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28/06/2017

Riflettere sulla non-morte del neoliberismo

Il noto filosofo Roberto Esposito si chiede su Repubblica (26 giugno) perché la morte annunciata del neoliberismo tardi ad arrivare (qui l’articolo). Nonostante la povertà e le guerre generate in questo ventennio, nonostante la crisi decennale, nonostante sia posto sul banco degli imputati come protagonista indiscusso del fallimento economico globale, «il neoliberismo è uscito addirittura rafforzato da una crisi che avrebbe dovuto distruggerlo». In effetti, la realtà sembra confermare il dilemma. Il neoliberismo è l’orizzonte unico entro cui pensare la politica e l’economia contemporanee. Anche i populismi al governo, Trump su tutti, ma anche Syriza a ben vedere, possono strepitargli contro in campagna elettorale, ma una volta al comando non possono far altro che adeguarsi alla normale gestione liberista delle relazioni produttive. Da dove deriva questa forza? Esposito rilegge Dardot e Laval, utilizzandoli come paradigma interpretativo: il neoliberismo sopravvive perché è anzitutto un progetto di governo. Lungi dall’essere un semplice modello economico, il neoliberismo è un sistema di relazioni sociali pervasive. Se economicamente il neoliberismo è orientato al radicale pragmatismo (una vera e propria non-teoria che contraddice costantemente se stessa), è il suo programma politico-culturale ad essere rigidamente sistematico. Il neoliberismo si presenta come martellante operazione narrativa capace di penetrare nella vita del lavoratore trasformato nel frattempo in impresa di se stesso. La forza del neoliberismo non è allora nell’economia (evidentemente, altrimenti avremmo già il comunismo di guerra dati i disastri epocali di cui è protagonista indiscusso), ma nel modello antropologico che ha avuto la forza di imporre, organizzare e gestire senza traumi decisivi. Se l’unico orizzonte immaginabile è quello di divenire impresa di se stessi, siamo in presenza di una sorta di “reificazione della reificazione”: se nel capitalismo moderno i rapporti umani erano presentati feticisticamente in rapporti tra cose, nel liberismo contemporaneo i rapporti tra cose sono proposti come rapporti tra aziende.

La lettura foucaultiana di Dardot e Laval è nota ed Esposito la fa propria, venendo anch’egli da quell’esperienza culturale. Una lettura utile proprio perché in grado di sviscerare i caratteri precipui dell’attuale modello di sviluppo. La conclusione proposta dal filosofo napoletano è anch’essa interessante: se il problema non è l’alternativa economica ma quella politico-culturale, è là che andranno concentrati gli sforzi di riflessione. La sinistra anti-capitalista dovrà «basarsi sulle medesime potenzialità innovative evocate, e tradite, dal progetto neoliberista. Le dinamiche di globalizzazione e i processi di tecnologizzazione delle competenze sono troppo avanzati per tentare di bloccarli dall’alto. Non resta che guidarli in una direzione diversa». Questa conclusione, a leggerla bene (cioè: se esistesse un dibattito a sinistra in grado di recepire il senso tellurico di questa indicazione), apre problematiche vaste e feconde. In effetti, il problema – potremmo dire filosofico – del neoliberismo, che poi è il problema del capitalismo storicamente inteso, sta nella sua capacità di suscitare illusioni costantemente tradite dalla realtà dei fatti. Il problema non sono le promesse, ma il fallimento (inevitabile) di queste. Per dirla con Marx, «noi siamo afflitti e dallo sviluppo della produzione capitalistica, e ancor di più dalla mancanza di questo sviluppo». Per Marx infatti uno dei problemi decisivi dell’inevitabile fallimento capitalistico era costituito dal carattere sostanzialmente anarchico del sistema produttivo, incapace di pianificare se stesso, procedendo come somma dei singoli produttori che lo componevano e non organizzandosi come sistema. Per Marx il socialismo altro non era che una sorta di Robinson Crusoe collettivo, un sistema di relazioni umane in grado di riappropriarsi della decisione di cosa, dove e come produrre il proprio sostentamento. Senza farla troppo lunga, se il dato fallimentare del capitalismo neoliberista sta nel tradimento delle speranze suscitate, la lotta anti-capitalista dovrebbe situarsi in questa contraddizione. Il problema non sono le speranze alimentate costantemente dalla narrativa liberista, ma il tradimento di queste speranze che si tramutano in pure illusioni.

Se tale approccio è quantomeno plausibile, non per questo avremmo risolto alcunché dei nostri limiti culturali nella lotta al neoliberismo. Una radicale opposizione al neoliberismo si fonda proprio sul processo di disillusione popolare verso le magnifiche sorti e progressive del capitalismo. Oltretutto: la lotta politica, specie se radicalmente antagonista al modello di sviluppo egemone, procede semplificando e polarizzando, e in questa sintesi, brutale ma necessaria, il capitalismo non può presentarsi solamente come “falso amico” ma come vero e proprio nemico. E’ vero che per Marx il comunismo si presentava come erede del capitalismo (nonché della filosofia classica), ma questa eredità, che significa accoglienza e sviluppo oltre i limiti stessi del sistema precedente, si esibisce nella lotta politica come puro antagonismo. E’ inevitabile che sia così, e questa inevitabilità tradisce la conclusione di Esposito: «non resta che cercare di guidarli in una direzione diversa». Una conclusione del genere smaschera il ragionamento tutto intellettuale del filosofo, che non si fa carico di indicare chi dovrebbe guidare questa transizione: un ceto politico illuminato forse? Ma se alla base del condivisibile ragionamento veniva posta l’inevitabilità del neoliberismo come progetto antropologico, capace di sussume qualsiasi ipotesi di governo e qualsiasi forma di opposizione, come tradurre quel “non resta che”? Insomma, è vero che i processi di globalizzazione liberista sono talmente avanzati che sarebbe totalmente astratto pensare di bloccarli per decreto, ma proprio per questo l’unico modo per “dirigerli”, volgendoli così nell’interesse delle classi popolari, è attraverso un processo rivoluzionario, non banalmente riformista come sembra intravedersi dalle parole del filosofo. Ancora una volta, l’italian theory si scontra col suo limite genetico: quello di essere un pensiero immateriale, disancorato totalmente dai rapporti di forza sociali sui quali si fonda il consenso – e il possibile dissenso – al capitalismo.

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