estatut, la legge sull’autonomia più importante in Catalogna, da parte della Corte Costituzionale che è una Corte influenzata politicamente dal governo. Tutto questo più la gestione economica dello stato spagnolo negli ultimi anni, dall’inizio della crisi, questa gestione economica neo-liberale, ha portato buona parte del popolo catalano a identificare lo stato spagnolo come un soggetto oppressore, un ente, uno stato centralizzatore, che minaccia i diritti sociali, i diritti del popolo e tutto questo per assicurare i privilegi delle èlite statali, delle borghesie spagnole e anche degli establishment ed èlite europei. Dal 2010 a oggi, ogni 11 settembre, 1,5-2,5 milioni di persone sono scese in piazza in diversi modi per chiedere ai propri rappresentanti politici catalani una risposta. Questo vuol dire che più o meno un 20% della popolazione del nostro paese è stata mobilitata in maniera massiccia. Tutto questo terremoto politico ha fatto muovere l’establishement politico catalano, che si è visto costretto a tenere il passo con questa società mobilitata e ha dovuto cambiare buona parte dei suoi discorsi, della sua retorica e anche delle sue posizioni politiche che, storicamente sono sempre state catalaniste ma non indipendentista o più orientate al compromesso con lo stato per ottenere qualche migliora più o meno sostanziale. Noi riteniamo che i lavoratori catalani sono stati la forza motrice di questo processo che sebbene la borghesia ha avuto, e ancora ha, la capacità di influire non riesce a controllare tutto questo movimento politico popolare anche perché l’alta borghesia catalana sviluppa i suoi rapporti commerciali, i suoi rapporti di classe con l’alta borghesia dello stato spagnolo e anche la borghesia basca. Per questo un’irruzione di un movimento politico che vuole rompere con lo stato spagnolo per loro è piuttosto un problema che un’opportunità. Noi crediamo che questo processo, che come sapete è stato portato dalla mano del popolo, è una delle rotture più grandi che si stanno svolgendo in Europa, è un attacco frontale allo stato spagnolo, che noi riteniamo essere ancora una monarchia nata dal regime di Franco, che non ha avuto nessun processo di epurazione di responsabilità politiche, dove i magistrati, le istituzioni poliziesche ancora sono le stesse, dove la corruzione è impunita e anche premiata, e dove sono state portate avanti delle politiche neo-liberali che sono state cattivissime per la nostra popolazione. Dopo questi anni, più di 5 anni di manifestazioni continue, il governo chiama ad un referendum non vincolante che si svolge il 9 novembre del 2014, dove 2.305.290 persone vanno a votare, quindi più o meno un 40% delle persone con diritto di voto. E i risultati sono abbastanza chiari, sebbene la domanda era un po’ confusa. La domanda era: volete che la Catalogna sia uno stato? Sì o no. E, in caso affermativo: volete che questo stato sia uno stato indipendente? E i risultati danno 91,1% dei voti al primo sì e anche un 80,9% dei voti al secondo sì. Con questo referendum riteniamo che c’è legittimità di avanzare in questo processo di rottura con lo stato spagnolo, ma che [per poterlo fare, ndr] ci saremmo dovuti esprimere anche in forma legale [attraverso un riconoscimento legale del risultato, ndr]. Per questo che si chiama una elezione plebiscitaria in Catalogna dove due colazioni, diciamo indipendentiste, si accordano su un punto in comune che è portare la Catalogna verso una rottura con lo stato spagnolo entro la prossima legislatura. Queste due coalizioni sono Junts pel Sì, che è una coalizione trasversale che va dal centrodestra, dalla destra liberale nazionalista al centro sinistra socialdemocratico e tante altre persone un po’ del campo politico e culturale un po’ indipendente, e un’altra coalizione che è la Cup, la candidatura di unità popolare, che come molti di voi sanno, si dichiara apertamente anticapitalista, anti europeista e anche femminista. Queste due coalizioni indipendentiste agglutinano un 62 dei 135 seggi del parlamento, mentre le candidature non indipendentiste ne hanno 52 su 135. Con questo risultato riteniamo che il parlamento catalano ha una maggioranza indipendentista chiara e quindi un mandato di rottura diretta con lo stato. In questa legislatura, poi la compagna Mireia ci può spiegare meglio, hanno portato avanti la creazione di strutture statali e anche la costruzione di un referendum, questa volta veramente vincolante. Abbiamo visto che la posizione dello stato spagnolo fino adesso è stata molto chiara, di rifiuto frontale, di non voler neanche parlare dell’opportunità di fare un referendum legale, nonostante i ripetuti tentativi del governo e della popolazione catalana di raggiungere un accordo. La sua strategia invece è solo quella della repressione, sia di bassa che alta intensità, nei confronti dei rappresentanti indipendentisti democraticamente eletti e anche verso i movimenti popolari. Con questa situazione che viviamo adesso, come sapete, poco tempo fa è stato indetto un nuovo referendum il 1° ottobre, che sarà un referendum unilaterale, perché la posizione dello stato spagnolo è molto chiara rispetto a questo, e anche vincolante. Il 1° ottobre noi riteniamo che possano succedere alcune situazioni un po’ complicate, come potrebbe essere la sospensione dell’autonomia catalana da parte del governo spagnolo, o anche l’azione diretta per impedire il voto della popolazione da parte di certi settori della polizia o dell’esercito spagnolo. Comunque il popolo catalano si è organizzato con diverse organizzazioni di massa e siamo tutti disposti e tutti pronti a mettere in campo tutto quello che sia necessario per portare avanti il nostro diritto di autodeterminazione e rispondere a questo atteggiamento antidemocratico dello stato spagnolo.

Vorrei chiedere a Mireia Vehì, deputata della Cup, di spiegarci – anche se brevemente – cosa significa l’autonomia che c’è ora nella regione catalana.

Come diceva già Icar, nel ’78 non c’è stata una rottura con il franchismo, c’è un patto tra diverse èlite che porta ad un passaggio di poteri, ma non a una rottura. Quindi non solo non c’è stata una rottura dal punto di vista delle istituzioni politiche, giudiziarie o di polizia, ma c’è stato anche un ridisegno dello stato con un intervento sui territori che all’epoca venne definito «il caffé per tutti», cioè una creazione di varie entità territoriali. Per noi il regime del ’78, il regime uscito dall’autoriforma del regime del ’78 genera un livello di corruzione strutturale, che quindi non è legata a singoli episodi, a singoli uomini politici ma fa parte della gestione dello stato. Un regime che di fatto impedisce la partecipazione popolare quindi prevede istituzioni che sono legittimate al di là della legittimità popolare, attraverso una legge che di fatto è fatta apposta per sostenere il bipartitismo e per impedire l’irruzione nelle istituzioni di forze politiche che possono realmente rappresentare gli interessi popolari o dei territori. Questo regime del ’78 sostiene, di fatto, il potere, il dominio vero e proprio di ambienti finanziari che non sono degli ambienti fantasmagorici, sono degli ambienti reali, concreti, di èlite finanziarie spagnole che fanno il bello e il cattivo tempo. Il regime del ’78 ha generato la rottura, la partizione, di un’entità territoriale storica, politica, culturale ed economica che noi riconosciamo come paesi catalani di cui la Catalogna è una delle parti insieme al paese valenziano, alle isole Baleari e alla Catalogna del nord, cioè quella sotto amministrazione francese. Ovviamente esiste un certo grado di autonomia, però l’autonomia concessa al parlamento, al governo catalano, non possono intervenire sul piano legislativo quasi mai. In realtà quando questo accade c’è il Tribunale costituzionale spagnolo che interviene, ad esempio sulla legge per il diritto alla casa, che fu votata, varata dal governo catalano ma che poi venne sospesa dal Tribunale costituzionale perché ogni volta interviene su quelle leggi catalane che ritiene eccedenti rispetto al grado di autonomia che lo stato spagnolo riconosce alla Catalogna. Oltretutto c’è un fatto. Che storicamente, negli ultimi decenni, da quando esiste l’autonomia non c’è mai stato un governo progressista. Il governo è nelle mani della destra catalana che, ovviamente, difende i privilegi fiscali, difende i privilegi economici e quindi c’è un doppio impedimento ad una reale autodeterminazione, ad una reale autonomia di fatto. Nell’ultima legislatura il tema è stato cercare di attaccare i privilegi fiscali e i privilegi economici delle èlite, delle classi alte. Non ci si è riusciti e per la Cup, che è un partito, una coalizione apertamente anticapitalista, ovviamente è un limite che quello scarso grado di autonomia che teoricamente esiste, in realtà non si possa neanche mai raggiungere a pieno perché ci sono impedimenti di carattere politico a priori, quindi una sorta di blindatura su certi temi, temi importanti.

