Per dimostrare che la globalizzazione è viva e vegeta Franco Russo
deve riconoscere che i processi di internazionalizzazione degli scambi,
della finanza e della produzione sono sempre stati e sono ancor di più
oggi il luogo di un aspro conflitto in cui i diversi stati usano tutti i
mezzi, compreso il protezionismo e lo scontro militare, pur di
difendere le proprie imprese. (vedi il saggio di F. Russo su Contropiano).
Con il che, però, Franco Russo dichiara che la globalizzazione è
morta (o meglio che essa, come il sottoscritto pensa da molto, in realtà
non è mai nata). L’idea di globalizzazione contro cui polemizzano i
critici non è infatti quella che prende atto
dell’internazionalizzazione, ma quella secondo cui tale
internazionalizzazione, rafforzando l’interconnessione dei mercati e
della produzione, realizza una situazione di sostanziale
autoregolazione del mercato che rende superflua o meramente ausiliaria
la funzione degli stati nazionali. Lo stesso Russo ci da invece
vari esempi di attivo intervento degli stati nazionali nella battaglia
competitiva, intervento che può spingersi fino alla guerra: e questo, in
sede di polemica spicciola, potrebbe bastare per dire che Franco
dimostra il contrario di quello che afferma. Ma qui non si tratta di
polemica spicciola, bensì di una discussione che ci accompagnerà a
lungo. Bisogna quindi approfondire.
In realtà nel testo che esamino si insiste nel dire che il severo
confronto tra entità politiche capitalistiche non è tanto un confronto
fra stati, quanto fra “grandi spazi” (ed è chiaro che qui si suggerisce,
per contrasto, che essendo l’Italia per definizione un “piccolo spazio”
ogni progetto di autonomia nazionale le è precluso). Va però detto che
questi “grandi spazi” sono tutti spazi statuali, dotati per di più di una spiccata identità nazionale:
Usa, Russia, Cina, ecc.. La stessa Unione europea, se vuole contare
qualcosa, deve presentarsi come vero e proprio stato unitario ed
inventarsi una qualche “identità nazional-continentale”. E se non
dovesse riuscire a farlo ciò avverrebbe a causa dell’incapacità di una
determinata nazione ad esercitare la necessaria egemonia. Insomma: nation matters, lo dice anche il meno nazionalista tra noi.
Nella polemica non si possono però sottacere gli aspetti di verità
sempre contenuti nelle posizioni di un avversario intelligente. La
questione delle dimensioni ha il suo peso, anche se non si tratta tanto
della dimensione, quanto della natura di uno spazio
geopolitico. Mi spiego. Se l’Italia dovesse (e potesse) rompere con l’Ue
da un punto di vista esclusivamente capitalistico, le sue limitate
dimensioni non sarebbero necessariamente un ostacolo, anche perché la
sua uscita dall’Unione rafforzerebbe automaticamente i suoi rapporti con
gli Usa. Ma se la rottura dovesse avvenire secondo i nostri desideri,
la costruzione di uno spazio politico economico extranazionale
diverrebbe allora essenziale. Infatti non è possibile sviluppare appieno una politica tendenzialmente socialista se non in uno spazio che sia relativamente autosufficiente e relativamente
chiuso nei confronti del capitale finanziario transnazionale, e
l’Italia non possiede affatto tali caratteristiche. Se è quindi vero che
la nostra rottura è inevitabilmente nazionale, è altrettanto vero che
noi dobbiamo preparare già da ora le nuove relazioni di un concreto
internazionalismo. Un internazionalismo che parta realisticamente dal riconoscimento delle caratteristiche peculiari delle diverse economie e società nazionali per giungere ad un comune modello di sviluppo progressivo.
Proseguo. Per dimostrare che la globalizzazione non è morta, Russo fa
inoltre riferimento al fatto che gli Usa non si stanno per nulla
isolando, ed anzi continuano a promuovere l’internazionalizzazione delle
proprie imprese, ed al fatto che Unione europea e Cina continuano a
promuovere libero mercato e, appunto, globalizzazione. Ma è
assolutamente logico che una potenza imperialista continui a penetrare
gli spazi economici mondiali, ed è egualmente logico che le due massime
potenze esportatrici del mondo facciano l’elogio della globalizzazione.
