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31/07/2012

Ciarlatani pericolosi: Eugenio Scalfari

Il mondo giornalistico ufficiale italiano si può suddividere in quattro grandi categorie: macchiette, apprendisti stregoni, ciarlatani innocui e pericolosi. Alla categoria delle macchiette appartengono i giornalisti del Tg1 e del Tg3, il Tg2 si suppone sia visto solo da chi lo trasmette, per i quali gli ultimi sei mesi di vita politica sono stati una serie di successi di Mario Monti intervallati da decisioni epocali e risolutive dei vertici europei. Chissà se ogni tanto si riguardano i tg di repertorio e se, nel guardarli, prevale l’ilarità o la vergogna. Gli apprendisti stregoni sono quella categoria che ha preso sul serio il compito della dissoluzione del paese. Ogni cosa che accade sanno già cosa dire: che ci vogliono più privatizzazioni, ulteriori tagli alla spesa pubblica, maggiore  libertà di licenziamento. Per i banchieri che promuovono queste politiche Roubini ha predetto il rischio di essere impiccati agli angoli delle strade. Ma i nostri apprendisti stregoni non battono ciglio. Eventualmente, ben protetti dalla polizia, i nostri apprendisti stregoni commenteranno che i banchieri sono stati impiccati per non aver avuto il “coraggio delle riforme” (che consiste nel privatizzare, smantellare e licenziare ulteriormente). Fino a quando la folla non entrerà negli studi televisivi, si intende.

Poi ci sono i ciarlatani innocui. Quelli che non ascolta più nessuno anche se continuano ad esercitare, e ben pagati, la professione. I Sallusti, i Belpietro, i Ferrara (anche quelli dell’Unità, seppur pagati meno) che dureranno fino a quando l’editore, si spera presto, non chiuderà i battenti. Sono i residui di un'epoca di rara, crassa cialtroneria del giornalismo italiano, di una involuzione linguistica e lessicale inversamente proporzionale a quanto accumulato in banca. Perchè tra fare il servo e il servo del potere l’abisso esistenziale è lo stesso ma la differenza di ingaggio, in effetti, è sempre stata considerevole.

Infine ci sono i ciarlatani pericolosi. Quelli che, per trascorsi passati o per mitologie mal trasmesse, hanno influenza e fama di serietà nell’opinione pubblica. Promuovono le stesse politiche degli apprendisti stregoni ma con apparente minor zelo, parlando come avvolti da un’aura di rigore e riservatezza. Sono quelli che, in caso di crollo, sanno che si salveranno comunque. A preservarli da ogni colpa mondana sarà proprio l’aura di cui sono avvolti: responsabilità sarà, nel caso, di chi non ha saputo ascoltare i loro olimpici consigli. Il decano di questa categoria è Eugenio Scalfari. Sul personaggio è inutile scavare in un passato denso di capitoli. E’ semplicemente tra i responsabili morali di quello che stiamo vivendo. Visto che trasuda moralità ad ogni sintagma perlomeno questo primato in materia gli va attribuito. Detto questo bisogna dire che il giornale di cui è fondatore e padre spirituale ha cominciato, nel tentativo di fare propaganda al governo Monti come i residui dell’istituto Luce la facevano alla repubblica di Salò (cioè oltre ogni evidenza e a sconfitta storica conclamata), a dare notizie palesemente false.

Un esempio? Nel fine settimana si trattava di costruire un coro entusiasta alle dichiarazioni di Mario Draghi sull’euro. Poco importa se gli analisti degli hedge fund, i fondi che fanno il gioco grosso in borsa, non ci credono o se le dichiarazioni di Draghi sono così generiche, e anche ambigue, da rischiare l’effetto boomerang. Va creata comunque una cornice positiva, specie per il lettore di oggi che dovrebbe essere anche l’elettore di centrosinistra di domani. E allora cosa meglio di mettere sul sito di Repubblica, assieme alle dichiarazioni di Monti, la notizia che gli Stati Uniti sono in ripresa economica? In effetti fa tanto quadro globale di ripresa economica, da Draghi ad Obama. Peccato che la notizia sia falsa. Gli Stati Uniti hanno rallentato la crescita almeno di mezzo punto dall’ultimo trimestre, e la notizia è commentata con preoccupazione ovunque (dal Financial Times all’Handelsblatt) salvo che nel magico mondo di Repubblica. Quello costellato di successi di Monti e Draghi. E la notizia ha destato tale preoccupazione negli Usa, che il presidente della Federal Reserve si è detto pronto, nel caso, a fare una nuova immissione di moneta nei mercati e nell’economia. Mossa disperata perchè genera inflazione in Cina, alimentando  un altro problema dell’economia globale, e prezzi altissimi per i generi alimentari nei paesi più deboli (come in Tunisia, Libia ed Egitto e sappiamo come è andata) e aumento dei costi delle materie prime, affievolendo la mitica ripresa. Come si capisce la notizia del rallentamento dell’economia americana getta  una luce sinistra sulle frasi di Draghi sull’euro. Una cosa è dire “sono disposto a tutto per l’euro”, come ha fatto il presidente della Bce, in un contesto di ripresa americana. Un altro è dirlo con gli Usa disposti, come stanno ipotizzando, a fare una nuova iniezione di liquidità per far ripartire la loro economia rischiando di sinistrare seriamente assetti globali (già perchè se la Cina ne risente come è già accaduto, addio “crescita” europea e hai voglia di Draghi). Ma nel magico mondo di Repubblica la realtà non può proprio essere di casa. Va tenuto in piedi, ad ogni costo, quel campo di forza di illusioni in forma di notizia che garantisce la sopravvivenza di quel quarto di elettorato che vota Pd, le cui avanguardie acquistano i prodotti del quotidiano fondato da Scalfari. E così nel domenicale Eugenio Scalfari ha scritto un corsivo del genere “solo Mario Draghi ci può salvare”. Una mitologia, quella di Scalfari, che tenta di alimentarne un’altra: quella di Draghi. Nella cultura liberale funziona così: è una procedura di costruzione dell’aura del personaggio, che affonda nella cultura medioevale altro che modernità.
 
Ma, a parte il marketing, cosa dice Eugenio Scalfari?
Il fondatore di Repubblica afferma, semplificando sul funzionamento dei meccanismi decisionali della Bce, che Draghi può salvarci aggirando il divieto statutario della Banca centrale europea di acquistare direttamente titoli pubblici (facendo così scendere il loro valore e quindi il debito pubblico). Questo passaggio, a parte che non funziona da due anni, sarebbe propedeutico prima ad un successivo “salvataggio” dell’Italia grazie allo Sme e poi ad una compita unione politica europea (a partire dal 2018, prevede la profezia scalfariana). Ora finchè si tratta di vendere saghe, fole e leggende a lettori ed elettori del centrosinistra, pace. Poi ci sono anche i fatti. Lo Sme non è affatto propedeutico ad una unione politica continentale è l’esatto contrario. Lo Sme è una procedura coatta di commissariamento, sia sul piano finanziario che economico, del paese che chiede gli “aiuti”, in assoluta autonomia (giuridica e anche di trasparenza degli atti) dal paese commissariato. Addirittura i responsabili dello Sme per un paese, mettiamo l’Italia, possono acquistare e vendere pezzi di economia pubblica come e a chi vogliono senza essere sottoposti a sequestro o ad azioni giudiziarie da parte del paese aiutato. E questo sarebbe un passo verso un’unione politica continentale? Si, ma solo se l’annessione coatta, a scopo di trasferimento di ricchezze da un paese all’altro, è considerata un’unione politica.

Erasmo pardon, Eugenio Scalfari si spinge invece a promuovere il celeste futuro di questo scenario, usando la parola “unione politica” con i modi ispirati di un procuratore che deve vendere un esterno destro azzoppato, addirittura invitando i giovani a farsi valere per promuovere un contesto simile.  E’ la prima chiamata ad una generazione di giovani perché si mobilitino per la cessione di diritti e sovranità alla governance liberista europea e alla banca centrale. Ciarlatano ma con un certo senso dell’ingegno. Sulla vera situazione europea basta leggere quello che pensano gli analisti americani, quelli che lavorando per il governo federale mostrano di aver bisogno della ripresa europea: la situazione dell’eurozona è tale per chi l’unico paese al comando, la Germania, guadagna in questa situazione di debolezza di un continente (infatti i capitali affluiscono in Germania e c’è margine per l’export) ma non si può permettere un crollo. Ragione per cui da Berlino, via governo e Bundesbank, in Europa arrivano sempre risposte contradditorie (anche non concertate) con l’esito di mantenere un incerto status quo. Ma un risultato è certo: non c’è alcuna politica di integrazione politica ed economica in vista. Nonostante quello che pensi Scalfari ispirato da Draghi, la Germania sfugge a qualsiasi ipotesi di integrazione politica ed economica, che contrasta con un atteggiamento neomercantilista (un paese che si struttura nella competizione piuttosto che nella cooperazione) che Bonn prima e Berlino poi hanno sempre tenuto. Si tratta di politiche che Scalfari, navigando nella politica da moltissimi anni, dovrebbe conoscere. Ma probabilmente c’è più gusto a svendere il proprio nome per legittimare politiche pericolose, in grado di terremotare un paese. Essere ciarlatani è prima di tutto un piacere e uno stato d’animo. Poi, per il fondatore di Repubblica valgono le parole di Pessoa: “l'unico senso intimo delle cose è che esse non hanno nessun senso intimo”. Evidentemente, di questo motto, Scalfari se ne approfitta.