Una cosa che prima ha detto Icar sulla Cup. Le caratteristiche anticapitaliste e poi ha parlato di femminismo. In che senso?

La Cup è un progetto politico che sta partecipando nelle istituzioni, è presente nelle istituzioni in diversi gradi, ma è un movimento eminentemente municipalista, che – come dicevamo – sono 30 anni che porta avanti le sue battaglie. Ovviamente per noi il livello istituzionale è uno dei tanti livelli di battaglia politica come il movimento studentesco, il movimento popolare e altri movimenti però sappiamo che il livello istituzionale è un campo di gioco truccato, perché è blindato dalle èlite. Abbiamo tre grandi assi di intervento. Uno sono le istituzioni, un’altra è il movimento popolare poi l’asse delle istituzioni propria, cioè di contro istituzioni attraverso le quali costruire non solo l’intervento politico ma anche l’intervento culturale, il tempo libero, il divertimento, l’identità, quella che è una rete capillare di atenei e casali, che sono poi le denominazioni di queste strutture territoriali. La Cup, come diceva prima Mireia Vehì, è una parte dell’ampio movimento popolare indipendentista, è una formazione apertamente anticapitalista, e una delle campagne più forti che le municipalità gestite dalla sinistra indipendentista catalana sta portando avanti è quella per il recupero, per la municipalizzazione dei servizi pubblici locali, che sono stati privatizzati durante gli anni. Ha citato l’acqua, l’elettricità, la pulizia, le nettezza urbana che essendo considerati beni pubblici si pretende che vengano ripubblicizzati come meccanismo di riconsegna ai cittadini e ai lavoratori di un bene pubblico di cui si è appropriato il capitale. Il femminismo è una caratteristica, un segnale di identità non solo della sinistra indipendentista dei vari fronti come quello studentesco, giovanile ecc. ma di tutto il movimento popolare catalano. La logica è semplice e complessa allo stesso momento, perché per noi l’obiettivo è recuperare sovranità popolare su tutto, rimettere la vita al centro, quindi eliminare il dominio del capitale o della logica di produzione, sviluppare eguaglianza tra tutti e tutte e decidere liberamente chi amare in casa o nella strada, permettere a chiunque di sviluppare la propria identità sessuale, quindi una liberazione completa. La logica del recupero della sovranità su tutti i livelli della vita stiamo cercando di svilupparla nel livello municipale attraverso campagne per la sovranità alimentare o per il recupero dell’acqua, perché noi pensiamo che debba essere la cittadinanza a decidere, che la vita debba entrare all’interno delle istituzioni, che non devono esserci spazi escludenti, chiusi, perché la politica – secondo noi – deve essere al servizio della vita e del benessere delle persone, quindi un po’ come la logica del buen vivir anima alcune delle esperienze progressiste in America Latina, quindi a noi piacerebbe essere gli zapatisti del Mediterraneo.

Per chiudere, volevo chiedere a Icar, intanto il Sepc... che io ho come sindacato studentesco dei paesi catalani. E’ così? Siete diffusi in zone diverse?

Sì. Il Sepc è un sindacato impiantato in quasi tutte le università pubbliche dei paesi catalani e anche in tantissime licei, in tantissime scuole tecniche. E’ stato e vuole essere ancora uno degli agenti politici più importanti nel processo per l’indipendenza. Per esempio adesso si è lavorato per una campagna che si chiama “Università per il referendum”, dove si è provato ad agglutinare diversi professori, capi dell’università, studenti, lavoratori di tutte le università catalane pubbliche, nella domanda comune di portare avanti un referendum per questioni meramente democratiche, per questioni meramente del nostro diritto alla sovranità.

Non so se vuoi aggiungere qualcosa Mireia. Volevo chiedere circa gli incontri di questi giorni in Italia. Il 21 giugno a Bologna, il 22 a Roma. Come è andata?

Per noi è un piacere, è un’opportunità poter spiegare a militanti di sinistra di altri paesi, al di fuori della Catalogna e dello stato spagnolo, cosa succede da noi, che la nostra non è una lotta per il nazionalismo ma per l’autodeterminazione e dare anche il nostro punto di vista sulla situazione dell’Unione europea che secondo noi è un’istituzione che sta andando sempre più a destra e alla quale i catalani oppongono questo progetto che fa dell’indipendenza un punto centrale. Perché? Perché noi pensiamo che l’internazionalismo sia dare il proprio contributo nel proprio contesto, nella propria situazione, liberando se stessi e in questo modo dando anche un contributo alla liberazione generale.

Noi ringraziamo sia Mireia Vechì, deputata della Cup che Icar Iranzo della Sepc.

Fonte

Polizia assassina


Milano. Casapound provoca in Comune e fuori, la polizia li protegge



Nuova provocazione di Casapound, questa volta a Milano. Nuova copertura poliziesca, senza alcuna remora o vergogna, sotto lo sguardoi di cento telecamere.

Gli esponenti di CasaPound, una quindicina, avevano fatto irruzione in Consiglio comunale per protestare contro il sindaco, Beppe Sala, all’urlo di “Dimissioni, dimissioni”. Se erano infilati nello spazio riservato al pubblico, e da lì hanno cominciato lanciare volantini.

Fuori palazzo Marino, in piazza della Scala, stavamno intanto manifestando numerosi esponenti di ‘Nessuno è illegale’, Usb e altre organizzazioni antifasciste in favore dell’accoglienza ai migranti.

Quando i fascisti sono stati amichevolmente accompagnati fuori dall’aula, si sono incrociati con gli antifascisti e hanno messo subito in atto un’aggressione.

La polizia in tenuta antisommossa, che presidiava l’ingresso del Comune, è intervenuta con i manganelli scegliendo ovviamente le teste e le braccia dei compagni.

Il breve commento postato da chi era presente non lascia spazio a incertezze:
Dopo che un gruppo di fascisti di Casa Pound ha cercato di interrompere il Consiglio comunale la polizia li ha accompagnati graziosamente fuori dall’aula ma nel percorso hanno incrociato una delegazione di migranti, USB e Nessuno è illegale.

I fascisti hanno aggredito i compagni sotto la completa copertura della.polizia che ha poi continuato a proteggerli fuori da Palazzo Marino dove si trovava il Presidio di circa 200 compagni.
Riteniamo improrogabile chiedere con forza le dimissioni del Questore di Milano.

