Il primo Giugno 2017, Istat ha pubblicato la prima stima
dell’andamento del prodotto interno lordo nel primo trimestre 2017.
Secondo Istat, nel primo trimestre del 2017 il prodotto interno lordo
reale, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, è
aumentato dello 0,4% rispetto al trimestre precedente e dell’1,2% nei
confronti del primo trimestre del 2016. La prima stima segue la
cosiddetta stima flash preliminare, solitamente con un ritardo di
due/tre settimane. La stima flash,
invece, poneva la crescita del PIL a un più basso 0.2%, rispetto al
trimestre precedente, e allo 0.8% rispetto al primo trimestre 2016.
Insomma, una revisione al rialzo piuttosto consistente in un periodo di
tempo piuttosto ridotto, che ha scatenato negli organi di informazione, e
in certe stanze governative, un fiume di retorica sull’accelerazione
della crescita italiana. Questo “ottimismo della ragione” dovrebbe però
passare il controllo accurato dei dati disaggregati, e della conoscenza
approfondita del sistema di produzione dei conti nazionali. Vediamo di
fare un minimo di luce, cercando allo stesso tempo di donare
informazioni preziose su come vanno letti i dati dei conti nazionali
trimestrali, che sono un sistema di rendicontazione economica molto
complesso, fondato su fonti primarie disparate (inchieste sui consumi,
sui prezzi, inchieste sulle imprese e chi più ne ha più ne metta), ma
soprattutto, come si vedrà, su tecniche statistiche di aggiustamento
abbastanza complicate, soprattutto per i meno esperti.
Chi è davvero interessato, poiché secchione di suo, potrà trovare più informazioni in questo documento metodologico
della stessa Istat. Potrà così farsi una cultura da contabile pubblico,
sempre se interessato, e capire che nel sistema dei conti trimestrali
la revisione delle stime sono la norma, che le stime passate continuano a
cambiare nel tempo, come si può dedurre, per esempio da questa semplice
frase che accompagna il comunicato stampa della stima succitata: “Le
stime presentate in questo comunicato sono coerenti con le stime dei
conti nazionali pubblicate il primo marzo 2017 (PIL e indebitamento
delle AP – Anni 2014-2016). Coerentemente alla politica di revisione dei
conti economici trimestrali, i dati destagionalizzati diffusi con
questo comunicato stampa sono rivisti a partire dal primo trimestre
2013. Dal presente comunicato la stessa profondità di revisione è
applicata anche ai dati grezzi, per i quali in precedenza si operava una
revisione meno estesa all’indietro. L’allineamento delle due profondità
di revisione ha finalità di armonizzazione dei criteri applicati alle
diverse versioni delle variabili ma recepisce anche le nuove
raccomandazioni europee sulle politiche comuni di revisione”.
In via preliminare, dunque, anche solo per la tecnica di
destagionalizzazione utilizzata (ma non solo), l’intera serie storica
trimestrale è continuamente rivista. Come contestualizzare, dunque,
questa ultima revisione? In un solo modo possibile, ovvero guardando i
dati e le statistiche sulle revisioni pubblicate assieme al comunicato.
Il grafico sotto riportato mostra le revisioni recenti. L’ultima è
particolarmente “importante”. E scatta il primo allarme.
Il
secchione, dotato di minima conoscenza dei dati, controlla meglio e con
pazienza colloca il dato nel contesto storico, in un grafico bivariato,
che aiuta a identificare i cosiddetti outlier, ovvero dati molto
anomali, rispetto alla distribuzione congiunta di un fenomeno. Il
grafico riporta i dati della prima stima assieme alla differenza fra la
prima stima e quella flash. Come si può notare, il dato del primo
trimestre è particolarmente al di fuori della media. Scatta il secondo
allarme!
Controllando
nel sotto-campione dei dati depurati dal periodo di recessione, in cui
di solito le stime diventano più ballerine perché le deviazioni dal
trend normale di crescita sono più importanti (e la cosa non deve
stupire, poiché nelle stime preliminari un ruolo importante lo giocano
anche modelli econometrici, come vedremo in seguito, che aggiustano i
dati a causa della mancanza delle fonti primarie, di solito disponibili
dopo la stima annuale, che è più precisa) la situazione non cambia. Nel
primo trimestre 2017, infatti, non si sta uscendo da alcuna recessione, e
il dato pare eccezionalmente anomalo rispetto a un periodo normale.