Fonte

Fabio Mini: la guerra di Nintendo

29/07/2012

"Tempo scaduto per i sepolcri imbiancati" - La lettera di Scarpinato a Borsellino

L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.

Caro Paolo,

oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.

E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.

Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.

Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.

Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.

Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.

E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.

Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso. 

Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.

Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.

Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio MontinaroParlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”. 

Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.

Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.
Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.

Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.

E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.

Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.

Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.

Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.

E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.

Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.

Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.

Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.

Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.

E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.

Per questo dicesti a tua moglie AgneseMi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.

Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.

Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.

Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte. 

E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.


Parole sacrosante che pesano come macigni, non a caso, dopo il suo intervento alla commemorazione per i 20 anni della strage in Via d'Amelio, Scarpinato è finito sotto osservazione da parte del CSM. Nuova stoccata alla magistratura siciliana dopo il trasferimento di Ingroia in Guatemala.

28/07/2012

Due parole sull'ILVA di Taranto

Di fronte alla gravissima situazione di inquinamento ambientale, nota da tempo, denunciata a più riprese e da più parti tanto in sede locale che nazionale, provocata dalla modalità di gestione degli impianti dell’ILVA di Taranto Medicina Democratica ritiene di dover appoggiare la coraggiosa decisione del GIP Patrizia Todisco di procedere al sequestro preventivo degli impianti in alcuni reparti della produzione “a caldo” altamente inquinanti per l’ambiente esterno, come estremo e, ahimè, tardivo rimedio alla situazione di danno grave per la salute della cittadinanza e degli operai stessi impiegati negli impianti.
Tale azione non può onestamente essere presentata come prevaricazione della magistratura ma piuttosto come sbocco obbligato di anni e anni di denunce purtroppo inutili vista la volontà di profitto pervicacemente affermata da parte delle direzioni aziendali anche contro i più elementari diritti, sanciti nella nostra Costituzione, alla salute e alla difesa della vita dei lavoratori e dei cittadini.
I dati epidemiologici largamente e da tempo noti sono impressionanti, ma senza un’imposizione pubblica, sia delle amministrazioni statali e che di quelle regionali, è ormai accertato che l’azienda non si muoverebbe mai, preferendo esercitare l’usuale ricatto occupazionale, particolarmente efficace in questo periodo storico.
Medicina Democratica, dalla sua fondazione, non ha mai smesso di affermare che LA SALUTE DEI LAVORATORI E DEI CITTADINI INQUINATI È UN BENE COMUNE che va difeso anche contro le esigenze produttive e di profitto che, ancora a norma della nostra Costituzione, non possono affermarsi danneggiando la comunità. Nessun lavoratore deve essere costretto a lavorare in luoghi di lavoro altamente inquinanti, tanto meno sotto ricatto occupazionale. Allo stesso modo nessun cittadino deve essere esposto al rischio noto di malattia a causa dell’inquinamento prodotto dalla fabbrica.
I reparti inquinati e inquinanti dell’ILVA DEVONO ESSERE BONIFICATI a spese della azienda; di quella stessa azienda che in anni di ignavia ha accumulato profitti sulla pelle e sulla salute dei lavoratori. È arrivata l’ora, in relazione a quanto stabiliscono le direttive comunitarie (chi inquina paga) che la azienda si assuma fino in fondo la sua responsabilità. I nostri soldi, dello stato e della regione, potranno eventualmente servire solo in via del tutto emergenziale, per interventi sui territori circostanti la fabbrica e riservando alle amministrazioni locali il diritto di rivalsa nei confronti di chi ha provocato il disastro ambientale doloso.
Medicina Democratica ritiene che possa e debba essere al contempo salvaguardata l’occupazione e che i lavoratori stessi possano essere utilmente impiegati, IN CONDIZIONI DI SICUREZZA, nelle operazioni di bonifica una volta avvenuto il dissequestro. Non è infatti pensabile che la soluzione stia in aggiustamenti di facciata, come sembra di evincere da alcune affermazioni fatte a caldo dal Ministro Clini.
Non è proponibile cioè che si risolva il problema alzando il livello normativo dei valori limite delle sostanze come in altre occasioni di infausta memoria è stato fatto: si aggiungerebbe al danno la beffa e questo non ce lo aspettiamo nemmeno da un governo “tecnico”.
Medicina Democratica ritiene che le indagini epidemiologiche e ambientali che sono state fatte, e che hanno motivato largamente l’intervento della Magistratura, sono sufficienti per iniziare il grande lavoro di bonifica necessario che deve coinvolgere per primi i lavoratori dello stabilimento e, in seconda istanza, le associazioni locali e nazionali che da anni denunciano l’inquinamento di Taranto.
MEDICINA DEMOCRATICA denuncia con forza come inaccettabile il tentativo di mettere i lavoratori contro i cittadini, sia perché si tratta spesso di lavoratori che vivono nelle stesse zone inquinate sia perché questo atteggiamento intende distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da quelle che sono le gravi responsabilità delle direzioni aziendali.
In prospettiva Medicina Democratica ritiene anche che si debba andare a una riconversione ecologica dell’economia, attraverso un progressivo processo di fuoriuscita da tutti i CICLI LAVORATIVI GRAVEMENTE INQUINANTI che costituiscono una fonte di ricchezza per pochi con danno di tutti.
L’alternativa sta nello sviluppo di altri settori: agricoltura biologica, con valorizzazione delle risorse locali (KM0), impulso a opere pubbliche per la difesa del il territorio (rischio alluvioni, idrogeologico, sismico etc.), difesa dell’industria manifatturiera di qualità, sviluppo di energie alternative a partire dal fotovoltaico.
Medicina Democratica ritiene che tale programma deve essere portato avanti con tutte le forme possibili, anche di autogestione, pretendendo l’impegno del Governo in questa direzione, se davvero si intende contrastare gli interessi della speculazione finanziaria che mette a dura prova l’economia reale o invece salvaguardare rendite e patrimoni.