Basta con i fascisti, basta con chi li copre!
La cronaca da Radio Onda d’Urto

Ore 19.05: il racconto di Luciano Muhlbauer, compagno milanese che faceva parte della delegazione aggredita dentro Palazzo Marino. Un compagno, colpito da alcuni pugni, è al Pronto Soccorso del Policlinico. Ascolta o scarica qui

Ore 19: i fascisti continuano a provocare, difesi dai cordoni di polizia, dopo essere usciti da una uscita secondaria di Palazzo Marino. Gli antirazzisti rimangono in presidio davanti agli ingressi . Ci racconta la situazione sempre Marita.Ascolta o scarica

ORE 17.45 – Mentre una delegazione di Nessuna persona è illegale entrava, autorizzata, a Palazzo Marino, ha incrociato un gruppo di fascisti di Casapound, espulsi dall’ala del pubblico del Consiglio comunale dove avevano cercato di esporre uno striscione. Dentro momenti di forte tensione, con la polizia che si è schierata però contro il presidio antirazzista. L’appello è quello di recarsi a Palazzo Marino. Con noi Marita, nostra corrispondente da Milano. Ascolta o scarica qui

ORE 17 – Presidio a Milano, in piazza della scala organizzato dalla rete nessuna persona è illegale in concomitanza con i lavori del consiglio comunale.

Era il 20 maggio quando 100 mila persone scesero in piazza per una città senza muri e in cui nessuna persona è illegale. In piazza era presente anche il sindaco Sala. Ora a distanza di oltre un mese servono azioni concrete a partire dalla residenza anagrafica.

Il comune può dare la residenza a tutte le persone che abitano a Milano, applicando la facoltà di derogare l’art 5 del piano casa e mettendo a disposizione la casa comunale e i consigli di zona come residenze fittizie per chi non ha una fissa dimora. Centinaia le persone, famiglie e bambini che per la legge scompaiono e che non hanno accesso nemmeno alla sanità e all’istruzione. Da qui la richiesta del presidio di questo pomeriggio: concedere a tutti la residenza, un primo passo per abbattere il muro dell’indifferenza e della discriminazione sociale.





Fonte

L’università come fabbrica di disuguaglianze

Dopo gli approfonditi contributi dei colleghi Giovanni Colombo e Andrea Stella al dibattito sui test d’ammissione avviato con l’articolo di Ferdinando Camon, vorrei proporre una riflessione da un punto di vista diverso, partendo dall’art. 34 della Costituzione, che dice: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Una formulazione semplice e apparentemente impeccabile, ma che oggi richiede di riflettere più a fondo su questa parolina, “meritevoli”. Possiamo farlo a partire da un recente libro dell’economista americano Robert Frank, Success And Luck, che ha per sottotitolo Good Fortune and the Myth of Meritocracy, dove troviamo una lunga serie di analisi del ruolo della fortuna nel successo personale, in tutti i campi.
 
Per esempio, il 40% dei giocatori professionisti di hockey nel mondo è nato in gennaio, febbraio o marzo, mentre solo il 10% è nato tra ottobre e dicembre. Perché? Il predominio dei giocatori nati nel primo trimestre dell’anno dipende dal fatto che i test nelle leghe giovanili vengono fatti il 1° gennaio. Questo significa che quest’anno, per esempio, sono stati selezionati per entrare in squadra i ragazzini nati fra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2000: ma tra i sedicenni c’è una differenza significativa nel peso, nell’altezza, nella velocità di chi ha 12 mesi di più (i nati il 1° gennaio 2000) e chi ha 12 mesi di meno (i nati il 31 dicembre 2000). Chi ha 12 mesi in più non è “più bravo”, è semplicemente “più adulto” a confronto con compagni di squadra che il caso ha fatto nascere qualche mese dopo di lui.

Per un fenomeno ben noto agli economisti che si chiama positive feedback loop (ovvero fattori positivi che si rafforzano l’un l’altro), i nati il 1° gennaio appaiono agli allenatori più forti e più promettenti, quindi ricevono più attenzioni, fanno più esperienza, il che si traduce in effettivi miglioramenti: diventano più bravi non grazie al talento naturale (che ci vuole) o alla dedizione allo sport (obbligatoria) ma grazie alla data di nascita. O, meglio, grazie al circolo virtuoso che talvolta essa innesca: ci sono molti altri studi sul rapporto tra risultati scolastici e data di nascita.

Secondo l’economista Branko Milanovic, che in libri come Worlds Apart e Income and Influence ha analizzato il luogo di nascita e la disuguaglianza come fattori determinanti nelle opportunità di carriera di una persona, metà delle differenze di reddito individuali dipendono da questi elementi casuali. Il tema è stato affrontato anche da Robert Putnam nel suo ultimo libro, Our Kids, dove descrive i percorsi di vita di alcuni suoi ex compagni di scuola, nati come lui a Port Clinton, in Ohio, ma assai meno fortunati di lui nelle loro carriere.

Prendiamo il caso di Bill Gates, l’uomo più ricco del mondo con i suoi circa 89 miliardi di dollari di patrimonio personale. Robert Frank si occupa di lui perché è nato nel 1955 ed è andato alle superiori esattamente nel momento – la fine degli anni Sessanta – in cui i computer abbandonavano le schede perforate e iniziavano a diventare delle macchine più “amichevoli”. Il talento e la determinazione di Gates non avrebbero dato gli stessi risultati se la famiglia non lo avesse iscritto a una scuola privata dove gli studenti avevano un accesso illimitato ai computer e potevano esercitarsi nella programmazione, cosa allora rarissima. Senza queste condizioni di partenza, forse Gates si sarebbe dedicato ad altro, o la sua passione per l’informatica non avrebbe dato come risultato la Microsoft: ha avuto una dose di fortuna che molti altri piccoli geni dell’informatica, altrettanto intelligenti e meritevoli, non  hanno avuto.

Perché è importante guardare alla fortuna e alla provenienza familiare quando si discute dei test? Perché la gran parte degli atenei opera sulla base di considerazioni come questa del prof. Giovanni Colombo: “I nostri test [dell’area scientifica NdR] sono stati ampiamente validati dall’analisi della carriera degli studenti: la correlazione tra l’esito della prova di ammissione e quello degli esami del primo anno è fortissima, ad esempio molto più alta del voto di maturità”.

Purtroppo, questa correlazione non significa nulla sul piano dell’equità: chi viene da un ambiente familiare e scolastico privilegiato farà meglio nel test così come negli esami del primo anno, che si svolgono nove mesi dopo. Se ho passato i primi 19 anni di vita in una casa con una tata svizzera, dove si leggevano molti libri e giornali, con dei genitori che mi portavano al cinema, al museo, in vacanza a Parigi o in gita a New York e mi facevano prendere lezioni di piano è assolutamente certo che farò bene nel test di logica e di cultura generale. Per esempio saprò rispondere esattamente alle domande su quale città abbia ospitato l’Esposizione universale del 1900 (Parigi), su cosa fosse il piano Marshall (un programma di aiuti americani all’Europa) e sull’oscuro quotidiano italiano Il Riformista (nato nel 2002 e chiuso nel 2012). Questi esempi sono tratti dai test di medicina 2015 e 2016. Probabilmente farò bene anche nei test di matematica e biologia, a meno di non essere totalmente inetto o il più pigro degli 80.843 candidati dell’anno scorso.

