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20/06/2017

Nuova tecnologia, vecchio capitale: perché “automazione” non vuol dire Rivoluzione

1. Il dibattito sulla cosiddetta Industria 4.0 – la robotizzazione del lavoro – contiene ben poche novità, alcuni elementi di verità, profonde esagerazioni e una evidente finalità ideologica.

2. L’intero dibattito scaturisce da una ricerca del 2013: quella di Frey e Osborne (Oxford). Ogni articolo o discorso successivo assume tale ricerca come base di ragionamento. Frey e Osborne calcolano che negli Usa il 47% dei posti di lavoro sarà cancellato dall’automazione nei prossimi  anni. Ma le conclusioni di Frey e Osborne sono già state ridimensionate da indagini successive. Uno studio pubblicato dall’Ocse (Arntz, Gregory e Zierahn) riduce tale percentuale al 9%.

3. La ricerca economica al servizio del capitale è incapace di considerare il funzionamento del capitalismo nel suo complesso. Essa assume il punto di vista del singolo capitalista. E spesso di quello di un singolo settore. Lo fa per servilismo o per deformazione congenita, poco importa. Così le recenti ricerche assumono il punto di vista del mercato della robotica e dei settori ad esso più collegati.

4. Le esigenze puntuali di propaganda del capitale selezionano poi i tempi e i modi con cui tali studi guadagnano le luci della ribalta. Così la ricerca di Frey e Osborne torna periodicamente alle cronache, nelle dichiarazioni dell’Fmi, della Banca Mondiale, di questo o quel Ministro. Rimbalza infine nella testa dei dirigenti sindacali e dei loro convegni. I fiumi di questa propaganda giungono sempre allo stesso mare: il superamento della forza-lavoro e in ultima analisi della “vecchia” lotta di classe. Sulla base di questo assunto, direzione aziendale, governo e vertici sindacali convergono: il vecchio capitalismo lascia spazio a qualcosa di nuovo, dove lo scontro tra le classi in un modo o nell’altro non ha più senso. All’inizio degli anni ’90 nelle diverse facoltà economiche si teorizzava il superamento del lavoro. E’ del 1995 lo studio di Jeremy Rifkin titolato “La fine del lavoro”. I primi dibattiti a riguardo sono degli anni ’70.

5. Questo significa che il processo di automazione del lavoro sia invenzione? Al contrario. Esso è una caratteristica immanente del capitale. Non è la base di “un capitalismo nuovo”, né un processo che non abbiamo mai osservato. Il capitalismo si caratterizza per il suo bisogno di rivoluzionare continuamente i metodi di produzione. La concorrenza tra capitali genera il bisogno di smerciare a costi minori. Questo determina a sua volta la necessità di comprimere i salari da un lato e dall’altro di applicare tecnica e scienza al lavoro per aumentarne la produttività.

6. Il sensazionalismo giornalistico si ciba della notizia di questa o quella azienda che ha automatizzato intere linee, delle foto di questa o quella catena di montaggio piena di robot. I funzionamenti complessivi del capitalismo sono ben altra cosa. Le immagini delle linee iperautomatizzate fanno il paio con quelle dei bambini che cuciono i palloni. Esse non sono due fotogrammi distanti nel tempo. Non rappresentano un prima e un dopo. Sono due condizioni che coesistono e tra loro correlate. Il capitalismo non ha sviluppo lineare, ma diseguale e combinato. E tale disuguaglianza combinata è destinata ad aumentare.

7. Il capitale ci viene così rappresentato come il paladino dell’innovazione tecnologica. Secondo tale rappresentazione al movimento operaio non resterebbe che accomodarsi nel museo della storia. Chi si oppone sarebbe un inguaribile luddista (da Ned Ludd, il luddismo fu un movimento che si sviluppò agli albori del movimento operaio contro l’introduzione del telaio meccanico). Il piano va invece completamente ribaltato: non solo il capitale non riesce a sviluppare compiutamente l’innovazione tecnologica, ma in un certo grado è costretto anche a frenarla. 