Il Giudice delle indagini preliminari, dopo aver depositato, già da diversi giorni, le conclusioni dell’indagine sulla situazione ambientale a Taranto, in rapporto alle emissioni in atmosfera, in mare e sul terreno, causate dall’Ilva, ha sequestrato gli impianti dell’area ghisa (cokerie, il camino E 312 dell’agglomerato e gli altiforni), e messo agli arresti domiciliari 6 dirigenti tra cui Emilio Riva, proprietario dello stabilimento e suo figlio Nicola (in realtà fatto dimettere alcuni giorni fa proprio in previsione di questo provvedimento insieme al massimo gruppo dirigente).
I "Soloni" dello stabilimento hanno agito in anticipo per non restare senza dirigenti. Infatti, sono stati sostituiti immediatamente con altri dirigenti già presenti in fabbrica, mentre Nicola Riva è stato sostituito dall’ex prefetto di Milano, Ferrante (lo stesso che era stato candidato per il centrosinistra a Milano contro la Moratti prima di Pisapia).
Nei giorni scorsi, in previsione di questo provvedimento ci sono state diverse mobilitazioni. E ancora una volta abbiamo assistito ai capi che fomentavano in vario modo gli operai, con messaggi sms di questo tipo: “Operai non muovetevi dagli impianti, stanno per arrivare i carabinieri, presidiate”. Non si è capito bene cosa volessero che gli operai facessero. Forse “la resistenza armata?”. All’Ilva di Taranto c’è questa cappa di forte influenza che "patròn" Riva ha sugli operai attraverso i capi e i dirigenti, esercitata non solo tramite la paura, ma, soprattutto, perché i lavoratori sono stati lasciati negli anni alla mercé delle pressioni e dell’ideologia padronale. Mentre le organizzazioni sindacali, nonostante un buon numero d’iscritti, pensano più a litigare fra loro che a mettere un argine alla prepotenza dei capi e dirigenti.
Comunque, ieri 26 luglio, quando la notizia del sequestro si è diffusa la rabbia è esplosa. Oltre cinquemila operai si sono riversati sulle strade che fiancheggiano lo stabilimento, principalmente la strada statale Appia. Poi, un lungo corteo è venuto verso la città, attraversando la Taranto antica, bloccando il famoso Ponte girevole, uno degli snodi della città. Quando lo stabilimento era dello Stato, i governi che si sono succeduti hanno sempre fatto orecchie da mercante nonostante le mobilitazioni degli operai che si rifiutavano di intervenire su impianti molto malsani. Il sindacato Flm (allora sigla unitaria che riuniva Fiom, Fim e Uilm) coniò uno slogan molto bello: “La salute non si vende”. Giusto. Ma dopo qualche anno di lotte per ambientalizzare lo stabilimento, a vuoto, i lavoratori completarono quello slogan con: “La salute non si vende... ma nemmeno si regala”. Con la privatizzazione le cose si sono complicate. La vecchia classe operaia, stanca e demotivata, già in parte uscita col prepensionamento, è stata definitivamente decimata da una nuova ondata di prepensionamenti dovuti alla legge sull’esposizione all’amianto. La nuova classe operaia, assunta soprattutto grazie ai contratti di formazione-lavoro e altri ancora più precari, è stata lasciata alla mercé dei nuovi proprietari: la famiglia Riva. Il nuovo gruppo dirigente ha formato questi lavoratori a propria immagine, portando un attacco senza precedenti alle organizzazioni sindacali. Basta pensare che le iscrizioni sono passate dal 70- 80% nell’azienda pubblica a meno del 30% dopo la privatizzazione. Fra gli impiegati si è passati invece da circa il 50% a zero. E' anche vero che le segreterie dei tre sindacati “suggerivano” ai delegati di "lasciar stare" i nuovi assunti per occuparsene dopo. I risultati di questa tattica li vediamo oggi, con il sindacato che arranca dietro all'attivismo della dirigenza.
C’è da dire che alcune cose sono state fatte ma rispetto all’inquinamento che produce l’Ilva si tratta di poca cosa. Per esempio, la legge regionale per abbattere le emissioni delle diossine. Ma c’è tanto da fare per le polveri, per il benzo(a)pirene e altri inquinanti. Oggi quello che va perseguito non è il provvedimento della giudice ma la cacciata della famiglia Riva. Il governo deve prendere atto che Riva ha contribuito a massacrare Taranto, pensando poco o niente all’ambiente, accampando la scusa delle risorse economiche che ci vorrebbero per bonificare lo stabilimento e che lui non ha; nel frattempo si è riempito le tasche di profitti che la fabbrica di Taranto gli ha offerto su di un piatto d’argento.
Fra il 2000 e il 2004 ci sono stati altri tre accordi di programma per l’ambientalizzazione, stipulati alla Regione Puglia, i quali non hanno prodotto niente, ma che sono serviti a salvare Riva condannato per inquinamento e per i numerosi morti sul lavoro. Quando la condanna è giunta alla Cassazione, infatti, il Comune e la Provincia di Taranto si sono ritirati dalla costituzione di parte civile, annullando in extremis la condanna.
I lavoratori dell’Ilva si devono liberare dall’abbraccio mortale dei “padroni delle ferriere”; liberarsi dai falsi amici che i capi e i dirigenti fingono di essere. La difesa dei posti di lavoro si otterrà rivendicando l’esproprio dello stabilimento da parte dello Stato, per cambiare le tecnologie produttive, che esistono, come per esempio gli impianti Corex, già in uso in varie parti del mondo, che riducono i vari inquinanti di circa il 90%.
Non bisogna lasciare nelle mani di nessuno il vostro futuro. Auto-organizzarsi in comitati di lotta, per controllare direttamente quello che avviene nella “stanza dei bottoni”. Poiché, la salvaguardia dei posti di lavoro, il miglioramento delle condizioni di lavoro e della vivibilità della città, non potrà che essere che per opera della classe operaia stessa!

Fonte

Taranto e la Puglia intera si meriterebbero ben di meglio rispetto a questo vergognoso teatrino di politici schifosi, imprenditori disgraziati e classe operai su cui preferisco non spendere parole.

Uranio impoverito, marò malato: “Lasciati soli. Io e i miei compagni moriremo tutti”

“Gli americani hanno disseminato il Kosovo di bombe all’uranio non esplose: le buttavano anche senza inneschi, pur di rinnovare gli armamenti”. Salvo Cannizzo, 36 anni, ha un tumore al cervello e nessun dubbio: “Mi sono ammalato a Djakoviza, quando ero un marò del battaglione San Marco”. Secondo i medici gli restano pochi mesi di vita, che ha deciso di dedicare per denunciare “la condizione di duemila militari in Italia, abbandonati dallo Stato, ammalati senza che gli venga riconosciuto lo stato di servizio”. Da aprile, data del suo ultimo intervento, e fino a pochi giorni fa ha rifiutato controlli medici e cure: uno sciopero della chemio, per vedere “se il ministero della Difesa ha il coraggio di lasciar morire me e gli altri duemila soldati italiani nelle mie condizioni”. Ci ha ripensato, forse è troppo tardi ma si curerà “convinto dalle persone che mi vogliono bene”. Ma di cose da dire sulle sue missioni in Kosovo ne ha tante dopo mesi in silenzio causati dall’asportazione di parte dell’emisfero sinistro del cervello: “Gli americani sapevano dei rischi dell’uranio, lasciando noi italiani nelle zone ad alto rischio: ho visto a Djakovica squadre trattare del semplice munizionamento con tute da “astronauti” e autorespiratori”.
Diciassette anni di servizio nell’esercito, in congedo definitivo da settembre del 2011, gli ultimi cinque passati da impiegato civile a causa del tumore, da cui pensava di essere guarito. Dal 1999 al 2001 in Kosovo è stato quattro volte, ricevendo in premio una medaglia, una croce di ferro, il grado di sergente e tanti soldi. “Ho amato il mio lavoro e i miei compagni di squadra sono per me come fratelli. Ma sono entrato nell’esercito perché avevo bisogno di soldi, 72 dollari al giorno per le missioni oltre alla paga di duemila euro al mese. Non me ne pento, dovevo comprare casa”. Oggi vive con la seconda moglie a Catania con una piccola pensione da 800 euro al mese, con cui paga affitto, gli alimenti alla prima moglie e le spese mediche. Una situazione diventata insostenibile per Salvo, che ha finito i risparmi di una vita passata nelle missioni all’estero.
“Eravamo in nove nella mia squadra e cinque di noi si sono ammalati di tumore in varie parti del corpo. Proprio per questo il ministero della Difesa dice che non c’è rapporto di causa-effetto, ma è ridicolo: normalmente la casistica prevede un malato ogni migliaia di persone”, racconta Salvo. Secondo cui, a causa della malattia contratta per cause di servizio, lo Stato dovrebbe riconoscere a ognuno di loro un indennizzo di almeno due milioni di euro. “Uno dei miei fratelli del battaglione, un compagno di squadra, è già morto – continua Cannizzo – e tra tre mesi toccherà a me, poi a un altro, fin quando non moriremo tutti e lo stato avrà risparmiato miliardi: per loro i duemila soldati ammalatisi in Kosovo sono una piccola finanziaria“.
Salvo viene da Librino, grande rione della periferia sud di Catania, dove ha avuto anche un piccolo ruolo politico come consigliere di quartiere. “Finita la scuola, ho iniziato a lavorare come restauratore. Cinquantamila lire a settimana. Ho resistito un anno e poi sono partito volontario nell’esercito”. Era il 1995, aveva diciannove anni. “La mia scelta è stata motivata solo da motivi economici ed è una cosa che non ho mai nascosto, nemmeno nei colloqui nell’esercito. Ma il basco, la divisa militare e il rapporto strettissimo con i miei compagni, mi hanno cambiato: sentivo lo spirito di corpo“. Una premessa necessaria per Salvo, che quello spirito nonostante sia lontano dalle missioni dal 2006, quando il suo tumore si è presentato la prima volta, lo sente ancora oggi. Parla di Djakoviza e di come la mattina con i suoi compagni andasse “a fare jogging, a respirare a pieni polmoni l’uranio, in mezzo alle macerie di una città distrutta. A quei tempi non sapevamo perché auto e carri fossero praticamente dissolti. Erano solo le radiazioni“. Delle sue missioni ricorda bene l’ambiguità. “Erano chiamate di peace keeping: un giorno dovevamo mostrarci amici, il giorno dopo magari dovevamo disarmare una squadra dell’Uck” racconta. Sulla guerra in Kosovo ha un’opinione netta: “Dovevamo cacciare chi era da sempre in quei territori per far spazio ai nuovi arrivati. Una guerra ingiusta, nata solo perché una guerra gli americani dovevano farla”.
Ingiusta, ma non solo per la popolazione: “Noi italiani eravamo lasciati soli a Djakoviza. Gli americani, che stavano in una città vicina, la bombardavano sistematicamente. Ma spesso le bombe non esplodevano”. Ordigni senza innesco, denuncia Cannizzo, eliminati “per acquistarne altri, anche le bombe hanno una data di scadenza, dopo dieci anni devono essere smaltite e farlo costa tantissimo”. Bombe “pagate con i soldi della Nato per proseguire il loro businness, acquistarne altre”. Salvo adesso aspetta che le sue denunce arrivino a quanta più gente possibile, per “far sapere quale era la situazione, perché sono convinto che i vertici militari italiani sapessero”. Non crede nelle class action contro l’uranio impoverito: “So già che non ci pagheranno mai, moriremo tutti”. E, dopo lo sciopero della chemio che lo ha indebolito, se non dovesse farcela, almeno avrà scelto “quando morire, visto che non posso più scegliere quando vivere”.