Prendere in conto il fattore fortuna e provenienza familiare nelle politiche di accesso all’università significherebbe, per esempio, cercare delle strategie per attenuare le inevitabili differenze ponendosi il problema di aiutare chi è nato sulla Sila (Calabria) anziché in via del Santo (Padova), chi va a scuola a Scampia (Napoli) invece che in via della Spiga (Milano). A dire la verità, qualcuno a suo tempo ci aveva pensato: nella Costituzione sta scritto (art. 3): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Non ho ricette dettagliate da proporre: l’intera questione andrebbe ripensata. L’anno scorso l’ex rettore di Bologna Ivano Dionigi aveva dichiarato: “Il test non basta. Credo che un colloquio sarebbe importante, ma per 10.000 ragazzi vorrebbe dire strutture, personale, laboratori, risorse, investimenti che non ci sono. Quello del test è un ripiego frettoloso da scuola-guida che serve a lavarsi la coscienza e a risparmiare. Laddove la scuola fosse la priorità allora ci sarebbero un colloquio, una prova scritta, il test, e si terrebbe conto del curriculum dello studente”.

Avendo ben presente lo stato in cui i successivi governi hanno ridotto i nostri atenei, e la difficoltà per concepire e mettere in atto soluzioni alternative, dico comunque che il “ripiego frettoloso da scuola guida” offerto dai soli test non è accettabile: qualsiasi politica pubblica, quindi anche quelle dell’università, deve obbedire al precetto costituzionale di rimuovere gli ostacoli che limitano o negano il pieno sviluppo della personalità di molti giovani. Se non lo facciamo, limitandoci ad ammettere chi fa bene in un test che, per sua natura, privilegia chi è già privilegiato rafforziamo le disuguaglianze, sprechiamo talenti nascosti, tradiamo lo spirito della Costituzione.

Telegraph – Perché la Germania si sta preoccupando dell’impatto di una “hard Brexit”

Un articolo del Telegraph spiega perché una Brexit “dura”, spesso associata all’idea di un atteggiamento punitivo da parte europea, è inverosimile. Recenti studi mostrano che il crollo della domanda di automobili tedesche in caso di nuove barriere doganali sarebbe comparabile solo a quello prodotto dalla crisi finanziaria del 2008. Benché l’impatto di una Brexit caotica sarebbe complessivamente più pesante per il Regno Unito che per la UE, almeno in termini relativi, il fatto che il danno si concentri su gruppi d’interesse potenti come le case automobilistiche tedesche rende altamente improbabile un esito del genere.

di Allister Heath, 23 giugno 2017

La Brexit potrebbe essere una notizia terribile per l’industria automobilistica – per l’industria automobilistica tedesca, voglio dire. Il colpo inferto da una soluzione di “nessun accordo”, cioè la cosiddetta “hard Brexit”, caratterizzata da una reintroduzione dei dazi sulle importazioni previsti dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio, potrebbe essere per le case automobilistiche tedesche catastrofico quanto lo è stato l’impatto della crisi finanziaria e portare a una massiccia riduzione del surplus commerciale tedesco, nonché a un gigantesco taglio di posti di lavoro, proprio nell’industria tedesca di punta, che risulterebbe politicamente traumatico. Questo, almeno, è il messaggio di uno studio sconvolgente pubblicato dalla agenzia tedesca della Deloitte, servizio di gestione del business che presumibilmente incoraggerà entrambe le parti a raggiungere un accordo sulla necessità di mantenere il libero commercio dopo che il Regno Unito avrà lasciato l’Unione Europea.

Certo, l’imposizione di barriere al commercio tra Regno Unito e Unione Europea sarebbe una notizia terribile anche per il settore manufatturiero britannico e per i consumatori del Regno Unito. È necessario evitare una guerra commerciale: il protezionismo è una politica dissennata ed economicamente analfabeta, che impoverisce tutti. Non c’è motivo di credere che un paese indipendente non possa commerciare liberamente; anche se usciamo dal mercato unico e dall’unione doganale non c’è alcuna ragione per la quale non si possa mantenere un commercio completamente libero tramite una combinazione di misure di transizione prima e un accordo di libero scambio dopo.

Ma fino a oggi le ricerche delle aziende della City si sono focalizzate troppo esclusivamente sul danno che verrebbe alla Gran Bretagna dall’innalzamento di barriere protezioniste. È dunque positivo vedere che ora anche gli europei stanno iniziando a valutare quanto verrebbero danneggiati se le trattative degenerassero nel caos. La parte britannica è ben consapevole dei potenziali svantaggi della Brexit (ma ne vede anche, abbastanza opportunamente, i vantaggi) mentre gli europei, finora, hanno preferito non considerare il problema. Un cambiamento di percezione è fondamentale per ridurre il rischio che una UE troppo arrogante faccia la voce grossa durante le trattative e le faccia saltare.

Georgia Bachti di Open Europe ha tradotto e riassunto i risultati di Deloitte in una nota sul loro sito web. I consulenti ipotizzano l’introduzione di un dazio del 10% sui veicoli da entrambe le parti. La sterlina scenderebbe del 10% – ma il report non ipotizza altri controlli doganali o barriere non tariffarie, come le norme sull’origine, e dunque non considera la peggiore delle ipotesi possibili.

Deloitte ritiene che le case automobilistiche dell’Unione Europea perderebbero 8,3 miliardi di euro all’anno di ricavi, di cui 6,7 miliardi solo da parte tedesca. Nei primi 12 mesi dopo l’uscita le esportazioni di automobili tedesche verso il Regno Unito crollerebbero di 255.000 unità, il che significa una discesa del 32%, con 18.000 posti di lavoro nel settore automobilistico tedesco messi a rischio. Nell’insieme, la produzione tedesca di auto scenderebbe a 2,28 milioni di unità, rispetto ai 3,07 milioni del 2016, e vicino ai 2,19 milioni che si videro nel 2009, all’apice della crisi, secondo Bachti di Open Europe. Volkswagen, BMW e Daimler sarebbero tutte colpite.

È vero che, considerando tutte le industrie, la UE è un mercato proporzionalmente più grande per il Regno Unito di quanto il Regno Unito lo sia per la UE. Ma nella pratica questa non è una circostanza molto pertinente. Non è sicuramente così che funziona la politica: la concentrazione di perdite per un piccolo numero di gruppi lobbistici molto potenti – case automobilistiche tedesche, produttori agroalimentari francesi e così via – implica che i politici europei, se non riusciranno a trovare un accordo di libero scambio con il Regno Unito, saranno investiti da una ben organizzata ondata di collera. Lo vediamo sempre, nel mondo politico: ciò che conta non è tanto l’ampiezza complessiva dei fenomeni economici, quanto il potere di determinati gruppi di interesse.

Questo è il motivo per il quale sono ottimista, ad esempio, su un accordo tra Regno Unito e UE nell’ambito delle linee aeree: l’impatto complessivo in termini di PIL potrebbe essere contenuto, ma un gran numero di piccoli aeroporti francesi salterebbero immediatamente per aria in assenza di un accordo, devastando piccole città e paesi che contano sul turismo. Le campagne francesi hanno un ruolo importante nella politica in Francia, come si può vedere dalla dimensione dei sussidi che vengono elargiti, dalle nuove autostrade e dalle stazioni di treni ad alta velocità.

È per questo che non credo all’opinione corrente che implica che l’establishment politico tedesco potrà semplicemente ignorare l’industria più potente del paese. I progressi di Angela Merkel nei sondaggi e le possibilità che essa possa formare una coalizione col piccolo partito liberale FDP anziché col più grande Partito Socialdemocratico implica, paradossalmente, che sarà costretta ad ascoltare con più attenzione la propria base elettorale.