8. La disoccupazione ci viene così rappresentata come un “processo oggettivo”. Un processo a cui i sindacati si devono arrendere: al massimo viene concesso un dibattito sui sussidi di disoccupazione. La proposta di reddito minimo che ne consegue non ha nulla a che vedere con la rivendicazione di un salario minimo garantito sviluppata negli anni da lavoratori e disoccupati. Quello di cui sta discutendo il capitale è di continuare a finanziare forme di ammortizzatori sociali con cui rendere più accettabile il licenziamento. Ne discutono ora con particolare forza perché si addensano i segnali di un nuovo picco della sovrapproduzione e di calo dei profitti. E’ all’orizzonte un nuovo walzer di fusioni e ristrutturazioni aziendali, da presentare come oggettive conseguenze del “progresso”.

9. Tra il 1993 ed il 2007 l’industria americana ha introdotto un robot ogni mile operai. Il mercato della robotica valeva 71 miliardi di dollari nel 2015, 91 nel 2016 e potrebbe arrivare a 188 nel 2020. Che cosa è successo in pratica? Come spiegava Marx , la sovrapproduzione di beni di consumo spinge il capitale a sviluppare il mercato dei beni strumentali. In una situazione in cui il mercato del consumo è saturo, il capitale si indirizza allo sviluppo del mercato dei beni strumentali: le aziende aumentano la produzione di macchinari, indirizzata alle aziende stesse. In poche parole, la sovrapproduzione espande il mercato dei macchinari per la produzione. Il mercato dei macchinari per la produzione aumenta la sovrapproduzione.

10. Con la crisi del 2008 il capitale si è indirizzato a sviluppare ancora di più il mercato “nuovo” della robotica. Negli Usa c’è stata una fioritura esuberante e irrazionale di startup del settore. Tale scelta è stata codificata in studi come quello di Frey e Osborne, i quali eleggono a tendenza storica generale un aspetto unilaterale del processo. Tale sviluppo “esuberante” della robotica sta già generando nuova sovrapproduzione e calo tendenziale del saggio di profitto. I profitti lordi delle aziende sono cresciuti di 3,8 volte dal 1980 al 2013. Si stima che cresceranno di 1,8 volte dal 2013 al 2025 (studio McKinsey). Per compensare tale tendenza economica, è necessario abbassare ulteriormente i salari e aumentare la giornata lavorativa.

11. Arriviamo così al punto: tecnicamente non esiste nessun limite alla completa automazione del lavoro. Dal punto di vista del progresso storico questa automazione potrebbe liberare il tempo dell’umanità. Sotto il capitalismo invece non determina né progresso né liberazione del tempo.

12. Per essere ammortizzata e ripagata, l’automazione necessita di uno smercio su larga scala. Nessuno userebbe una tipografia industriale per fare qualche fotocopia. Ma tale smercio è limitato dallo stesso funzionamento del capitalismo, il quale non produce per le esigenze generali dell’umanità ma per il cosiddetto “mercato solvibile”. L’aumento della capacità produttiva di latte non determina latte per tutti i bambini. Determina il calo del valore di scambio del latte, un processo di concentrazione del capitale con il fallimento delle aziende più piccole, il sorgere del monopolio e di quote che limitano la produzione di latte per contrastare la caduta del saggio di profitto. Semplificando estremamente, aumentando la produttività del lavoro, si producono maggiori valori d’uso in minore tempo. Ogni valore d’uso quindi avrà minore valore di scambio. Se l’umanità dispone di maggiori valori d’uso, l’azienda capitalista vede diminuiti i propri valori  di scambio.