Così come, ad esempio, non possiamo dedurre dalla sola crescita
(peraltro esponenziale) dei provvedimenti protezionistici il tramonto
del libero mercato (anche se questi provvedimento sono un sintomo molto
più serio di quanto Russo mostri di credere), egualmente non possiamo
dedurre la forma delle relazioni mondiali dalla semplice considerazione
della massa degli scambi e dell’entità dell’interdipendenza
economica. Alla vigilia della prima guerra mondiale l’interscambio
globale era tutt’altro che depresso. Alla vigilia della seconda guerra
mondiale gli scambi economici tra Germania ed Inghilterra erano
intensissimi (e, a guerra iniziata, i significativi investimenti inglesi
in Germania non vennero né ritirati né confiscati...). E quanto
all’interdipendenza, essa non conduce sempre e soltanto
all’approfondimento dei rapporti economici, ma può sboccare in seri
conflitti politici: se un paese dipende da un altro per
l’approvvigionamento di una risorsa strategica, può ben essere indotto
ad eliminare tale dipendenza sottomettendo il paese fornitore. Una cosa
simile va detta anche a proposito delle catene del valore. E’ vero che
le merci che un paese importa sono spesso prodotte all’estero dalle sue
stesse imprese, parzialmente esternalizzate, e che questo rende più
complicato il protezionismo e più costosi i conflitti interstatuali. Ma
d’altra parte l’esternalizzazione è reversibile (come dimostra il fenomeno non rarissimo del reshoring dovuto
al complicarsi delle condizioni dei paesi terzisti, all’aumento del
costo del lavoro locale o ad innovazioni tecnologiche avvenute “in
patria”), e se la logica economica o i conflitti politici lo impongono,
si può rimpatriare buona parte del ciclo produttivo. Dall’altre, ed è la
cosa più importante, la stessa esternalizzazione è frutto di conflitti vinti da alcuni stati a danno di altri
(vedasi l’uso occidentale del mercato del lavoro dell’est dopo l’89) e
può generare altri conflitti tesi alla stabilizzazione delle condizioni
di profittabilità nei paesi terzi. Dunque né la dinamica degli scambi né
quella delle interdipendenze possono dirci qualcosa di univoco sul
nostro tema.
Per valutare la fase attuale non basta quindi riferirci ai dati
empirici, che come in tutti i momenti di transizione possono essere
molto contraddittori, ma dobbiamo dotarci di una teoria che ci aiuti a capire quali possono essere i fatti più significativi.
Al riguardo credo che noi possiamo farci ispirare da tesi analoghe a
quelle di Giovanni Arrighi, e considerare come a fasi di ampia
finanziarizzazione, accompagnate da crescita vorticosa del commercio, da
una tendenziale unità del fronte imperialista e dalla diretta
funzionalità delle guerre all’espansione economica, si succedano fasi di
ripoliticizzazione del conflitto in cui gli stati tornano ad avere
funzione dominante e le scelte economiche tendono a rispondere anche ad
una logica di tipo militare, nel contesto di tensioni crescenti nello
stesso campo imperialista. E’ ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi
dopo la crisi 2007-8: la stessa forma della globalizzazione (meglio:
dell’internazionalizzazione) ha inevitabilmente prodotto gravi squilibri
che da un lato hanno riportato al centro gli stati, facendoli
divenire regolatori fondamentali del mercato nella perdurante incertezza
delle capacità di pagamento private, e dall’altro hanno acuito le
tensioni fra gli stati stessi, perché hanno acuito la contraddizione fra stati creditori e stati debitori.
A mio avviso sono questi gli elementi macroeconomici e geopolitici che
devono essere soprattutto considerati quando si valuta il rapporto tra
regolazione “economico-politica” (quella della c.d. globalizzazione) e
regolazione “politico-economica” (quella verso cui tendiamo oggi). Se è
vero che oggi la forma dominante del capitale è quella
bancario-finanziaria e che la sopravvivenza di questa (in costante
minaccia di crisi di solvibilità) in ultima istanza dipende direttamente dalle decisioni politiche degli stati,
ne discende che è l’intreccio tra stato e capitale finanziario a
dettare la musica, ben più delle dinamiche capitale-merce e del capitale
produttivo. Ed in particolare sono soprattutto i rapporti
credito/debito a dettare, a volte esplicitamente, a volte sottotraccia,
la trama delle relazioni attuali. Da qui nascono le diverse guerre valutarie. Da qui l’ostilità strutturale degli Usa contro la Cina. Da qui il conflitto latente Usa/Germania, da
qui le difficoltà dei Brics, da qui la gracilità dell’Unione europea,
ecc..
Dal punto di vista degli aumentati conflitti interstatuali inoltre,
più della completa sostituzione degli accordi commerciali multilaterali
con quelli bilaterali (processo che, come giustamente nota Russo, è
senz’altro lungo e contrastato) conta il fatto che gli stessi accordi
multilaterali sono fatti più per escludere che per includere: includono gli alleati per accerchiare i nemici: questa è la ratio geopolitica
della TTIP (contro la Russia) e della TIP (contro la Cina), qualunque
sia stato e sarà il destino dei due accordi. Non contraddice a questa ratio il recente accordo commerciale Usa/Cina, a cui Russo si riferisce come esempio pro-globalizzazione. Da un lato c’è il bisogno economico Usa di penetrare più decisamente nel territorio cinese. Ma dall’altro c’è il bisogno strategico Usa di interrompere il processo di avvicinamento Russia/Cina che è stato il peggior risultato della politica di Clinton/Obama.
E veniamo all’Europa. Sono senz’altro interessanti le dichiarazioni
di intenti a cui Russo fa riferimento e, personalmente, penso che la
partita dell’Unione europea sia (dal punto di vista di lorsignori)
ancora tutta aperta, e che gli esiti non siano del tutto prevedibili.