Nel frattempo il crescente settore automobilistico britannico sta diventando sempre più autosufficiente, il che implica che sta crescendo la sua capacità di resilienza di fronte a eventuali interruzioni nella catena di forniture. Come ha mostrato il mio collega Alan Tovey, l’Automotive Council calcola che il 44% delle parti usate per costruire le 1,7 milioni di automobili prodotte in Gran Bretagna lo scorso anno era di origine nazionale, in crescita dal 36% del 2011 e dal 41% del 2015. I numeri sono comunque inferiori al 60% circa che denoterebbe un’industria realmente in salute, ma si tratta comunque di un buon progresso.

Una Brexit in stile “muro contro muro” non è nell’interesse di nessuno e avrebbe conseguenze economicamente disastrose. Il Regno Unito e la UE avrebbero entrambi da guadagnare da un adeguato accordo di libero scambio post-Brexit, che dovrebbe essere la prima priorità di qualsiasi gruppo lobbistico in questo momento (piuttosto che cercare di rovesciare l’esito del referendum o tentare di aggrapparsi a soluzioni fallimentari come le unioni doganali). È certamente tempo che le aziende del continente, così come quelle irlandesi, alzino la voce e dicano ai loro referenti a Bruxelles, Berlino, Parigi, Madrid e Roma che vogliono un commercio libero, non ostentazioni politiche.

Fonte

Una testimonianza tutta interna all'universo capitalista, che ha tuttavia il pregio di mostrare le contraddizioni in cui, anche in caso nostra, ci si potrebbe accasare ed acuire, perseguendo interessi diametralmente opposti a quelli del capitale ovviamente. 

Astensionismo

Il dibattito in corso nell’immediato post – ballottaggi al riguardo delle elezioni comunali del giugno 2017 ha raggiunto livelli di bizantinismo degni del Concilio di Nicea. Una volta per tutte deve essere chiarito che il livello delle diverse espressioni di “non voto” (diserzione dalle urne, schede bianche e nulle) ha raggiunto una tale entità da rendere perfettamente inutile il ragionare se, nell’occasione del secondo turno, le elettrici e gli elettori che al primo turno avevano preferito candidati poi esclusi (in particolare elettrici ed elettori votanti i candidati presentati dal M5S) si fossero poi rivolti a candidati del centrodestra o del centrosinistra. In realtà, toccando i voti validi la quota del 43% (dopo che al primo turno di si era arrivati al 54%) non si può che dedurre che, in ogni caso, la quota di questi scostamenti è stata minima e del tutto irrilevante sul piano dell’analisi elettorale complessiva (che poi nel tal posto o nel tal altro si sia eletto un sindaco di un colore o di un altro costituisce un fatto che, sul piano generale, è del tutto secondario). Si può quindi affermare che la gran parte dei successi ottenuti dai candidati eletti sia avvenuto “in discesa” e con percentuali complessive rispetto al totale degli aventi diritto al voto fortemente minoritarie.

Il punto più importante che deve essere però messo in evidenza in questa occasione riguarda il fatto che il “non voto” appare in costante crescita da molti anni e che nessuna forza politica, tanto meno il M5S, ha rappresentato una sorta di “argine” al fenomeno che, invece, si è fortemente dilatato in tutti i settori sociali, generazionali, di appartenenza geografica che compongono l’universo degli aventi diritto al voto. Nel corso degli ultimi 10 anni, per prendere come riferimento un lasso di tempo definito, l’unica occasione nella quale la percentuale dei votanti è cresciuta rispetto alle precedenti occasioni di voto è stata quella del referendum costituzionale del 4 Dicembre 2016.

A proposito di questo fatto siano consentite tre considerazioni a margine:

1) Dai sostenitori del “SI” (nella loro arroganza e presunzione: fenomeni che stanno in buona misura alla base degli insuccessi del PD) è stato fortemente sottovalutato il formarsi di una vera e propria “coalizione sociale” nell’occasione del referendum sulle trivelle svoltosi pochi mesi prima senza raggiungere il quorum. In quel frangente, infatti, si consolidò (in particolare in alcune regioni del centro – sud) una sorta di fronte del “NO” trasversale e soprattutto comprendente quote rilevanti di astensionisti ormai abituali che hanno poi formato, anche in maniera inconsapevole, un vero e proprio “zoccolo duro” sulla base del cui allargamento ha poggiato, in parte consistente, l’affermazione del “NO” al 4 dicembre;

2) Al riguardo della vera e propria “fuga” di elettrici ed elettori che, negli anni passati, avevano votato per il PD e più complessivamente per l’autoproclamatosi (senza alcun titolo di contenuto, per la verità) centro sinistra, i dirigenti del PD hanno del tutto ignorato il forte calo di partecipazione alle “loro” primarie. Renzi, infatti, è stato confermato segretario con poco più di 1 milione di voti (altro che i 2 milioni rivendicati da Lotti) perdendo rispetto all’occasione precedente circa 600.000 voti. Un segnale molto importante ma non raccolto;

3) Nel corso della campagna referendaria si svilupparono, sempre da parte della maggioranza renziana del PD, forti polemiche nei confronti dell’Anpi che si era schierata (con la Cgil e l’Arci) per il “NO”. Una polemica che raggiunse toni particolarmente astiosi e fastidiosi in particolare con la faccenda, piuttosto ridicola, dei “veri partigiani”. Sicuramente, alla fine, si poté constatare che attorno al “NO” i cosiddetti “corpi intermedi” svolsero sicuramente una funzione aggregante di una certa importanza. Ebbene, nel corso di questa campagna elettorale, a Genova (città che sempre aveva presentato determinate caratteristiche sociali e politiche, oggi ormai in gran parte smarrite) gli stessi corpi intermedi hanno preso posizione a favore del candidato appoggiato del PD (il quale soggettivamente vantava anche profonde radici nell’area di riferimento di Anpi, Arci e Cgil). Ebbene: il risultato è stato di un rigetto quasi totale, come dimostrato dall’esito del voto dove, l’influenza di questi soggetti è sicuramente ancora rilevante. A dimostrazione che il problema, nella fattispecie genovese ma si può pensare più in generale, sia costituito proprio dall’incapacità di aggregazione dimostrata dal PD.

È necessario però approfondire queste affermazioni attraverso l’esposizione di alcuni dati. Tra il 2008 ed oggi abbiamo avuto in Italia tre occasioni di elezioni generali riguardanti l’intero corpo elettorale: 2008, elezioni legislative; 2013, elezioni legislative, 2014 elezioni per i rappresentanti al Parlamento Europeo. Elezioni nelle quali è entrato prepotentemente in corsa il M5S che ha sempre rivendicato di aver corrisposto alla necessità di offrire una sponda ad elettrici ed elettori propensi al “non voto”. Ciò non è assolutamente avvenuto.

Nel 2008, infatti, i voti validi (sul territorio nazionale) furono 36.457.254 su di un totale di iscritte/i (dato relativo soltanto all’Italia senza le circoscrizioni estero) di 47.041.814 per una percentuale del 77,49%.

Nel 2013 il dato dei voti validi (sempre riferito al territorio nazionale) è stato di 34.005.755 (quindi con una perdita di oltre 2.400.000 unità) su di 46.905.154 iscritte/i per una percentuale del 72,49% perdita secca del 5%.

Nel 2014 (Europee) il totale dei voti validi è stato di 27.371.747 (quindi 6.700.000 in meno rispetto all’anno precedente e oltre 9.000.000 rispetto al 2008) considerando però che il rapporto è da valutare con l’intero corpo elettorale compreso l’estero (non registrato a parte in questa occasione) ammontante a 49.256.169 unità per una percentuale del 55,57%.