di Leandro Perrotta


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Parla Draghi, la borsa vola per gli speculatori e per i creduloni

Il rialzo delle borse di oggi dopo le affermazioni di Mario Draghi "farò di tutto per salvare l'euro" ha valore per due tipi di di persone. Le prime, tutte interne alla slot-machine globale dei mercati, sono quelle che hanno capito che siamo di fronte alla possibilità di una nuova immissione straordinaria di liquidità nel sistema bancario e finanziario. Ci si affretta quindi a comprare i titoli che saranno maggiormente beneficati da questo genere di immissione. Le seconde, più numerose, fanno parte dell'immenso parco buoi di creduloni che attendono "la visita di Monti", "la mossa di Draghi", "il ritorno della fiducia dei mercati" per risolvere chissà cosa. Si tratta di fenomeni fantastici quanto l'esistenza del fauno, dell'alicanto o dell'ittiocentauro. Eppure grazie a questi fenomeni, e al campo di forza del mainstream mediale che li produce, c'è chi crede a queste cose finendo poi per votare gli artefici (o i responsabili) di queste politiche.
Peccato la memoria storica, anche a breve, conti poco quando si parla della borsa di oggi. Sarà l'effetto degli algoritmi che dettano tempi,velocità e modi di lettura dei fenomeni finanziari.
Perché quello che stiamo vedendo in queste ore altro non è che la ripetizione del già visto. Crisi del debito, spread alto, banche in crisi, intervento della Bce. Quando è accaduto l'ultima volta? Fine 2011, mica il secolo decimonono.
E come è andata? Nella primavera 2012 una fase di rallentamento delle tensioni finanziarie, grazie all'enorme immissione di denaro nel sistema (ci si poteva finanziare la ripresa dell'Europa e dell'Africa assieme altro che le banche), si ritorna agli stessi problemi di prima dell'intervento di Draghi. Anzi peggio, perché nel frattempo la situazione greca, spagnola, italiana sono peggiorate. Segno evidente che la cura "iniezione di liquidità" non funziona. E così, alla vigilia di un agosto pronosticato come difficile, ecco l'annuncio di un nuovo intervento, di immissione di liquidità nel sistema, della banca europea annunciato dal presidente della Bce. E gli unici a gioire sono gli speculatori (più è la liquidità da trattare maggiore è il guadagno speculativo) e i creduloni (maggiore è la quantità di fole che sembrano reali, più il credulone si sente rassicurato). In verità le chiacchiere starebbero anche a zero: il sistema bancario europeo nel suo insieme riesce solo a deteriorarsi (prova ne è il declassamento degli istituti tedeschi, a rischio contagio, beffa della storia), quello economico è soffocato dalle politiche di austerità, quello globale rallenta. Ma l'intervento di Draghi, ironia della sorte cognome che è plurale di un animale immaginario, nel brevissimo periodo va bene a tutti.
Come andrà a finire? La scoperta della brevità della durata dell'elisir della Bce può avvenire in pochi giorni, qualche settimana o diversi mesi. Può avvenire subito, il 2 agosto quando la Bce si riunirà, se all'effetto annuncio non seguiranno soldi veri da immettere nel sistema. Può distendersi fino alla sentenza della corte costituzionale tedesca di Karlsruhe (inizio settembre, sulla legittimità del fiscal compact, in Italia approvato tra gli sbadigli). In modo da coprire il periodo di incertezza sui fondi (si fa per dire) salvastati che, in attesa del verdetto, si è creato in Europa. Oppure può distendersi per diversi mesi a seconda dell'entità, e delle modalità, dei finanziamenti. Ma anche qui ci sono delle certezze: finché il sistema bancario europeo sarà il tempio di ogni genere di operazione denaro su denaro, fino a quando l'economia non esce dai canoni liberisti, fino a che il mondo globale è questo di "interventi risolutivi di Draghi" se ne vedranno all'infinito. Nel frattempo la spesa sociale crolla, i paesi si deteriorano, i problemi si accumulano. Ma che importa, basta "salvare" l'euro. Come ha detto quel genialoide di Boeri (l'economista, pure di area centrosinistra) sposando una proposta tedesca: separiamo il fallimento dei singoli stati da quello dell'euro. Cosa vuoi che sia: se vengono giù stato sociale, trasporti, lavori pubblici, assistenza,sanità,pensioni protezione del territorio, formazione l'importante è che si sia salvato l'euro. Queste sono le persone austere, sobrie e rigorose che pretenderebbero di far uscire un paese, e un continente, da questa grave crisi. Il problema è che gli speculatori in questa situazione ci sguazzano come coccodrilli nella palude, mentre i creduloni stanno con il naso per aria. Ad aspettare quegli uccelli del Madagascar, che si dice siano davvero esistiti, dotati di straordinaria forza, potenza e persino lungimiranza. Come no.

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25/07/2012

Un timido guerrafondaio

Di seguito riporto un approfondimento ai discorsi relativi all'uscita dell'Italia dall'Euro che ho iniziato a  seguire con le interviste a Claudio Borghi prima e Alberto Bagnai poi.
Questa volta ho pescato il punto di vista critico di Emiliano Brancaccio che offre spunti di riflessione estremamente rilevanti anche se enunciati con un vocabolario prevalentemente di settore che non rende la sua trattazione estremamente fruibile, quanto meno in prima battuta. Ne consiglio in ogni caso l'attenta lettura perché, come sì dice si tratta di tanta roba!


I miei ultimi interventi sulla crisi della zona euro hanno suscitato alcune interessanti reazioni. Gli articoli e le interviste sulle ambiguità di Syriza, sul fatto che c’è modo e modo di abbandonare la moneta unica e sulla necessità che la sinistra inizi a dotarsi di una exit strategy dall’euro hanno animato dibattiti ai quali hanno partecipato vari studiosi ed esponenti politici.

Il segretario del PRC, ad esempio, ha ritenuto opportuno criticarmi sostenendo che della “bomba atomica” si può discutere solo dopo che sia esplosa, non prima. Questo atteggiamento tattico è prevalente tra gli attuali esponenti della sinistra, ma sembra trascurare un piccolo dettaglio: i tempi di innesco e la specifica traiettoria della “bomba” in questione non saranno affatto irrilevanti per i destini di coloro ai quali il PRC e il resto della sinistra vorrebbero chiedere voti. Eludere la questione sperando che nessuno si accorga dello stallo in cui versano le forze di sinistra temo sia illusorio, e potrebbe compromettere persino obiettivi modestissimi come la mera autoriproduzione di qualche residuo gruppo dirigente.

Ma non è finita qui. Nel corso di un seminario organizzato pochi giorni fa dalla Fondazione Di Vittorio e dall’ARS, uno stimato collega economista, della scuola di Federico Caffé, si è lanciato in un’animosa invettiva contro il sottoscritto. Il collega mi ha sostanzialmente dato del “guerrafondaio” semplicemente perché ho sostenuto che i tempi dovrebbero ritenersi maturi affinché le forze di “sinistra” elaborino un autonomo punto di vista sulle diverse, possibili modalità di deflagrazione dell’eurozona. Alla filippica del collega ho quindi ritenuto necessario rispondere con la nota Gli intellettuali “di sinistra” e la crisi della zona euro. In essa ho sostenuto che, da un esame un po’ meno superficiale del corso della Storia, non è difficile trarre la conclusione che proprio una reiterata soggezione alla camicia di forza dell’attuale Unione monetaria europea potrebbe render concreta, a un certo punto, l’agitata minaccia di un’onda bellicista.

