Il noto filosofo Roberto Esposito si chiede su Repubblica (26 giugno) perché la morte annunciata del neoliberismo tardi ad arrivare (qui
l’articolo). Nonostante la povertà e le guerre generate in questo
ventennio, nonostante la crisi decennale, nonostante sia posto sul banco
degli imputati come protagonista indiscusso del fallimento economico
globale, «il neoliberismo è uscito addirittura rafforzato da una crisi
che avrebbe dovuto distruggerlo». In effetti, la realtà sembra
confermare il dilemma. Il neoliberismo è l’orizzonte unico entro cui
pensare la politica e l’economia contemporanee. Anche i populismi al
governo, Trump su tutti, ma anche Syriza a ben vedere, possono
strepitargli contro in campagna elettorale, ma una volta al comando non
possono far altro che adeguarsi alla normale gestione liberista delle
relazioni produttive. Da dove deriva questa forza? Esposito rilegge
Dardot e Laval, utilizzandoli come paradigma interpretativo: il
neoliberismo sopravvive perché è anzitutto un progetto di governo. Lungi
dall’essere un semplice modello economico, il neoliberismo è un sistema
di relazioni sociali pervasive. Se
economicamente il neoliberismo è orientato al radicale pragmatismo (una
vera e propria non-teoria che contraddice costantemente se stessa), è il
suo programma politico-culturale ad essere rigidamente sistematico. Il
neoliberismo si presenta come martellante operazione narrativa capace di
penetrare nella vita del lavoratore trasformato nel frattempo in
impresa di se stesso. La forza del neoliberismo non è allora
nell’economia (evidentemente, altrimenti avremmo già il comunismo di
guerra dati i disastri epocali di cui è protagonista indiscusso), ma nel
modello antropologico che ha avuto la forza di imporre, organizzare e
gestire senza traumi decisivi. Se l’unico orizzonte immaginabile è
quello di divenire impresa di se stessi, siamo in presenza di una sorta
di “reificazione della reificazione”: se nel capitalismo moderno i
rapporti umani erano presentati feticisticamente in rapporti tra cose,
nel liberismo contemporaneo i rapporti tra cose sono proposti come rapporti tra aziende.
La lettura foucaultiana
di Dardot e Laval è nota ed Esposito la fa propria, venendo anch’egli
da quell’esperienza culturale. Una lettura utile proprio perché in grado
di sviscerare i caratteri precipui dell’attuale modello di sviluppo. La
conclusione proposta dal filosofo napoletano è anch’essa interessante:
se il problema non è l’alternativa economica ma quella
politico-culturale, è là che andranno concentrati gli sforzi di
riflessione. La sinistra anti-capitalista dovrà «basarsi sulle medesime
potenzialità innovative evocate, e tradite, dal progetto neoliberista.
Le dinamiche di globalizzazione e i processi di tecnologizzazione delle
competenze sono troppo avanzati per tentare di bloccarli dall’alto. Non
resta che guidarli in una direzione diversa». Questa conclusione, a
leggerla bene (cioè: se esistesse un dibattito a sinistra in grado di
recepire il senso tellurico di questa indicazione), apre problematiche
vaste e feconde. In effetti, il problema – potremmo dire filosofico –
del neoliberismo, che poi è il problema del capitalismo storicamente
inteso, sta nella sua capacità di suscitare illusioni costantemente tradite
dalla realtà dei fatti. Il problema non sono le promesse, ma il
fallimento (inevitabile) di queste. Per dirla con Marx, «noi siamo
afflitti e dallo sviluppo della produzione capitalistica, e ancor di più dalla mancanza di questo sviluppo».
Per Marx infatti uno dei problemi decisivi dell’inevitabile fallimento
capitalistico era costituito dal carattere sostanzialmente anarchico del
sistema produttivo, incapace di pianificare se stesso, procedendo come
somma dei singoli produttori che lo componevano e non organizzandosi
come sistema. Per Marx il socialismo altro non era che una sorta di
Robinson Crusoe collettivo, un sistema di relazioni umane in grado di
riappropriarsi della decisione di cosa, dove e come produrre il proprio
sostentamento. Senza farla troppo lunga, se il dato fallimentare del
capitalismo neoliberista sta nel tradimento delle speranze suscitate, la
lotta anti-capitalista dovrebbe situarsi in questa contraddizione. Il
problema non sono le speranze alimentate costantemente dalla narrativa
liberista, ma il tradimento di queste speranze che si tramutano in pure
illusioni.
Se tale approccio è quantomeno plausibile, non per questo avremmo
risolto alcunché dei nostri limiti culturali nella lotta al
neoliberismo. Una radicale opposizione al neoliberismo si fonda proprio
sul processo di disillusione popolare verso le magnifiche sorti e
progressive del capitalismo. Oltretutto: la lotta politica, specie se
radicalmente antagonista al modello di sviluppo egemone, procede
semplificando e polarizzando, e in questa sintesi, brutale ma necessaria,
il capitalismo non può presentarsi solamente come “falso amico” ma come
vero e proprio nemico. E’ vero che per Marx il comunismo si presentava
come erede del capitalismo (nonché della filosofia classica),
ma questa eredità, che significa accoglienza e sviluppo oltre i limiti
stessi del sistema precedente, si esibisce nella lotta politica come
puro antagonismo. E’ inevitabile che sia così, e questa inevitabilità
tradisce la conclusione di Esposito: «non resta che cercare di guidarli
in una direzione diversa». Una conclusione del genere smaschera il
ragionamento tutto intellettuale del filosofo, che non si fa carico di
indicare chi dovrebbe guidare questa transizione: un ceto
politico illuminato forse? Ma se alla base del condivisibile
ragionamento veniva posta l’inevitabilità del neoliberismo come progetto
antropologico, capace di sussume qualsiasi ipotesi di governo e
qualsiasi forma di opposizione, come tradurre quel “non resta che”?
Insomma, è vero che i processi di globalizzazione liberista sono
talmente avanzati che sarebbe totalmente astratto pensare di bloccarli
per decreto, ma proprio per questo l’unico modo per “dirigerli”,
volgendoli così nell’interesse delle classi popolari, è attraverso un
processo rivoluzionario, non banalmente riformista come sembra
intravedersi dalle parole del filosofo. Ancora una volta, l’italian theory si
scontra col suo limite genetico: quello di essere un pensiero
immateriale, disancorato totalmente dai rapporti di forza sociali sui
quali si fonda il consenso – e il possibile dissenso – al capitalismo.
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