Dati che ridimensionano molto, per quel che riguarda il 2014, il tanto vantato 40% del PD e che annullano del tutto la funzione “deterrente” vantata dal M5S: paradossalmente, volendo forzare, si potrebbe dire che proprio la presenza del M5S come novità nel panorama politico – elettorale ha causato la fuga di qualche milione di votanti.

La situazione può essere ancora valutata meglio scendendo nel dettaglio di alcune situazioni regionali e locali di particolare significato. Ci si accorgerà che a tutti i livelli e in tutte le situazioni quando si presentano candidati e liste i voti validi decrescono. Alcuni esempi.

Raffronti tra le regionali 2010 e quelle 2015:

LIGURIA
2010 Iscritti 1.385.791 voti validi 813.176 pari al 58,67%.
2015 Iscritti 1.357.540 voti validi 658.171 pari al 48,48%. In fuga 155.005 voti validi pari al 10,19%. Qualcuno dovrebbe far sapere all’inventore del famoso “modello Toti” che nell’occasione della sua elezione i voti validi complessivi alla fine furono inferiori al 50%.

VENETO
2010 iscritti 3.962.272 voti validi 2.540.735 pari al 64,12%.
2015 iscritti 4.018.497 voti validi 2.212.204 pari al 55,05% con un decremento del 9,07%.

TOSCANA
2010 iscritti 3.009.673 voti validi 1.767.409 pari al 58,72%.
2015 iscritti 2.985.690 voti validi 1.367.872 pari al 45,81%; – 12,91%. Anche a Rossi, protagonista della rottura da sinistra del PD, andrebbe comunicato che la sua elezione avvenne con i voti validi al di sotto del 50%.

CAMPANIA
2010 iscritti 4.945.381 voti validi 2.924.360 pari al 59,13%.
2015 iscritti 4.695.599 voti validi 2.400.782 pari al 51,12%. 8,01 in meno nell’occasione dell’elezione di De Luca.

PUGLIA
2010 iscritti 3.553.587 voti validi 2.128.974 pari al 59,91%.
2015 iscritti 3.568.409 voti validi 1.684.669 pari al 47,21%. Anche per l’altro inventore di metodi Emiliano partecipazione al ribasso con un meno 12,70% corrispondente a 444.305 voti validi.

Un raffronto relativo alle elezioni comunali nelle grandi città:

MILANO
2011 iscritti 996.400 voti validi 657.379 pari al 65,97%.
2016 iscritti 1.006.701 voti validi 537.584 pari al 53,40% con un calo del 12,57%: Sala non esattamente un trascinatore, come il suo competitor Parisi

TORINO
2011 iscritti 707.817 voti validi 405.474 pari al 57,28%.
2016 iscritti 659.740 voti validi 382.503 pari al 54,97%. Un calo del 2,31% nonostante ci fosse da votare una candidata M5S.

GENOVA
2012 iscritti 503.752 voti validi 263.849 pari al 52,37%.
2017 iscritti 491.167 voti validi 228.796 pari al 46,58%. Un balzo all’indietro del 5,79% per il “metodo Toti”.

BOLOGNA
2011 iscritti 301.934 voti validi 210.185 pari al 69,61%
2016 iscritti 300.586 voti validi 174.187 pari al 57,94% un meno 11,67

FIRENZE
2009 iscritti 293.173 voti validi 206.494 pari al 70,43%.
2014 iscritti 288.971 voti validi 187.710 pari al 64,99% un calo del 5,44%.

ROMA
2013 iscritti 2.359.119 voti validi 1.203.335 pari al 51,00%.
2016 iscritti 2.363.779 voti validi 1.147.499 pari al 48, 54. Un calo del 2,46% nell’occasione delle candidature dei big Raggi, Giachetti, Marchini.

NAPOLI
2011 iscritti 812.450 voti validi 466.174 pari al 57,37%.
2016 iscritti 788.291 voti validi 403.311 pari al 51,16%. Calo del 6,21% in occasione delle rielezione di un altro inventore di metodi politici come De Magistris.

BARI
2009 iscritti 282.880 voti validi 204.972 pari al 72,45%.
2014 iscritti 279.803 voti validi 178.949 pari al 63,95% un arretramento del 8,50%.

Nella sostanza si può ben affermare che la tendenza al calo molto sensibile della partecipazione al voto rappresenti fenomeno diffuso in tutte le situazioni e occasioni di voto salvo quella referendaria del 2016. Grande attenzione quindi nel celebrare successi e ricercare flussi senza prima tener conto di questo fattore assolutamente determinante e al momento apparentemente incontrovertibile.

Mancano i soggetti politici capaci di produrre progettualità, aggregazione, identità: per quel che riguarda la sinistra, in questo senso, si dimostra la perfetta inutilità dei raduni del 18 giugno e del prossimo 10 luglio incentrati sul tema “alleanze sì, alleanze no” del tutto arretrato rispetto alla drammatica realtà di un sistema che sta progressivamente arretrando nel senso comune di massa e si trova di fronte a contraddizioni, antiche ed inedite, che sembrano proprio irrisolvibili se non nella direzione di costruire altri drammi collettivi e costrizioni sociali.

In ogni caso, con buona pace dell’Istituto Cattaneo il vero flusso da prendere in considerazione all’interno di questo stato di cose è “voto/non voto”.

Di seguito i dati del referendum relativi ai voti validi (dati riferiti al territorio nazionale. Nel totale degli iscritti non sono computati gli elettori all’estero). La comparazione, oltre al dato complessivo, è nello specifico quella con Regioni e Comuni di cui sopra.

Dato nazionale: iscritti 46.720.943 voti validi 31.734.789 pari al 67,92%

LIGURIA regione: iscritti 1.241.469 voti validi 858.448 pari al 69,14%

VENETO (regione) iscritti 3.725.400 voti validi 2.835.027 pari al 76,09%

TOSCANA (regione) iscritti 2.854.129 voti validi 2.1005.777 pari al 73,78%

CAMPANIA (regione) iscritti 4.566.905 voti validi 2.667.460 pari al 58,40%

PUGLIA (regione) iscritti 3.280.712 voti validi 2.007.927 pari al 61,20%

MILANO (città) iscritti 943.104 voti validi 677.077 pari al 71,79%

TORINO (città) iscritti 652.538 voti validi 462.381 pari al 70,85%

GENOVA (città) iscritti 460.004 voti validi 316.306 pari al 68,76%

BOLOGNA (città) iscritti 285.255 voti validi 215.304 pari al 75,47

FIRENZE (città) iscritti 748.871 voti validi 577.286 pari al 77,08%

ROMA (città) iscritti 2.091.633 voti validi 1.451.522 pari al 69,39%

NAPOLI (città) iscritti 750.709 voti validi 401.664 pari al 53,50%

BARI (città) iscritti 265.853 voti validi 166.935 pari al 62,79%

Fonte

La bad company è l’Unione Europea

Nella Barcellona mercantile e marinara del 1300 un banchiere che avesse fatto fallimento compromettendo i risparmi di chi si fosse a lui affidato, sarebbe stato decapitato in piazza. Da quel feroce mondo medioevale, ove chi speculava sul danaro veniva considerato usuraio e tollerato solo se apportava grandi ricchezze alle comunità, molto progresso si è fatto. Oggi le banche falliscono, ma i banchieri, che godono di un disistima presso l’opinione pubblica superiore a quella medioevale, non pagano mai, in tutta Europa non uno di loro è in prigione.

Il salvataggio delle due banche venete fallite con soldi pubblici che daranno profitti privati, benedetto dalle autorità della Unione Europea, è un esempio del regime finanziario che oggi ci comanda.