L’esperienza insegna, però, che i montanti possono sempre giungere da entrambi i lati. Laddove il suddetto economista mi ha additato come un irresponsabile agitatore delle più nefande pulsioni guerresche, un altro collega invece mi ha rimproverato di essere ancora troppo “timido” nei confronti della prospettiva di un’uscita dall’euro. L’accusa di “timidezza” proviene da un post di Alberto Bagnai, docente di Politica economica presso l’Università di Chieti-Pescara e animatore del blog Goofynomics.

Una premessa: sono riconoscente a Bagnai per i suoi apprezzamenti verso la mia attività di ricerca, in particolare per avere attribuito a un mio paper il merito di esser stato tra i primi, in Italia, ad avanzare una critica alle tesi prevalenti di Blanchard, Giavazzi e altri sulla sostenibilità degli squilibri delle partite correnti in seno all’eurozona. In verità Augusto Graziani, prima di me e di altri, aveva già da tempo sollevato il problema. E’ vero tuttavia che fino a pochi anni fa la rilevanza di quegli squilibri veniva ancora negata da molti, sia in ambito mainstream che eterodosso. Se dunque oggi qualcuno mi attribuisce il merito di aver dato un piccolo contribuito alla messa in discussione della vecchia vulgata, incasso e ringrazio.

A sua volta, con Francesco Carlucci, Bagnai ha avuto la prontezza nel 2003 di pubblicare una delle primissime stime del moltiplicatore fiscale keynesiano per l’intera eurozona. A dirla tutta, non essendo stati folgorati sulla via di Sraffa, Bagnai e Carlucci adoperavano un modello che determinava l’equilibrio di “lungo periodo” su basi neoclassiche. Ciò nonostante, in una fase storica in cui ancora imperversavano le improbabili tesi sugli effetti espansivi delle politiche restrittive, la loro stima ha avuto il merito di tener viva l’attenzione sul problema keynesiano della domanda effettiva adoperando strumenti sufficientemente à la page. Di questo loro merito abbiamo dato conto anche nel nostro libro.

Bagnai ha scritto altri ottimi contributi scientifici, ma ora mi preme venire ai capi della sua accusa. In quel che segue eviterò di badare ai toni delle sue imputazioni, in fin dei conti irrilevanti, e vedrò di andare direttamente al sodo.

In primo luogo, non so se rassicuro Bagnai o rovino esteticamente il suo presunto, splendido isolamento, ma credo sia utile ricordare un fatto: a rigor di termini, e fino a prova contraria, gli economisti italiani che sarebbero disposti a sostenere un’uscita dalla zona euro sono quasi 300. Nel giugno 2010, quando Goofynomics non aveva ancora emesso un vagito e l’eventualità di una deflagrazione era considerata a dir poco lunare, la Lettera degli economisti terminava con le seguenti parole: “Qualora le opportune pressioni che il Governo e i rappresentanti italiani delle istituzioni dovranno esercitare in Europa non sortissero effetti, la crisi della zona euro tenderà a intensificarsi e le forze politiche e le autorità del nostro Paese potrebbero esser chiamate a compiere scelte di politica economica tali da restituire all’Italia un’autonoma prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione”. Ricordo che questa frase finale  suscitò comprensibili preoccupazioni tra i colleghi promotori della Lettera. Ma alla fine, grazie anche al sostegno di Sergio Cesaratto, insistemmo per inserirla nella stesura finale. Naturalmente, fu quella la parte del testo che creò le maggiori perplessità tra i possibili firmatari. Del resto, eravamo appena ai primordi della crisi greca e la gravità estrema della situazione europea non era pienamente percepita nemmeno tra gli economisti. Proprio a causa di quella frase, quindi, probabilmente perdemmo per strada un candidato Nobel, alcuni economisti di Bankitalia e vari altri autorevoli colleghi, pur simpatetici con la nostra iniziativa. Qualche altro, forse, firmò senza leggere fino in fondo (è il caso, temo, dell’economista che oggi mi accusa di fomentare la guerra). Alla fine, però, le adesioni furono comunque numerosissime e di notevole rilievo.

Come è noto, anche e soprattutto per quella dichiarazione finale, la Lettera si guadagnò tremendi strali di accuse da parte dei liberisti: per loro eravamo come i nuovi barbari, malcelati nemici dell’integrazione europea. Oggi i liberisti hanno abbassato un po’ la cresta e sui media faticano un po’ di più a far passare le loro contraddittorie ricette. Di converso, alla Lettera del 2010 viene da più parti riconosciuta una certa potenza profetica. Non siamo divenuti mainstream, beninteso. Ma possiamo dire che quei 300 firmatari, per primi, si sono presi la briga in Italia di dare un pedigree all’ipotesi di sganciamento dall’euro, facendola uscire dal novero delle indicibili bestemmie.

A questo punto, anziché riconoscere che abbiamo spianato la via, Bagnai potrebbe solipsisticamente obiettare che nella Lettera, così come nel nostro libro, ci ostiniamo ad affiancare l’opzione di uscita dall’euro a esercizi a suo avviso evocativi di una svolta europea che non potrà mai giungere. Se così facesse, tuttavia, la sua posizione diventerebbe immediatamente impolitica. Come abbiamo più volte sottolineato nel nostro libro, sussitono motivi tangibili per sostenere che i portatori degli interessi prevalenti in Germania hanno già messo in conto i costi di una eventuale deflagrazione della zona euro. La sola eventualità che essi temono è la messa in discussione non solo dell’euro ma anche della libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. Dunque, un modo per smuovere il quadro politico in Germania esiste: esso può essere riassunto nell’affermazione che “se salta la moneta unica può saltare anche il mercato unico europeo”. L’evocazione di una prospettiva neo-protezionista da parte dell’Italia e degli altri paesi periferici costringerebbe i tedeschi a riformulare l’analisi dei costi e dei benefici di una deflagrazione dell’Unione, e potrebbe credibilmente riaprire la partita in sede europea (che ne pensa Hollande? anziché acriticamente rallegrarsi per la loro vittoria, questa è la prima vera domanda che bisognerebbe rivolgere ai socialisti francesi). Naturalmente, fino a quando in Italia collocheremo a Palazzo Chigi un irriducibile liberoscambista come il Professor Monti, i “falchi” tedeschi si sentiranno garantiti e questa ipotesi politica non potrà tradursi in un controfattuale. Si tratta però di una ipotesi robusta, sulla quale sarebbe bene soffermarsi a ragionare (anche perché potrebbe tornare utile in una seconda fase, come i più avveduti non dovrebbero avere difficoltà a comprendere). Trascurarla in nome di un purismo astratto significa condannarsi a un destino di emarginati con la puzza sotto il naso, di tronfie cassandre tra quattro mura domestiche che si accontenteranno di lamentarsi per l’ennesimo, nefasto trionfo dei “liberoscambisti di sinistra”. Ma non credo sia questa l’ambizione ultima di Goofy.

Infine, rilevo tre passaggi analitici del ragionamento di Bagnai che trovo errati, e sui quali credo sia bene spendere qualche parola.

Innanzitutto, nella sua lettera a me indirizzata egli scrive: “…per lunga esperienza di modellizzazione del commercio internazionale colgo immediatamente il banale fatto che una svalutazione reale competitiva è isomorfa all’imposizione di un dazio protettivo”. Banale fatto? Può darsi che mi sbagli, ma intravedo un grave vizio neoclassico in questa proposizione. Evidentemente i modelli cui Bagnai si riferisce o sono fondati su un ceteris paribus di tipo marshalliano, oppure sono basati su assiomi in grado di determinare esistenza, unicità e stabilità di un equilibrio generale di tipo arrowiano. Al contrario, in uno schema di riproduzione, e nella realtà dei fatti, non è per nulla garantito che una svalutazione sia logicamente equivalente al protezionismo, né dal punto di vista della scala, né della composizione, né della distribuzione del prodotto sociale.