Continuo però a pensare che gli elementi di disgregazione siano in
prospettiva superiori a quelli di unificazione. E penso che proprio tra
gli esempi avanzati da Russo, per mostrare che l’Ue “fa sul serio” per
rispondere unitariamente ed efficacemente agli Usa, stia nascosto un
importante segnale di debolezza. Russo dice che l’Unione ha “risolto” il
problema delle banche. Su questo punto esprimo un netto dissenso, non
teorico ma fattuale. Si legga il recentissimo intervento di Giacché a
proposito del sistema bancario europeo (lo trovate in Sinistrainrete):
il punto su cui voglio concentrare l’attenzione non è tanto il fatto
(importantissimo) che la “soluzione” aumenta gli squilibri,
avvantaggiando enormemente gli istituti tedeschi, quanto il fatto che,
ad oggi, non si è affatto invertita la balcanizzazione per linee nazionali
del sistema bancario europeo (il fenomeno per cui il prestito
interbancario e non solo funziona molto più all’interno dei singoli
territori nazionali che all’interno dell’Unione), balcanizzazione che è
stata inaugurata dalla crisi del 2007 e che che rende assai fragile
l’integrazione economica Ue. Tanto che a mio avviso più che i motivi
economici (pur importantissimi: ogni giorno, ogni ora di euro in più è
una bazza per il capitale tedesco...) in questo momento a tenere in piedi
l’Ue sono motivi geopolitici, ossia la necessità, pienamente avvertita
da Francia e Germania, di far quadrato di fronte alla Brexit e
all’irrigidimento Usa (non attribuibile al solo Trump), salvando il più
possibile la costruzione europea e rimandando il più possibile sia i
conflitti franco-tedeschi (clamoroso quello relativo alla richiesta
francese di protezione per i “campioni nazionali”, per ora respinta
dalla Merkel alla faccia di Macron) sia il regolamento di conti con il
sud Europa: da cui la modulazione in funzione delle scadenze elettorali delle richieste di ulteriori tagli all’Italia.
La stabilizzazione della situazione europea è quindi fragile. Ma pur
sempre di una stabilizzazione si tratta, e questo in politica conta,
soprattutto quando un atteggiamento antiunionista, come effettivo
sentimento di massa organizzato politicamente, deve ancora nascere. E
qui la mia riflessione converge parzialmente con quella di Franco Russo.
Nessuna frazione del grande capitale europeo è per adesso intenzionata a rompere l’Ue. Nessuna frazione del piccolo capitale delle singole nazioni (aggiungo io) è per adesso
seriamente intenzionata a rompere l’Ue, ed anche se lo fosse non
avrebbe al momento la capacità egemonica per farlo: si vedano l’Olanda,
la Francia e il probabile esito nullo delle sparate salviniane
contro l’euro. Ma subito mi allontano di nuovo da Franco: da quanto
sopra discende che la questione della nazione non è questione
immediatamente interclassista, che noi dobbiamo obtorto collo fare nostra, ma è oggi questione immediatamente classista
(della nostra classe) che noi dobbiamo imporre alle classi esitanti. La
deflagrazione dell’Unione europea, strutturalmente resa assai probabile
dagli squilibri debito/credito e dalla disintegrazione bancaria, viene
evitata solo grazie al fatto che i sistemi politico-istituzionali
rendono inefficace ogni opposizione popolare e, prima ancora, rendono
difficile la formazione di un soggetto popolare capace di rompere il
gioco. Per questo i lampi di rottura che baluginano ad ogni apertura delle urne non si trasformano, per ora, in un vero temporale. Questa trasformazione sta tutta sulle nostre spalle. La fine (assai probabile anche in Italia) del primo ciclo del populismo antiunionista di destra (fine che non avverrà senza sussulti e ripensamenti e che non esclude un secondo ciclo,
magari assai più pericoloso) e la contemporanea crisi verticale del
socialismo europeo, aprono lo spazio non già per una forza “di
sinistra”, ma per una forza democratico-costituzionale che sappia unire tutti i lavoratori, anche facendo appello ad un semplice e sobrio (ma potenzialmente dirompente) sentimento di appartenenza nazionale,
inteso come richiamo alle lotte popolari che hanno prodotto, difeso e
tentato di attuare la nostra Costituzione. E’ vero, come spesso ci
ricorda Russo, che non esiste oggi in Italia una borghesia nazionale con
la quale costruire un fronte patriottico (anche se è da ripetersi che
esiste una piccola borghesia che potrebbe essere coinvolta in un
progetto nazionale elaborato da noi), ma è altrettanto vero che
il discorso nazionale (che inevitabilmente assume, nelle condizioni
attuali, una forma populista), oggi, prima che ad unire altre classi
attorno al proletariato, è essenziale ad unificare un proletariato che si pensa ormai soprattutto come popolo. Quando lo capiremo fino in fondo inizieremo davvero il tragitto verso le nostre ambiziosissime mete.
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