E
se tutto questo fosse dovuto al fatto che siamo davvero a un “turning
point” della crescita? L’ipotesi accelerazione non può essere scartata
aprioristicamente, ma può essere testata grazie alle evidenze empiriche
passate e alla conoscenza esatta della metodologia di compilazione dei
conti nazionali trimestrali. Il documento metodologico sopra linkato,
riporta la metodologia esatta. Cerchiamo di spiegarla in modo almeno
intuitivo. Istat (ma non solo Istat, è pratica diffusa, sebbene con
tecniche più o meno efficienti nei diversi uffici statistici nazionali)
non avendo tutte le fonti di stima necessarie, fra cui le stime degli
impieghi intermedi degli input della produzione, solitamente disponibili
solo a cadenza annuale, utilizza una tecnica statistica nota come
trimestralizzazione. In cosa consiste questa tecnica? Essenzialmente,
significa fare una regressione con la variabile dipendente uguale al
valore annuale dei conti economici di interesse, per esempio la
produzione, utilizzando come predittori indicatori congiunturali
annualizzati, come la produzione industriale. La stima dei parametri è
poi applicata agli indicatori trimestrali, per ottenete una stima
trimestrale della produzione. Resta solo da distribuire gli errori
stocastici nei trimestri secondo metodi più o meno complessi, che non
sono di particolare interesse in questo caso. Ebbene, ritornando alla
stima del Pil trimestrale, tenendo a mente questo procedimento, cosa fa
Istat? Prima trimestralizza l’indice della produzione industriale
inflazionato coi prezzi alla produzione e poi trimestralizza il
fatturato servizi, disaggregati in settori più granulari. Poi deflaziona
le stime con deflatori trimestrali e “decatena” a prezzi dell’anno
precedente. In un secondo step, Istat trimestralizza il valore aggiunto
annuale con serie della produzione ottenuta prima; poi calcola la
differenza fra produzione e valore aggiunto e ottiene i consumi
intermedi, di cui mancano le informazioni trimestrali, a prezzi
dell’anno precedente, che vengono concatenati. In un ulteriore passo,
inflaziona questa ultima serie coi deflatori dei consumi intermedi e
ottiene consumi intermedi a prezzi correnti INFINE, INFINE
con la differenza fra produzione a prezzi correnti e consumi intermedi
ottiene il valore aggiunto corrente! È un po’ come costruire una casa
partendo dal tetto, usando una metafora.
Armati
di questa conoscenza, allora, si scopre che il problema centrale della
stima del prodotto interno lordo trimestrale è nella stima dei
deflatori, necessari per misurare il volume dei beni e servizi prodotti,
il cosiddetto valore reale. Le uniche serie con fonti già note, sono
infatti quelle dei deflatori. Il fatto che sia essenziale una corretta
stima di queste serie storiche lo si desume anche dal comunicato Istat,
laddove si legge: “Rispetto
al trimestre precedente, il PIL ai prezzi correnti, corretto per gli
effetti di calendario e destagionalizzato, è diminuito dello 0,1%, il
deflatore del PIL è diminuito dello 0,6%. Il deflatore della spesa delle
famiglie residenti è cresciuto dello 0,7%, mentre quello degli
investimenti fissi lordi è diminuito dell’1,6%. Il deflatore delle
importazioni è aumentato del 2,1% e quello delle esportazioni dell’1,0%.
In termini tendenziali, il PIL ai prezzi correnti, corretto per gli
effetti di calendario e destagionalizzato, è aumentato dello 0,7%, il
deflatore del PIL è diminuito dello 0,5%. Il deflatore della spesa delle
famiglie residenti è aumentato dell’1,1%, mentre quello degli
investimenti fissi lordi è diminuito dello 0,1%. Il deflatore delle
importazioni è aumentato del 3,7% e quello delle esportazioni del 2,3%”. All’occhio attento, questi deflatori sembrano, di primo acchito, un “po’ bizzarri”.
Secondo
Istat, il deflatore del PIL, ovvero l’indice aggregato dei prezzi dei
beni e servizi prodotti, è diminuito dello 0.6%. Ricordiamo che nel
primo trimestre 2017, coerentemente con il deflatore della spesa delle
famiglie, che è cresciuto dell’un per cento circa, l’indice dei prezzi
al consumo, che è un indicatore leggermente diverso, in quanto registra
l’andamento dei prezzi dei beni e servizi consumati dalle famiglie, si è
impennato leggermente da valori bassissimi, a causa di un aumento dei
prezzi energetici. Pare un po’ sospetto, dunque, che la variazione del
deflatore del PIL sia invece negativa, anche perché una variazione del
deflatore negativo è davvero una cosa rara, per chi queste cose le sa.
Ma non corriamo. Controlliamo prima a livello disaggregato le componenti
settoriali di questa variazione negativa, osservando la bizzarria dei
deflatori riportati nel comunicato Istat.
Il
grafico riportato mostra i contributi settoriali alla variazione
annuale del deflatore del PIL. Ogni deflatore settoriale è pesato per la
quota parte del settore nel valore aggiunto totale. La somma di ogni
contributo settoriale dona la variazione annuale del deflatore del PIL.