13. Quelli che vengono presentati poi come processi “nuovi” sono in realtà l’ultima tappa di una automazione già fortemente matura. Se il mercato non si espande, perché saturo, le aziende finiscono per applicare nuove innovazioni allo stesso processo produttivo. Ad un certo grado di sviluppo, questo determina crescite estremamente marginali della produttività. Se si da un trattore a un contadino si aumenta esponenzialmente la produzione. Con due trattori la si raddoppia ulteriormente. Ma se si mettono a lavorare quattro o cinque trattori in un campo limitato, l’introduzione di ogni nuovo trattore aumenterà sempre più marginalmente la produttività. Ad un certo grado l’introduzione di nuovi macchinari si riflette in un aumento della produttività solo se si espande il campo. Così insieme agli studi sull’automazione, stanno proliferando anche gli studi sul mistero della “produttività perduta”. Mentre nello scorso secolo la produzione oraria è aumentata fino a 13 volte, dal 2000 in poi tale crescita è stata marginale se non addirittura negativa (Erikson, Weigel). Eppure questi anni sono stati gli anni della New Economy, della digitalizzazione ecc.

14. Il “nuovo” capitalismo assume così sempre di più l’aspetto della “vecchia” barbarie. L’intero castello del capitalismo “automatizzato” torna sempre a riposare sulle stesse fondamenta: la maggiore automazione, in un mercato sempre più saturo e con una tendenza del calo del saggio di profitto, deve essere “compensata” da una nuova compressione salariale e da un aumento della giornata lavorativa. Attorno alla fabbrica automatizzata si sviluppa un attacco devastante a qualsiasi condizione lavorativa sia comprimibile: la logistica con condizioni di lavoro schiavistiche ad esempio ne è il perfetto completamento. Le macchine per essere ripagate devono lavorare 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Il ciclo continuo diventa così l’imperativo categorico di manutentori, tecnici e infine distributori, venditori, facchini. E al completamento di questo processo il capitale bussa alle porte anche dei salari dei quadri e dei tecnici, i quali devono adeguarsi all’epoca di sacrifici generalizzati.

15. Maggiore automazione significa infine minore proletarizzazione? No, in nessun modo. L’esatto contrario. Se l’automazione espelle parte della forza lavoro dal processo produttivo, ha un effetto ancora più devastante sulla piccola proprietà. Il capitale esplora, scopre, conquista ogni mercato possibile. Ogni piccola produzione, se redditizia, viene serializzata, conquistata e portata a monopolio. Nel mondo ci sono oggi 2,8 miliardi di proletari (42% popolazione). Erano 1,7 nel 1980 (37%). Quelli che un tempo erano “lavoretti”, oggi sono sistematizzati e inclusi in “app” controllate da multinazionali. 

14. Questo significa che sopravvivono solo le aziende automatizzate? Tutto il contrario. Ad un certo grado di sviluppo, competere in termini di investimenti tecnologici diventa semplicemente impossibile per interi settori dell’economia. La saturazione del mercato renderebbe impossibile ripagare tali investimenti. Un settore del capitale prende quindi la strada esattamente opposta. Per competere con i grandi colossi “automatizzati” può solo spingere sulla compressione delle condizioni di lavoro. Riemergono condizioni semi-schiavistiche: 168 milioni di bambini lavorano oggi in condizioni di supersfruttamento.

15. I bambini schiavi e i robot, i disoccupati e gli straordinari, la fame e la sovrapproduzione, il consumismo sfrenato e la povertà assoluta, l’obesità e la carestia, profitti ipermiliardari e il calo tendenziale del saggio di profitto: questo convive nel capitalismo. E in queste contraddizioni si alza e cresce la barbarie. La guerra è l’unica chiave che “risolve” in condizioni di mercato.

16. Non abbiamo nessuna paura dell’automazione. Al contrario, siamo eccitati dalla possibilità di eliminare il lavoro per questa via. Ma tale via è ostacolata dal capitalismo. La riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario è parte del nostro programma. E tale programma può essere ottenuto solo sotto la bandiera della rivoluzione. L’unica che può ammantarsi della parola “progresso”.

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