In secondo luogo, sugli effetti di una svalutazione sui salari reali e sulla quota salari, posso sapere, di grazia, cosa dovrei farmene del grafico di figura 7 riportato nella lettera d’amore-odio di Bagnai? Da economista teorico lo chiedo, sommessamente, all’econometrico, il quale sa di certo che da quella serie temporale non si può ricavare nulla che possa vagamente somigliare a una conclusione valida in generale e per il futuro. Cerchiamo allora di ragionare concentrandoci su un insieme di dati più ampio, ma riferito al caso specifico della crisi di un regime di cambi fissi, che è quello che ci interessa da vicino. Bagnai sa bene che sussistono numerose evidenze del fatto che uno sganciamento da un cambio fisso e una successiva svalutazione possono coincidere con una riduzione dei salari reali e della quota salari tutt’altro che trascurabili. Naturalmente, va ricordato che dal crollo dello SME al 1998 in Italia i salari reali rimasero quasi stazionari, e in Spagna e Francia aumentarono persino leggermente (real compensation per employee, dati Ameco). Ma bisogna anche tener presente che le quote salari di quei paesi si ridussero in misura consistente: in Italia, in particolare, la caduta fu pesantissima, dal 62% al 54% (adjusted wage share, dati Ameco). Qualcuno forse ritiene che in fondo conti solo il salario reale, e che la quota salari non sia importante? Spero che nessuno si azzardi a pensarla in questi termini: la dinamica delle quote distributive è forse l’indicatore chiave del cambiamento nella struttura socio-politica di un paese. Il fatto che in Italia quel crollo della quota salari sia avvenuto in concomitanza con una perniciosa mutagenesi del ruolo del sindacato non è certo casuale. Per giunta, tornando ai salari reali, si dovrebbe tener presente che l’arco 1992-1998 coincide in realtà con una transizione da un regime di cambi fissi ad una ancor più stringente unione monetaria, per l’ingresso nella quale si richiedeva una convergenza verso una nuova parità di cambio. E’ evidente allora che l’inflazione fu contenuta anche in virtù di quella convergenza! In una diversa situazione cosa potrebbe accadere? Difficile a dirsi. Le evidenze di cui disponiamo danno i risultati più disparati. Tra quelli meno piacevoli segnalo che nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e che dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Intendiamoci, così come è sbagliato tralasciare gli effetti sui salari, sarebbe un errore altrettanto ingenuo - o in malafede - ritenere che l’uscita dall’euro implichi necessariamente simili crolli. Tuttavia, se guardiamo non solo alla divergenza accumulata ma anche a quella prospettica dei costi unitari del lavoro interni alla zona euro, sembra logico prevedere che, dopo un eventuale sganciamento dall’euro, la dinamica delle variabili monetarie sarebbe considerevole. Pertanto, a meno di cadere nel vizio di Blanchard di considerare il markup come una variabile dipendente dalla sola elasticità della domanda e insensibile alla dinamica delle variabili monetarie, ho il forte sospetto che faremmo bene a cautelarci, esigendo: 1) una indicizzazione dei salari, 2) un ripristino dei controlli amministrativi su alcuni prezzi “base” ed anche 3) una politica di limitazione degli scambi che ci aiuti a governare meglio le fluttuazioni delle valute. Chi si ostina a eludere questo problema deve capire che così non aiuta la transizione ma la ostacola.

Infine, è evidente che dentro la zona euro il valore relativo dei capitali nazionali dei paesi periferici declina, ma per quale motivo questa ovvietà dovrebbe esimerci dall’esaminare l’effetto ulteriore e accelerato che una svalutazione avrebbe su quel valore? Solo una sindrome à la Eugene Fama potrebbe indurci a ritenere che i prezzi correnti abbiano già pienamente scontato la svalutazione futura! In realtà, l’ampia letteratura sui “fire sales” segnala che il deprezzamento del cambio in genere implica una ulteriore caduta ex-post dei prezzi degli assets. Per questo, occorre mettere in chiaro che un eventuale sganciamento dall’euro deve essere immediatamente affiancato da vincoli alle acquisizioni estere, in campo sia bancario che industriale. La sequenza del 1992, in cui svalutazione, privatizzazioni e dismissioni all’estero furono legate da una precisa catena logica, dovrebbe averci insegnato qualcosa, spero. Ancora una volta, chi gioca a sostenere che “possiamo far saltare la moneta unica” e poi il resto si vede, non ha capito niente. Io però confido che Goofy capisca.

Intendiamoci: come ho ripetuto anche di recente in una conversazione con Salvatore Bragantini e Mario Pianta pubblicata sull’ultimo numero di Micromega, personalmente continuo a ritenere che la “sinistra” sia in tremendo ritardo rispetto al precipitare degli eventi. La conseguenza più probabile è che altri arriveranno per primi al nodo delle questioni e che i lavoratori subordinati, senza adeguate rappresentanze, assumeranno il classico ruolo di variabile residuale del sistema. Ciò nonostante, occorre insistere. Per questo, vorrei suggerire la lettura, in questo volume, di un breve saggio del collega Sergio Levrero. Non lo condivido interamente ma a livello divulgativo mi sembra una possibile base di partenza per iniziare a ragionare intorno a possibili exit strategies declinate “a sinistra”.
Emiliano Brancaccio

P.S. Come avevamo osato sospettare, a quanto pare l’annuncio della mirabile vittoria di Monti in materia di fondo salva-stati era appena un tantino pompato. Presumo dunque che svariati banchieri, in questo momento, stiano augurando una estate ricca di soddisfazioni a George Soros. Buona estate e buona fortuna anche a tutti noi.

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Giochi di guerra Usa, allarme inquinamento nel Pacifico

Si chiamano sinkex (sink exercise), un termine militare con cui si indica la pratica di colpire e affondare una propria nave-bersaglio. Per la Marina degli Stati Uniti si tratta di un modo veloce per smaltire le vecchie navi da guerra e permettere allo stesso tempo l’addestramento dei militari all’uso di nuovi armamenti contro un obiettivo reale.



C’è solo un problema: i test di sinkex hanno un forte impatto ambientale a causa dei duraturi effetti nocivi degli inquinanti presenti a bordo delle imbarcazioni da far colare a picco. Per questo motivo suscita polemiche la decisione della US Navy di confermare l’affondamento di tre navi dismesse nel corso delle grandi operazioni militari che si svolgono questo mese al largo delle isole Hawaii. Si tratta della RIMPAC, una importante esercitazione navale svolta ogni due anni, alla quale parteciperanno i mezzi o il personale militare di Australia, Canada, Cile, Colombia, Francia, India, Indonesia, Giappone, Malesia, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Perù, Filippine, Russia, Singapore, Corea del Sud, Tailandia, Tonga, Regno Unito e Stati Uniti. Nel fitto programma di test previsti, le unità navali Kilauea, Niagara Falls e Concord, saranno i primi vascelli-bersaglio ad essere affondati con siluri, bombe ed altri ordigni, dopo una moratoria sugli esercizi di sinkex di quasi due anni, messa in atto per i discussi effetti negativi sull’ecosistema marino.

Per decenni la Marina americana ha distrutto le sue navi senza che vi fosse alcun controllo sugli inquinanti rilasciati nell’ambiente. Le zone maggiormente interessate da queste operazioni sono state le aree del Pacifico a nord della Hawaii e quelle al largo della costa californiana. Solo negli ultimi dodici anni sono oltre cento le imbarcazioni da guerra affondate dalla Marina Militare USA. In alcuni casi si tratta di portaerei grandi come tre campi da calcio e contaminate da metalli pesanti, policlorobifenili e PBC, come la USS America o la portaelicotteri classe Iwo Jima. Soltanto a partire dal 1999, in seguito alle pressioni esercitate dall’opinione pubblica, l’Environmental Protection Agency (EPA) ha ordinato alla Marina, almeno sulla carta, di rimuovere buona parte del materiale tossico-nocivo presente a bordo delle imbarcazioni in disarmo e di stilare una relazione annuale con la stima approssimativa delle sostanze tossiche presenti.

Come sostanziosa contropartita, l’EPA ha esentato i militari dall’osservanza di alcune leggi federali antinquinamento che vietano espressamente tali pratiche in mare. Nel 2010, lo stop agli esercizi di sinkex era sembrato mettere la parola fine a questa pericolosa pratica militare, un’aspettativa rivelatasi un’illusione in seguito all’annuncio di un ritorno al passato da parte della US Navy. Una sgradita sorpresa che ha scatenato le proteste di molte organizzazioni ambientaliste e il ricorso ad una petizione da parte del Center for Biological Diversity. I militari vengono accusati di violare molti accordi Ocse e diversi trattati internazionali come la Convenzione di Londra sulla prevenzione dell’inquinamento marino, la Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti e la Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti.