Alcuni contributi settoriali sono nella norma, laddove con questo si
intende in linea con i cambiamenti congiunturali più recenti. Alcuni
invece sono “strani”, ovvero secondo la stesso metro di giudizio, non in
linea con ciò che congiunturalmente sta accadendo nei mercati. I
settori “strani" sono indicati con barre colorate. Industria
manifatturiera e utilities sono in trend di discesa. Ammettiamo sia
plausibile, quando allo stesso tempo l’indice dei prezzi alla
produzione, secondo Istat,
è cresciuto a ritmi vicini al 3% annuo, nei primi mesi del 2017, e
sospendiamo il giudizio se sia – al limite – un bene o meno. L’unica
cosa certa è che questo andamento non potrà continuare in eterno. La PA è
invece molto strana. Il deflatore della PA cattura i prezzi dei beni e
servizi pubblici che entrano nel computo del prodotto lordo, valutati al
costo se non scambiati sul mercato. Una diminuzione del deflatore
significa, dunque, che i prezzi (o i costi) dei beni pubblici sono in
discesa. Vi è stata una spending review di cui non si è al corrente? La
cosa certa, di nuovo, è che non si potrà replicare in futuro all’infinito,
ammesso sia credibile che i prezzi della PA stia scendendo, quando mai
lo hanno fatto nei due anni precedenti? E il deflatore di imposte e
tasse? O seguono entrambi un andamento random, come pare essere, o la
stima è residuale. In mancanza di informazioni esatte accessibili sul
metodo di stima di questo indice, non presenti nel documento
metodologico, non resta che dubitare che il loro apporto fondamentale
nella dinamica negativa del deflatore totale possa continuare in
futuro. Questo esercizio certosino fa nascere il sospetto che il metodo
di stima di questi deflatori sia – quanto meno – poco robusto.
Che
questo sia il caso, lo si può controllare in modo più sistematico
analizzando la relazione strutturale di correlazione fra la dinamica del
deflatore totale del PIL e i prezzi al consumo. Intuitivamente, sebbene
i due indicatori non siano del tutto sovrapponibili, ci si aspetterebbe
una certa correlazione positiva. La cosa è confermata dal grafico
successivo, che mostra la correlazione fra la variazione annuale del
deflatore del PIL, e due misure di inflazione dei prezzi al consumo,
ovvero la crescita dell’indice generale dei prezzi, e la crescita
dell’indice esclusi i beni e servizi energetici, più proni a variazioni
di breve periodo dovute ai prezzi più “ballerini” dell’energia, come per
esempio nel caso del petrolio, il cui prezzo è molto più volatile
dell’indice generale.
Primo fatto da osservare: nel periodo considerato, ovvero dagli inizi del 2001, il deflatore del PIL non è mai stato negativo.
Nemmeno nel periodo recente di forte disinflazione. Secondo fatto da
osservare: nel periodo considerato, invece, l’inflazione generale, al netto dei beni energetici è stata positiva, superiore all’1% annuo.
Terzo fatto da osservare: il primo trimestre è davvero anomalo. Il punto
è il più basso, prendendo in considerazione la relazione media fra le
due variabili. È un outlier veramente considerevole. Questa
considerazione vale molto di più nel caso del grafico a destra, che
mostra le relazione fra cambiamenti del deflatore e dinamica dei prezzi
al consumo esclusi i beni energetici. Come si vede a occhio, i punti si
distribuiscono in modo “normale” attorno alla retta di regressione. Se
si mostrassero i residui della regressione, ovvero la differenza fra
valori osservati e predizione, essi sarebbero a occhio indipendentemente
e identicamente distribuiti. Ovvero, in parole poverissime, la
relazione fra le due variabili è talmente ben “strutturata” che ogni
valore anomalo è davvero sospetto! È davvero un valore “non normale”. A
cosa si deve questa bizzarria? Impossibile fare il processo alle
intenzioni, e avere la prova schiacciante di una manipolazione ad hoc
dei dati. Per restare conservativi, non resta che segnalare una cruda
verità. La BOTTOM LINE è questa: IL PIL NOMINALE È FERMO.
Quello reale rimbalza per deflatori più o meno miracolosi. Con una
semplice analisi controfattuale intuitiva, se il deflatore totale fosse
stato in linea con le aspettative (ovvero stesse sulla linea di
regressione), la crescita del PIL reale sarebbe molto più bassa, quasi
inesistente nei confronti dello stesso trimestre dell’anno precedente.
Chi si “inventa” una accelerazione della crescita del prodotto italiano e
giubila anzitempo dovrebbe dubitare fortemente che questo sia il caso.
Se il PIL nominale è fermo, come si riduce il debito pubblico nominale,
che continua inesorabilmente la sua corsa? Chi produce le statistiche,
come Istat, dovrebbe invece considerare quanto meno metodi migliori di
stima. “Essere beccati” nella produzione di dati ballerini, per usare un
eufemismo, non è mai bello. Chi legge le statistiche, pur cosciente dei
limiti metodologici, si aspetta di poter riporre la sua fiducia nella
qualità del dato. Se questo non fosse il caso, gli utilizzatori
cercherebbero nuove fonti. Il rischio di non essere più creduti, per
inefficienza o altro, è troppo grande per essere corso. Il caso Argentina è lì a ricordarlo.
Nessun commento:
Posta un commento