1. Il dibattito sulla cosiddetta Industria 4.0
– la robotizzazione del lavoro – contiene ben poche novità, alcuni
elementi di verità, profonde esagerazioni e una evidente finalità
ideologica.
2. L’intero dibattito scaturisce da una ricerca del 2013: quella di Frey e Osborne (Oxford). Ogni articolo o discorso successivo assume tale ricerca come base di ragionamento. Frey
e Osborne calcolano che negli Usa il 47% dei posti di lavoro sarà
cancellato dall’automazione nei prossimi anni. Ma le conclusioni di
Frey e Osborne sono già state ridimensionate da indagini successive. Uno studio pubblicato dall’Ocse (Arntz, Gregory e Zierahn) riduce tale percentuale al 9%.
3. La ricerca
economica al servizio del capitale è incapace di considerare il
funzionamento del capitalismo nel suo complesso. Essa assume il punto di
vista del singolo capitalista. E spesso di quello di un
singolo settore. Lo fa per servilismo o per deformazione congenita, poco
importa. Così le recenti ricerche assumono il punto di vista del
mercato della robotica e dei settori ad esso più collegati.
4. Le esigenze puntuali di
propaganda del capitale selezionano poi i tempi e i modi con cui tali
studi guadagnano le luci della ribalta. Così la ricerca di Frey e
Osborne torna periodicamente alle cronache, nelle dichiarazioni
dell’Fmi, della Banca Mondiale, di questo o quel Ministro. Rimbalza
infine nella testa dei dirigenti sindacali e dei loro convegni. I fiumi
di questa propaganda giungono sempre allo stesso mare: il superamento
della forza-lavoro e in ultima analisi della “vecchia” lotta di classe.
Sulla base di questo assunto, direzione aziendale, governo e vertici
sindacali convergono: il vecchio capitalismo lascia spazio a qualcosa di
nuovo, dove lo scontro tra le classi in un modo o nell’altro non ha più
senso. All’inizio degli anni ’90 nelle diverse facoltà economiche si
teorizzava il superamento del lavoro. E’ del 1995 lo studio di Jeremy
Rifkin titolato “La fine del lavoro”. I primi dibattiti a riguardo sono
degli anni ’70.
5. Questo significa
che il processo di automazione del lavoro sia invenzione? Al contrario.
Esso è una caratteristica immanente del capitale. Non è la base di “un
capitalismo nuovo”, né un processo che non abbiamo mai osservato. Il
capitalismo si caratterizza per il suo bisogno di rivoluzionare
continuamente i metodi di produzione. La concorrenza tra
capitali genera il bisogno di smerciare a costi minori. Questo determina
a sua volta la necessità di comprimere i salari da un lato e dall’altro
di applicare tecnica e scienza al lavoro per aumentarne la
produttività.
6. Il sensazionalismo
giornalistico si ciba della notizia di questa o quella azienda che ha
automatizzato intere linee, delle foto di questa o quella catena di
montaggio piena di robot. I funzionamenti complessivi del capitalismo
sono ben altra cosa. Le immagini delle linee iperautomatizzate
fanno il paio con quelle dei bambini che cuciono i palloni. Esse non
sono due fotogrammi distanti nel tempo. Non rappresentano un prima e un
dopo. Sono due condizioni che coesistono e tra loro correlate. Il capitalismo non ha sviluppo lineare, ma diseguale e combinato. E tale disuguaglianza combinata è destinata ad aumentare.
7. Il capitale ci viene così
rappresentato come il paladino dell’innovazione tecnologica. Secondo
tale rappresentazione al movimento operaio non resterebbe che
accomodarsi nel museo della storia. Chi si oppone sarebbe un inguaribile
luddista (da Ned Ludd,
il luddismo fu un movimento che si sviluppò agli albori del movimento
operaio contro l’introduzione del telaio meccanico). Il piano va invece
completamente ribaltato: non solo il capitale non riesce a
sviluppare compiutamente l’innovazione tecnologica, ma in un certo grado
è costretto anche a frenarla.