”Chiediamo alla Marina di rispettare la moratoria sui sinkex”, ha detto Sé Colby, responsabile del Basel Action Network, ”se le navi continueranno a finire sui fondali sarà troppo tardi per rimediare ai danni procurati alle nostre preziose risorse marine”. Affondare una nave da guerra obsoleta è infatti una pratica altamente pericolosa per via delle sostanze nocive presenti in molti suoi componenti. In linea generale i materiali tossici che possono venire dispersi nell’ambiente sono l’amianto, usato per l’isolamento, le acque stagnanti di zavorra, i refrigeranti dei motori, i metalli usati per la costruzione, gli agenti chimici del materiale antincendio, gli oli e i combustibili e vari prodotti chimici. Tuttavia, per la US Navy il nuovo ricorso agli esercizi di affondamento non è in discussione. I sinkex vengono ritenuti una preziosa risorsa per lo studio e la progettazione delle future navi da guerra. Ma fino a che punto il progresso dell’ingegneria bellica può giustificare la dispersione nell’ambiente di pericolosi inquinanti? La Marina rassicura che nel corso dei test verrà rispettato scrupolosamente quanto previsto dalle direttive dell’Epa, ovvero una distanza della nave bersaglio di cinquanta miglia nautiche rispetto alla costa, in acque profonde almeno seimila metri.

C’è però anche un altro tema ad infiammare il dibattito contro il ricorso ai sinkex: l’enorme spreco di risorse. Si pensi che soltanto le tre navi che verranno mandate a picco questo mese sono composte da circa 38mila tonnellate di acciaio, alluminio, rame e piombo che potrebbe essere riciclato. Questi test non sono quindi soltanto una minaccia per l’ambiente, sottolinano dal Basel Action Network, ”la scelta della Marina di scaricare i suoi veleni nell’Oceano mette anche a rischio centinaia di posti di lavoro nell’industria americana del riciclaggio navale”. E mentre la polemica non si placa, le manovre al largo delle Hawaii sono già cominciate. Dureranno fino al prossimo 3 di agosto e vedranno in azione migliaia di uomini, quarantadue navi da guerra, sei sottomarini e una decina di aerei da combattimento.

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USA: la più becera deficienza fatta Stato.

Anche l’opinione pubblica sottovaluta questa crisi. Perché?

Dell’incapacità di governanti e finanzieri di comprendere la natura reale di questa crisi abbiamo già detto e non vi torneremo, ma questa incomprensione non riguarda solo loro. Anche le classi subalterne (o, se preferite, i cittadini, l’opinione pubblica, il popolo o come vi pare)  hanno le loro responsabilità. E non leggere. Mi riferisco, ovviamente ai paesi occidentali (degli altri ne so troppo poco per dire) nei quali c’è la diffusa sensazione che la crisi è destinata a passare come le tante altre di questi decenni trascorsi. Forse questa è più grave e lunga delle altre, anche di quella del 1973-74 che fu particolarmente rognosa ed ebbe effetti durevoli. Ma alla fine torneremo, più o meno, al livello di vita di prima ed i danni saranno contenuti. Da dove viene questa certezza infondata  che impedisce la percezione reale di quel che accade ed impedisce un giudizio lucido sull’operato delle classi dominanti?

Certo: c’è il bombardamento dei mass media che censurano molte notizie sgradite, ingigantiscono le speranze, sostengono le azioni di governi e banche legittimandoli e, soprattutto, che diffondono analisi tendenzialmente sempre troppo ottimistiche.

Tutto questo è vero, come è vero che mancano forze di opposizione con un livello accettabile di analisi da proporre. Ma anche questo non basta, c’è dell’altro che ha a che fare con reazioni psicologiche che fanno barriera. Il punto è che la gente non vuol credere che questa crisi rappresenti un punto di svolta dopo di che molte cose cambieranno. E per capirlo dobbiamo fare una riflessione più ampia.

La storia non procede sempre con lo stesso passo, può avere lunghe inerzie, oppure periodi di cambiamento graduali e lenti oppure momenti di svolta rapidi e radicali, dopo i quali nulla resta come prima. La rivoluzione francese rappresentò, appunto, una di queste svolte a gomito, quello che, con il linguaggio della complessità, possiamo definire una “biforcazione catastrofica” (in greco antico il concetto di catastrofe sta per “capovolgimento” o “soluzione di continuità”). Di solito queste svolte si accompagnano a gravi perturbazioni nel corso delle cose (guerre, rivoluzioni, gravi eventi tellurici o epidemie ed, in tempi più recenti, gravissime crisi economiche) e per questo il termine catastrofe ha assunto un contenuto negativo e temuto; d’altra parte, la storia genera attraverso le doglie del parto esattamente come gli uomini  e se per gli umani abbiamo trovato tecniche di parto (relativamente) indolore, per i grandi fenomeni collettivi non disponiamo di queste tecniche. Il riformismo aspira a questo ruolo di innovatore gentile e graduale, ma non sempre se ne danno le condizioni necessarie: talvolta la “grande forza tranquilla” del riformismo è impotente di fronte al grumo di interessi che ostruisce la strada al fluire della storia e diventa necessaria l’esplosione che spazza via e dissolve quel grumo. D’altro canto, il riformismo è più adatto a modifiche interne al sistema, piuttosto che al passaggio da un sistema ad un altro.

Questa consapevolezza del “procedere della storia per catastrofi” c’è stata sino ai primi anni sessanta, poi si è dissolta nella lunga pace seguita al grande conflitto. L’occidente ha vissuto circa 70 anni di grande prosperità, di crescita continua, di pace, di stabilità interna dei sistemi politici e di assenza di pandemie. La fame? La guerra? Le grandi crisi finanziarie? La penuria di beni? Le pandemie? Tutte cose appartenenti al passato che la modernità ha sconfitto una volta per sempre.

La fame? Ormai la produzione agricola dell’Occidente è definitivamente sovrabbondante rispetto alla domanda complessiva ed il calo della natalità (dovuta ai contraccettivi) non lascia presagire alcuna crisi malthusiana.

La guerra? Paradossalmente è proprio lo sviluppo dei sistemi d’arma, giunti alla soglia di quelle nucleari, ad averla resa impossibile, se non per scaricare le tensioni del nord del mondo in scenari remoti ed esotici.

Le pandemie? Ma con antibiotici, cure igieniche, misure preventive ecc sono ormai cose possibili solo nei paesi “arretrati” (- concetto opinabile, alle pandemie si sono sostituiti cancro e malattie degenerative... -).

Le rivoluzioni? E che bisogno ce ne è quando il welfare e la democrazia hanno reso possibili miglioramenti del livello di vita generale e lasciato la porta  (teoricamente) aperta ad ogni mutamento politico voluto dalla maggioranza?

Una nuova crisi come quella del 1929? Abbiamo imparato la lezione, il keynesismo ci ha insegnato a redistribuire la ricchezza in modo che non se ne determinino più di quella gravità. E le ricette del grande economista inglese, nel complesso, sono riuscite a mantenere la loro promessa per circa 40 anni. Poi sono venute le velenose certezze matematiche del neo liberismo che promettevano di scongiurarle in eterno conciliando la grande accumulazione privata con la sicurezza collettiva.

Ci sono state ben due generazioni che sono nate e cresciute in questa temperie, sempre più convinte di non dover più vivere guerre, rivoluzioni, depressioni, carestie… Niente più tempeste ma un solo perennemente splendente sole.

Tutto questo ha creato un insieme di certezze infondate ed ha minato grandemente il senso storico delle nostre generazioni, sempre più immerse in un immoto presente cui il passato non interessa perché il futuro non può essere altro che una costante riedizione, sempre migliorata del presente.

Oggi siamo di fronte ad una serie di mutamenti che stanno per stravolgere l’opulenta, inerte sicurezza dei nostri giorni e ce lo diciamo, ma usando parole di cui non comprendiamo (non vogliamo comprendere) il significato: suoni privi di contenuto.

Il disastro climatico? C’è, ne parliamo tutti, ma nessuno che rinunci al benché minimo consumo di energia. Forse questo mutamento avrà conseguenze da minacciare la stessa sopravvivenza dell’Uomo sulla Terra. Bè, non esageriamo con gli allarmismi, e poi chissà quando accadrà… Problemi delle generazioni future.

L’esaurimento delle materie prime non rinnovabili? Ci sarà, ma chissà quando, che se la vedano i nostri pronipoti.

Il rischio di una esplosione demografica? E’ una cosa da paesi del sud del Mondo (che, si sa, sono un po’ selvaggi) non è cosa che ci riguardi, qui di crisi malthusiane non ce ne saranno né domani né dopodomani.

