Per la seconda volta nel giro di una settimana ci si trova a dover sviluppare un avvio di analisi attorno a risultati elettorali principiando dalla constatazione che il totale dei voti validi è molto lontano dalla metà degli aventi diritto al voto.
E’ accaduto nell’occasione delle legislative francesi dello scorso 18 giugno e si verifica di nuovo con l’esito dei ballottaggi delle elezioni comunali parziali svoltesi in Italia domenica scorsa, 25 giugno.
Il totale delle elettrici e degli elettori aventi diritto nei comuni capoluogo (escluso Trapani, per i noti motivi) nei quali si svolgeva il turno di ballottaggio era di 2.172.922 unità.
Il totale dei voti validi assegnati ai candidati sindaci è stato di 940.244 corrispondente al 43,27%: un 40% superato a fatica.
Inutile sottolineare ancora una volta che non si tratta di fenomeni fisiologici o legati alla stagionalità dell’evento: quando la diserzione dalle urne (ormai acclarato che si tratta, in gran parte, di una precisa scelta politica) raggiunge questi livelli è l’intero sistema ad entrare in difficoltà e va a repentaglio non tanto l’illusoria stabilità dei governi, locali o nazionali, ma la tenuta dell’intero impianto democratico.
Nel “caso italiano” sicuramente appare priva di rappresentanza una vasta area politica, quella che si era riconosciuta ed era appartenuta (secondo il concetto del voto di appartenenza prevalente su quello di opinione o su quello di scambio) alla sinistra storica di derivazione comunista e socialista.
Da notare, inoltre, come sia risultata molto alta la percentuale delle elettrici e degli elettori che nel primo turno avevano espresso il loro voto a favore di candidate/i poi esclusi dal ballottaggio che non si sono recati alle urne.
Nel corso del primo turno del 18 giugno l’insieme dei voti raccolti dai candidati che – appunto – sarebbero rimasti esclusi dal ballottaggio è stato di 418.243 voti.
Di questi soltanto 170.315 sono tornati ai candidati presenti al ballottaggio: di conseguenza 247.928 elettrici ed elettori che avevano deposto il loro voto nell’urna scegliendo candidate/i esclusi sono rimasti lontani dai seggi: una percentuale del 59,27%.
Proviamo allora ad entrare nel merito di alcuni aspetti più legati all’analisi degli schieramenti politici.
Appare evidente,prima di tutto, che c’è uno sconfitto ed è il PD con il variegato schieramento di centro – sinistra (schieramento di centrosinistra che, al primo turno, molto spesso non era sicuramente risultato al completo (a L’Aquila, Parma, Frosinone, Genova, la Spezia – in gran numero – Como, Lodi, Monza, Asti, Lecce, Taranto, Verona, Gorizia liste di sinistra erano presenti al primo turno in forma autonoma).
In ogni caso i candidati sindaci arrivati al ballottaggio e appartenenti a schieramenti imperniati sul PD avevano ottenuto al primo turno 315.761 voti saliti a 377.075 al ballottaggio (più 61.314).
I candidati sindaci arrivati al ballottaggio con lo schieramento di centro destra avevano ottenuto al primo turno 378.658 voti saliti a 458.553 al ballottaggio (più 79.895).
Grande interesse solleva il raffronto con le elezioni precedenti (2012 in gran parte, ma anche 2013 e 2014) negli stessi comuni nei quali allora si svolse il ballottaggio ripetuto poi nell’occasione di domenica scorsa.
In quel caso i candidati del centro sinistra ottennero 449.794 voti (un calo di 72.715 suffragi) e quelli del centro destra 332.710 (un incremento di 125.843 voti).
Ancora qualche annotazione sparsa riguardante specifiche situazioni.
Tra il primo e il secondo turno il candidato del centro destra (poi eletto Sindaco) ha perduto voti: da 15.868 a 13.218 mentre il suo competitor del M5S è cresciuto molto da 5.099 a 10.859.
Effetto rovesciato a Padova: il candidato del centrosinistra (eletto) ha incrementato il proprio bottino di quasi 20.000 voti (incamerando completamente una lista civica che ne aveva ottenuto 19.000) mentre quello del centrodestra è salito di una cifra inferiore ai 6.000 voti.
L’epicentro del terremoto però per il PD non è Genova (città rossa ma di forti tradizioni democristiane, con la Curia più arretrata d’Italia quella del Cardinal Siri: la città di Taviani, che ha avuto sindaci DC di grande spessore come Pertusio, Piombino, Pedullà) ma La Spezia.
La Spezia è stata davvero la città più rossa d’Italia, con il 75% alla Repubblica e la vittoria nel 1948 al Fronte: la caduta di La Spezia, città fra l’altro d’origine della competitrice perdente alla Presidenza della Regione nel 2015, può davvero essere catalogata come appartenente alla famosa “sindrome di Castellamare”. In ogni caso debbono essere segnalati due dati: il candidato del centro destra ha doppiato quello del centro sinistra nel recupero – voti tra i due turni (oltre 7.000 a 3.600) ed inoltre vanno letti i dati delle precedenti elezioni comunali. Candidato del centro sinistra 21.448 suffragi (oggi 13.771), candidato del centro destra 6.434 (oggi 20.636). Quanto abbia giocato l’orrore di Piazza Verdi tocca agli spezzini stabilirlo.
Certo che La Spezia al centro destra rappresenta un segnale molto più forte che non quello che arriva da Genova.
Da notare ancora la vittoria “in discesa” del centro destra a Rieti ottenuta per soli 100 voti di distacco perdendone tra un turno e l’altro 478.
Clamoroso il caso dell’Aquila laddove il centro sinistra ha perso oltre 4.000 voti tra il primo e il secondo turno cedendo il Comune (anche in questo caso sorpasso “in discesa” perché il centro destra nel frattempo ne aveva guadagnati meno di 2.000).
Balzo all’indietro anche a Catanzaro per il centro sinistra arretrato di oltre 4.000 voti in 15 giorni: in questo caso però il successo del candidato di centro destra era dato per inscalfibile e questo ha demotivato il corpo elettorale.
Questi dai possono apparire sufficienti per un primo giudizio politico d’insieme.
Se poi si volesse entrare nel merito delle ragioni politiche di questo stato di cose mi permetto di suggerire tre spunti di riflessione:
1) La politica del Governo. Sarebbe interessante sapere com’è andato il voto nel pomeriggio di domenica scorsa allorquando chi si è recato nei seggi aveva appreso dell’operazione salvataggio Banche Venete; ma è soltanto un esempio;
2) I tanti casi di arroganza e di malgoverno in sede locale (per informazioni rivolgersi ai risultati liguri, a partire nel 2015 da quello regionale e nel 2016 da quello di Savona).
3) La linea politica del PD al riguardo delle condizioni materiali di vita e di lavoro di chi si trova in condizione subalterna (operai, impiegati pubblici, insegnanti), il vero e proprio tartassamento attuato nei confronti dei pensionati da molti anni considerati parco buoi. L’esasperazione delle sfruttamento e della precarietà verso il lavoro dei giovani in settori particolarmente esposti, pensiamo a chi lavora nell’hi-tech o nella logistica.
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