Dopo il fallimento di Lehman Brother nel 2008 negli Stati Uniti, che diede il via alla grande crisi mondiale che tra alti e bassi ancora continua, tutte le istituzioni politiche ed economiche, l'Unione Europea in primo luogo, decisero che per fermare il contagio bisognava salvare ad ogni costo le banche dal fallimento. Secondo il precedente capo della Commissione Europea, Barroso, ben 4000 miliardi di danaro pubblico in tutta Europa furono spesi per salvare le banche. Questa denuncia non ha avuto alcun seguito nella politica europea e neppure il suo estensore se ne è sentito toccato, visto che ora opera in Goldman Sachs. Una valanga di soldi dei cittadini europei ha difeso e rafforzato il potere dei banchieri, ma non un solo istituto di credito è stato assunto in mano pubblica per questo. La Germania, sempre ultra rigorista verso i paesi del Sud, ha speso 247 miliardi solo per salvare le sue banche locali.

Alla fine la crisi bancaria globale nella Unione Europea fu scongiurata e come ringraziamento un finanziere britannico, prima della Brexit a cui ovviamente era contrario, affermò: l’economia è ripartita ed è ora che noi banchieri la si finisca di sentirci in colpa.

Salvato il sistema coi soldi dei cittadini, cioè coi tagli allo stato sociale, alla sanità, alle pensioni, all’istruzione, l’Unione Europea decise che era giunto il momento di essere davvero per il libero mercato. È quindi stata varata l’Unione Bancaria, da noi ovviamente presentata come un altro passo verso i meravigliosi Stati Uniti d’Europa. L’unione bancaria, come il fiscal compact e altre sconcezze, in realtà era solo una ulteriore sottrazione di sovranità economica agli stati, a favore delle banche, della burocrazia europea e naturalmente del potere del solo stato diverso da tutti gli altri, la Germania.

Ai governanti e ai politici italiani, da Monti, a Letta, a Renzi, che hanno gestito l’adesione dell’Italia alla unione bancaria, secondo me una causa per danni andrebbe fatta. Infatti quella decisione, invece che mettere in sicurezza il sistema bancario del nostro paese, lo ha esposto a tutte le tempeste. Il succo del nuovo trattato era proibire i salvataggi di stato delle banche, cui finora tutti i paesi più ricchi d’Europa erano ricorsi. Dal 2016, le banche in crisi avrebbero dovuto essere salvate con i soldi dei loro azionisti e dei loro correntisti, per deposti superiori a 100.000 euro. Non so come si traduca in tedesco “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”, ma il concetto è quello. In inglese, la lingua che si usa sempre per fregarci, invece tutto questo è stato definito passare dal “bail out” al “bail in”.

Ovviamente la chiusura dell’ombrello di stato, usato in tutta Europa, ha accelerato le sofferenze delle banche già in difficoltà, ed in Italia abbiamo avuto il crollo prima delle banche toscane, legate al PD e poi di quelle venete legate storicamente al centrodestra. Un fallimento bipartisan.

Il primo fallimento, quello toscano, è stato affrontato proprio con il bail in e ha provocato una catastrofe economica e sociale. Per questo, al crollo delle banche venete tutto il potere governativo italiano ed europeo ha deciso di reagire in altro modo. È il metodo europeo della cavia, usato brutalmente sulla Grecia e calibrato più prudentemente sugli altri paesi PIIGS. Si sperimenta una misura brutale e poi si aggiusta la dose tenendo conto delle vittime e soprattutto delle ribellioni provocate.

Così per le banche venete gli aiuti di stato, fieramente avversati dalla UE quando si tratti di chiudere fabbriche e tagliare servizi, sono stati subito approvati dai vertici europei. Lo strumento trovato per salvare l’ipocrisia e favorire gli affari è, anche qui c’è l’inglese, la “bad company”. Letteralmente la cattiva impresa, quella sulla quale vengono scaricati, debiti, costi, personale in esubero, in modo che la nuova impresa che rileva l’attività, la “new company”, parta solo con il miglior cuore del carciofo.

L’uso della bad company in Italia non è nuovo. In Alitalia il governo Berlusconi la adoperò per permettere alla crema dell'imprenditoria italiana di salvare la compagnia aerea, con i risultati che abbiamo visto e pagato. Il top manager modello per Renzi, Marchionne, fece lo stesso alla Fiat di Pomigliano. Da un lato la bad company che aveva come unica ragione sociale la cassa integrazione per migliaia di operai, dall’altro la newco dove venivano selezionati uno per uno coloro che avrebbero ripreso a lavorare in condizioni durissime.

La bad company è diventata il modello italiano di gestione di crisi e ristrutturazioni, da ultimo in Ilva, ed è quindi stato adottato anche per le banche venete. Non c’è strumento migliore per socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Lo stato si è accollato tutti i costi e gli esuberi delle banche fallite, Banca Intesa ne ha rilevato le attività al prezzo di 1 euro, naturalmente a condizione di ricevere finanziamenti e garanzie adeguate. Che potrebbero arrivare fino a 17 miliardi, con un costo virtuale medio di 440 euro per ognuno dei 38 milioni e mezzi di contribuenti. Il titolo Intesa è volato in Borsa.

La banca Santander di Spagna ha protestato per questo salvataggio, perché in condizioni analoghe essa aveva dovuto rilevare anche tutte le passività, senza scaricarle su una bad company, dell’istituto di credito che salvava, ma la UE ha risposto che in Italia era tutto regolare. Sono diventati più buoni? No le ragioni del sì europeo all’intervento pubblico italiano sono tre.

La prima è che lo stato paga, ma il privato guadagna. Se le banche venete fossero state nazionalizzate, allora sì che la Unione Europea sarebbe insorta gridando alla violazione del libero mercato. L’importante è che lo stato, coi soldi dei cittadini, non aiuti se stesso e i cittadini che pagano, poi si può fare tutto. In secondo luogo si può sospettare che Banca Intesa, che usufruisce del salvataggio, sia in tali buoni rapporti con la finanza internazionale, magari anche con quella tedesca, da far presagire nuovi più vasti affari europei.

In terzo luogo c’è la certezza che il governo italiano, per ottenere il via libera al salvataggio delle banche, abbia promesso alla UE un bel po’ di massacro sociale e privatizzazioni, da realizzare con la prossima finanziaria. Che dovrebbe procedere a tagli e svendite di servizi e beni pubblici per una cifra superiore ai 20 miliardi stanziati per le banche. Così i conti tornano e del resto la logica è sempre la stessa: si prendono in ostaggio i lavoratori, i risparmiatori, i cittadini colpiti dalle crisi e poi, per salvarli, si autorizzano le speculazioni più sfacciate.

Nonostante ciò che urla la propaganda di regime, l’alternativa reale non è salvataggi pubblici o libero mercato. La scelta vera è tra spendere il danaro pubblico a favore del profitto privato e della finanza, oppure per la proprietà pubblica e i cittadini. A quest’ultima scelta si oppone oggi pesantemente l’Unione Europea, la più grande bad company di cui è necessario liberarsi.