8. La disoccupazione ci viene
così rappresentata come un “processo oggettivo”. Un processo a cui i
sindacati si devono arrendere: al massimo viene concesso un dibattito
sui sussidi di disoccupazione. La proposta di reddito minimo che
ne consegue non ha nulla a che vedere con la rivendicazione di un
salario minimo garantito sviluppata negli anni da lavoratori e
disoccupati. Quello di cui sta discutendo il capitale è di continuare a
finanziare forme di ammortizzatori sociali con cui rendere più
accettabile il licenziamento. Ne discutono ora con particolare
forza perché si addensano i segnali di un nuovo picco della
sovrapproduzione e di calo dei profitti. E’ all’orizzonte un nuovo
walzer di fusioni e ristrutturazioni aziendali, da presentare come
oggettive conseguenze del “progresso”.
9. Tra il 1993 ed il 2007
l’industria americana ha introdotto un robot ogni mile operai. Il
mercato della robotica valeva 71 miliardi di dollari nel 2015, 91 nel
2016 e potrebbe arrivare a 188 nel 2020. Che cosa è successo in pratica?
Come spiegava Marx , la sovrapproduzione di beni di consumo
spinge il capitale a sviluppare il mercato dei beni strumentali. In una
situazione in cui il mercato del consumo è saturo, il capitale si
indirizza allo sviluppo del mercato dei beni strumentali: le aziende
aumentano la produzione di macchinari, indirizzata alle aziende stesse.
In poche parole, la sovrapproduzione espande il mercato dei macchinari
per la produzione. Il mercato dei macchinari per la produzione aumenta
la sovrapproduzione.
10. Con la crisi del
2008 il capitale si è indirizzato a sviluppare ancora di più il mercato
“nuovo” della robotica. Negli Usa c’è stata una fioritura esuberante e
irrazionale di startup del settore. Tale scelta è stata codificata in
studi come quello di Frey e Osborne, i quali eleggono a tendenza storica
generale un aspetto unilaterale del processo. Tale sviluppo
“esuberante” della robotica sta già generando nuova sovrapproduzione e
calo tendenziale del saggio di profitto. I profitti lordi delle aziende
sono cresciuti di 3,8 volte dal 1980 al 2013. Si stima che cresceranno
di 1,8 volte dal 2013 al 2025 (studio McKinsey). Per compensare tale
tendenza economica, è necessario abbassare ulteriormente i salari e
aumentare la giornata lavorativa.
11. Arriviamo così al punto: tecnicamente non esiste nessun limite alla completa automazione del lavoro. Dal
punto di vista del progresso storico questa automazione potrebbe
liberare il tempo dell’umanità. Sotto il capitalismo invece non
determina né progresso né liberazione del tempo.
12. Per
essere ammortizzata e ripagata, l’automazione necessita di uno smercio
su larga scala. Nessuno userebbe una tipografia industriale per fare
qualche fotocopia. Ma tale smercio è limitato dallo stesso funzionamento
del capitalismo, il quale non produce per le esigenze generali
dell’umanità ma per il cosiddetto “mercato solvibile”. L’aumento
della capacità produttiva di latte non determina latte per tutti i
bambini. Determina il calo del valore di scambio del latte, un processo
di concentrazione del capitale con il fallimento delle aziende più
piccole, il sorgere del monopolio e di quote che limitano la produzione
di latte per contrastare la caduta del saggio di profitto. Semplificando
estremamente, aumentando la produttività del lavoro, si producono
maggiori valori d’uso in minore tempo. Ogni valore d’uso quindi avrà
minore valore di scambio. Se l’umanità dispone di maggiori valori d’uso,
l’azienda capitalista vede diminuiti i propri valori di scambio.
13. Quelli che vengono
presentati poi come processi “nuovi” sono in realtà l’ultima tappa di
una automazione già fortemente matura. Se il mercato non si espande,
perché saturo, le aziende finiscono per applicare nuove innovazioni allo
stesso processo produttivo. Ad un certo grado di sviluppo, questo
determina crescite estremamente marginali della produttività.
Se si da un trattore a un contadino si aumenta esponenzialmente la
produzione. Con due trattori la si raddoppia ulteriormente. Ma se si
mettono a lavorare quattro o cinque trattori in un campo limitato,
l’introduzione di ogni nuovo trattore aumenterà sempre più marginalmente
la produttività. Ad un certo
grado l’introduzione di nuovi macchinari si riflette in un aumento della
produttività solo se si espande il campo. Così insieme agli studi
sull’automazione, stanno proliferando anche gli studi sul mistero della
“produttività perduta”. Mentre nello scorso secolo la produzione
oraria è aumentata fino a 13 volte, dal 2000 in poi tale crescita è
stata marginale se non addirittura negativa (Erikson, Weigel). Eppure questi anni sono stati gli anni della New Economy, della digitalizzazione ecc.
14. Il “nuovo”
capitalismo assume così sempre di più l’aspetto della “vecchia”
barbarie. L’intero castello del capitalismo “automatizzato” torna sempre
a riposare sulle stesse fondamenta: la maggiore automazione, in un
mercato sempre più saturo e con una tendenza del calo del saggio di
profitto, deve essere “compensata” da una nuova compressione salariale e
da un aumento della giornata lavorativa. Attorno alla fabbrica automatizzata si sviluppa un attacco devastante a qualsiasi condizione lavorativa sia comprimibile: la logistica
con condizioni di lavoro schiavistiche ad esempio ne è il perfetto
completamento. Le macchine per essere ripagate devono lavorare 24 ore su
24, 7 giorni su 7. Il ciclo continuo diventa così l’imperativo
categorico di manutentori, tecnici e infine distributori, venditori,
facchini. E al completamento di questo processo il capitale bussa alle
porte anche dei salari dei quadri e dei tecnici, i quali devono
adeguarsi all’epoca di sacrifici generalizzati.
15. Maggiore
automazione significa infine minore proletarizzazione? No, in nessun
modo. L’esatto contrario. Se l’automazione espelle parte della forza
lavoro dal processo produttivo, ha un effetto ancora più devastante
sulla piccola proprietà. Il capitale esplora, scopre, conquista
ogni mercato possibile. Ogni piccola produzione, se redditizia, viene
serializzata, conquistata e portata a monopolio. Nel mondo ci sono oggi
2,8 miliardi di proletari (42% popolazione). Erano 1,7 nel 1980 (37%). Quelli che un tempo erano “lavoretti”, oggi sono sistematizzati e inclusi in “app” controllate da multinazionali.
14. Questo significa
che sopravvivono solo le aziende automatizzate? Tutto il contrario. Ad
un certo grado di sviluppo, competere in termini di investimenti
tecnologici diventa semplicemente impossibile per interi settori
dell’economia. La saturazione del mercato renderebbe
impossibile ripagare tali investimenti. Un settore del capitale prende
quindi la strada esattamente opposta. Per competere con i grandi colossi
“automatizzati” può solo spingere sulla compressione delle condizioni
di lavoro. Riemergono condizioni semi-schiavistiche: 168 milioni di
bambini lavorano oggi in condizioni di supersfruttamento.
15. I
bambini schiavi e i robot, i disoccupati e gli straordinari, la fame e
la sovrapproduzione, il consumismo sfrenato e la povertà assoluta,
l’obesità e la carestia, profitti ipermiliardari e il calo tendenziale
del saggio di profitto: questo convive nel capitalismo. E in queste contraddizioni si alza e cresce la barbarie. La guerra è l’unica chiave che “risolve” in condizioni di mercato.
16. Non abbiamo
nessuna paura dell’automazione. Al contrario, siamo eccitati dalla
possibilità di eliminare il lavoro per questa via. Ma tale via è
ostacolata dal capitalismo. La riduzione dell'orario di lavoro a
parità di salario è parte del nostro programma. E tale programma può
essere ottenuto solo sotto la bandiera della rivoluzione. L’unica che
può ammantarsi della parola “progresso”.
Nessun commento:
Posta un commento