Fonte

29/06/2017

Insegnare tra passione e burocrazia. Intervista ad Alessandro Barbero


Riportiamo di seguito un’intervista al Prof. Alessandro Barbero, storico e docente universitario, realizzata da PiacenzaSera.it. Sebbene docente in ambito universitario, Barbero riesce a cogliere, in maniera sintetica e semplice, le conseguenze a carico degli insegnanti delle ultime riforme nella scuola, fino all’ultima denominata sarcasticamente “Buona Scuola”. Riforme che hanno portato, tra l’altro, ad un aumento del potere dei dirigenti scolastici, all’introduzione della cosiddetta “meritocrazia”, all’aumento delle burocrazie, anche a causa della pesante riduzione del personale amministrativo e dei collaboratori scolastici. Una disamina quella di Barbero diametralmente opposta a quella dell’ex-ministro Berlinguer, uno dei primi responsabili dell’attacco alla scuola pubblica pensato nell’ambito dell’Unione Europea, che ha attribuito la responsabilità dello stato attuale nella scuola allo statalismo comunista!

*da PiacenzaSera.it

Alessandro Barbero, storico e scrittore italiano, specializzato in storia militare e storia del Medioevo è docente ordinario presso l’Università del Piemonte Orientale.

Autorevole medievalista, è noto al grande pubblico per essere autore di saggi divulgativi sulla storia medievale e su temi come le invasioni barbariche nell’Impero romano, la tarda antichità e la battaglia di Waterloo e per gli assidui interventi nelle trasmissioni televisive Superquark e Il tempo e la storia.

Abbiamo avuto la fortuna di conoscere di persona il professore al Festival della Mente di Sarzana, dove viene invitato ogni anno a tenere conferenze. Si è rivelato essere, anche dal vivo, un insegnante brillante ed una persona dotata di umanità e grande valore. Il professor Barbero ha accettato con molta disponibilità di rispondere alle nostre domande via mail.


Lei è molto apprezzato dagli studenti e dal pubblico che segue le sue conferenze per la sua capacità divulgativa, che cosa vuol dire per lei insegnare?

Per me personalmente è una parte importante ma secondaria del mio lavoro, perché chi insegna all’università ha come compito principale fare ricerca, su quella base è valutato e fa carriera. Insegnare a scuola invece significa dedicare tutto il proprio tempo lavorativo all’insegnamento, e credo che sia uno dei lavori più faticosi e usuranti che esistano, come dimostrano del resto le ricerche sul burn-out degli insegnanti. E’ anche uno dei lavori più belli e gratificanti che esistano, quando si ha passione, e quando c’è un adeguato riconoscimento sociale, senza il quale la passione non basta per evitare la frustrazione.

Molti, dopo aver ultimato il proprio percorso di studi, non riuscendo a soddisfare le proprie ambizioni professionali o per altre ragioni, valutano la possibilità di dedicarsi all’insegnamento come una sorta di ripiego, lei cosa ne pensa? Cosa pensa invece di chi, diventato insegnante per vocazione, ha perso entusiasmo durante la propria carriera professionale?

Non capisco cosa significhi ripiego. Per vivere bisogna lavorare e l’insegnamento è un lavoro di massa, accessibile a chi ha raggiunto un certo livello di istruzione, e preferibile a fare l’operaio o la commessa. E’ ridicolo pretendere che un mestiere praticato in Italia da un milione di persone, e malissimo pagato, sia riservato a chi ha una spiccata inclinazione. Detto questo, ci sono anche molti insegnanti che hanno inclinazione, anzi passione, per questo lavoro, e il fatto che spesso perdano entusiasmo nel corso della loro carriera è in parte un risultato della natura umana, per cui l’entusiasmo giovanile si va perdendo col tempo; in parte un risultato del nostro sistema attuale, che fa di tutto per scoraggiare gli insegnanti bravi (specialmente quelli, noti bene) e far loro perdere entusiasmo.

In Italia gli insegnanti vengono retribuiti allo stesso modo, indipendentemente dal merito, secondo lei è corretto?

Certo che è corretto. Magari non sarà giusto in base a un’etica astratta, ma è certamente opportuno e garantisce una scuola più efficiente. Retribuire diversamente i docenti in base al merito comporta infatti che bisogna decidere come valutare il merito e chi lo valuta, e questo è una grossa complicazione nella vita della scuola; se la valutazione è attribuita ai dirigenti scolastici, costituisce una grave responsabilità, di cui i presidi migliori saranno scontenti, perché non ameranno dover fare discriminazioni, mentre i presidi peggiori saranno contentissimi di poter premiare i loro amici (e in un paese come l’Italia questo succederà spessissimo). Gli insegnanti migliori in genere vorrebbero essere pagati bene, ma non vorrebbero essere pagati meglio dei loro colleghi, perché spesso hanno ideali egualitari, e sanno cosa significa introdurre in una comunità disuguaglianze e privilegi; gli insegnanti peggiori, che diversamente da quelli bravi hanno molto tempo libero, cominceranno a studiare il modo per rientrare fra i premiati, che non sarà di diventare più bravi, ma di scoprire qualche via traversa, ammanicarsi il preside, accettare incarichi aggiuntivi e vuoti, inventarsi progetti inutili; così gli insegnanti migliori, anche se premiati con un aumento di stipendio, saranno comunque amareggiati, ma di fatto senza alcun dubbio in moltissimi casi a essere premiati saranno insegnanti mediocri o pessimi. Si sarà messa in piedi una macchina complessa, che farà perdere molto tempo e fatica a tutti, creerà dissapori, invidie e gelosie, infastidirà i migliori e incentiverà i peggiori. A me pare che sia molto, ma molto meglio continuare a pagare tutti gli insegnanti allo stesso modo.

Per uno studente è più opportuno affidarsi ai consigli di chi, grazie alla propria passione ed al proprio impegno, ha raggiunto i propri obiettivi o dovrebbe ascoltare anche chi non sentendosi realizzato si è abbandonato alla frustrazione?

La risposta è ovvia! Però a quello studente direi che chiedersi come mai fra i suoi insegnanti c’è chi si è abbandonato alla frustrazione sarebbe una grandissima occasione per imparare qualcosa.

Noi riteniamo che i prof del liceo siano di importanza fondamentale per il futuro dello studente, lei cosa ne pensa? C’è un insegnante che è stato particolarmente importante per il suo percorso e che ringrazierebbe?

Sono d’accordo, gli insegnanti del liceo sono decisivi! Io al liceo Cavour di Torino ho avuto una grandissima insegnante di storia e filosofia, la professoressa Petz (che del resto mi capita d’incontrare ancora oggi, quarant’anni dopo l’esame di maturità), ed ecco il risultato...

Ha qualche consiglio da dare a chi aspira a diventare insegnante?

Studiare bene i meccanismi di reclutamento in vigore e tenersi aggiornati sui loro cambiamenti futuri. Il reclutamento degli insegnanti tramite concorso è il vero perno del sistema, è il concorso che deve garantire che la maggior parte degli insegnanti (tutti è impossibile) siano persone di valore; e naturalmente è proprio sui concorsi che la classe politica si è accanita negli ultimi decenni, lasciandoli in sospeso per anni, inventando modi nuovi e cervellotici di assunzione, oppure non assumendo proprio e riempiendo la scuola di precari che vivono in condizioni estremamente frustranti. Chi aspira a diventare insegnante deve sapere che nell’Italia di oggi riuscirci è un percorso a ostacoli, e deve pianificare molto attentamente il suo percorso universitario, sapendo inoltre che le regole possono cambiare senza preavviso e in modo totalmente irrazionale. Dopodiché, se uno ha la passione ne vale la pena comunque, perché quando l’insegnante è in aula, con una classe di ragazzi che lo apprezzano, lontano da riunioni, burocrazia, perdite di tempo, solitarie e non pagate correzioni di compiti, lezioni private per arrotondare uno stipendio troppo basso, be’, in quelle ore insegnare è davvero il lavoro più bello del mondo.

Fonte