Guerre? Ma no, anche questo è roba da ipo progrediti, noi siamo civili e queste cose non le facciamo (al massimo le facciamo agli ipo progrediti di cui sopra, ma non certo fra noi). E se anche dovesse scatenarsi una guerra fra i grandi paesi emergenti (come Cina ed India), meglio ancora: si massacrano fra di loro e lasciano in pace l’egemonia dell’Occidente.

Rivoluzioni? Non scherziamo: non evochiamo neppure il termine. L’unico rivolgimento dei nostri tempi è stato il crollo dei regimi sorti dalla rivoluzione d’ottobre, suprema sconfessione del sogno rivoluzionario e definitiva consacrazione del modello liberale. E poi le forze dell’ordine hanno messo a punto strumenti tecnologicamente sofisticatissimo per tenere a bada masse in rivolta, il controllo di Facebook e Twitter ci avvisa in tempo di quel che monta, l’apparato legislativo prevede pene sempre più severe che giudici sempre più ossequiosi del potere applicheranno con la massima durezza. C’è da stare sicuri.

E su questi scenari di catastrofi, che si immaginano lontane nel tempo e nello spazio, si stendono le ombre dei due grandi processi del nostro tempo: la crisi economico-finanziaria, appunto, con la sua devastante gravità ed il passaggio di egemonia dall’Occidente all’Asia. Nubi spesse e nere, il cui cozzo promette quella tempesta che in settanta anni non abbiamo mai visto e che oscureranno per chissà quanto tempo quel sole che splende da sette decenni.

Ma di fronte a questo scenario che viola le certezze di “sereno stabile” la mente dell’uomo di questo primo scorcio di secolo si ritrae rifiutando di ricevere il messaggio che viene dai segni del tempo.

Forse siamo di fronte alla prima biforcazione catastrofica dopo il 1945, ma la ristrettezza dell’orizzonte storico dell’Occidente odierno impedisce di capirlo e la crisi diventa solo una perturbazione momentanea.

Le classi dirigenti hanno le loro colpe, ma non tutto può essere loro attribuito. Anche le classi popolari ci mettono del proprio.

Aldo Giannuli

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A mio avviso le classi subalterne ce ne hanno messo veramente tanto del proprio.

24/07/2012

Mario Monti, febbraio 2012: “lo spread calerà”. Ed ora?

“Il governo sostiene che un ulteriore perseguimento della politica fiscale rafforzerà la fiducia, conseguentemente il premio per il rischio cadrebbe tirando giù i tassi di interesse. Come risultato, la spesa domestica si riprenderebbe spingendo l’economia fuori della recessione. I bassi tassi e la crescita del PIL ristabilirebbero il pareggio di bilancio, così chiudendo un circolo virtuoso”.

Super-Mario-MontiLa frase che riportiamo non è tratta da qualche archivio storico della prima globalizzazione finanziaria, quella 1870-1914 che fu una causa scatenante della Grande Guerra, ma nemmeno da una dichiarazione di Monti ai tg stile Quinto Potere che occupano stabilmente il panorama mediale italiano. Questa frase è dell’inizio della prima decade degli anni duemila ed è dell’allora presidente argentino, Fernando De La Rua, e illustra la politica restrittiva di bilancio del suo governo. Visto che il governo Monti persegue, per accordi continentali, le politiche di De La Rua è bene ricordare come è andata a finire: l’Argentina subì il più clamoroso crack finanziario della sua storia e il presidente fu costretto a fuggire in elicottero inseguito dalla folla. E un dettaglio che, fino a pochi anni fa, faceva sorridere assume oggi connotati sinistri: De La Rua, pochi mesi prima di far crollare l’Argentina e fuggire in elicottero fu insignito da Carlo Azeglio Ciampi, della più alta onoreficenza della repubblica italiana (Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone, titolo che fa capire come siano vivi i residui di Ancien Régime nel potere italiano, altro che repubblica nata dalla resistenza). E così il Ciampi che è uno dei, più convinti, responsabili storici di questa follia della governance continentale chiamata eurozona premiava De La Rua secondo riti solenni da internazionale monetarista, in attesa della venuta di Mario Monti.
Ma perchè De La Rua fece fallire un paese fuggendo in elicottero? Proprio per il tipo di politica fiscale restrittiva adottata da Monti. In una situazione di crisi economico-finanziaria la politica fiscale che tende a tagliare i bilanci pubblici, e a conservare risorse per il pagamento degli interessi sul debito, provoca tre effetti. Il primo è quello di aggravare la recessione in atto, deprimendo l’economia; il secondo è quello di far fuggire gli investitori esteri a causa della depressione (oppure fargli acquistare pezzi di paese a prezzi di saldo secondo la logica del mordi e fuggi); il terzo è quello di moltiplicare gli effetti della crisi attirando la speculazione finanziaria che ha strumenti e metodi per arricchirsi proprio sui paesi in difficoltà.  Creando una situazione tale, come nell’Argentina di prima del default, dove lo stato non ha nemmeno i soldi per stampare i passaporti.
A differenza dell’Argentina, oltre a fattori geografici ed economici, l’Italia ha un’aggravante: non è libera di sganciarsi dai cambi fissi, la parità peso-dollaro nel caso argentino, ma fa parte di un dispositivo continentale di governance multilivello dove lo sganciamento dal regime monetario non è né facile né automatico. Non solo, il suo impoverimento arricchisce direttamente l’alleato più forte di questo sistema blindato di relazioni continentali: la Germania. Basta vedere le statistiche sul trasferimento di capitali all’interno della zona euro da inizio 2012: l’Italia è quella che perde di più, la Germania è in testa alle classifiche di chi guadagna. Si capisce quindi perché sale lo spread: se per assurdo non esistesse la situazione spagnola, un botto tutto causato sotto un governo progressista, la differenza tra btp italiani e bund tedeschi (il famoso spread, appunto) che si ripercuote sui bilanci pubblici sarebbe ugualmente marcata a causa dello squilibrio strutturale tra i due paesi nella zona euro. Poi c’è la speculazione che accentua la gravità delle cause strutturali scommettendo sul loro peggioramento. I “mercati” sono questo mica una piazzetta dove si acquista il meglio dell’ortofrutta.
Il rapporto che persiste tra il principale paese europeo e gli altri partner e che è stato ammesso dallo stesso Die Welt, quotidiano vicino alla Merkel, è questo: il modello Germania si basa su un dispositivo, prestare capitali tedeschi per vendere merci tedesche, che può funzionare nel mondo solo se gli altri paesi in Europa si adeguano alle regole dettate da Berlino. Quando Monti  afferma “siamo il paese più europeo” in ogni caso si adegua a questa dimensione. Solo che è proprio il regime di cambio fisso, nel nostro caso di moneta unica, a creare le condizioni per trasferire la ricchezza dal paese più debole al più forte. E come vadano i rapporti tra paesi forti e deboli, in regime di liberalizzazione finanziaria, in Sud America lo sanno benissimo chiamando “il decennio perduto”,  proprio il periodo (inizio anni ’80-inizio anni ’90) in cui queste politiche erano più accentuate.
Il rischio De La Rua è quello che corre questo paese: il resto è un Bersani che approva le politiche di Monti mentre parla di “dare sollievo all’economia” e qui non si capisce quanto il segretario del Pd cerchi qualche battuta pre-elettorale o quanto non si renda conto di essere patetico.
Lo spread che sale oltrepassando di nuovo quota 500 non è tanto frutto di un contagio che viene da fuori, infettando l’economia e i conti pubblici di un paese sano (come da propaganda mainstream), ma la cifra di uno squilibrio capitalistico tipico del mondo neoliberale che è a tutto svantaggio del caso italiano. Poi ci sono le aggravanti: il disastro di Spagna e Grecia, la crisi delle banche che dal 2008 non è mai terminata, l’esistenza di un sistema finanziario globale più forte persino dei sistemi di stati, la frenata dell’economia mondiale a causa di miriadi di squilibri tipici del capitalismo. In questa situazione non si tratta di tirare ad indovinare se l’euro cadrà o quando e con quali effetti. Ci sono molti fattori aleatori in ballo. Come è anche vero che politiche liberiste stringenti, come quelle della Thatcher, producono “risultati” se dopo un decennio non si è ammazzato un paese. Si tratta piuttosto di capire quali sono le condizioni strutturali che producono i disastri in corso. E le politiche alla De La Rua di Mario Monti, come si è visto, ci rivelano queste condizioni. E, comunque vada, sono pronti i prossimi passaggi: riduzione delle tasse a favore del grande capitale (per “rilanciare” l’economia), smantellamento di erogazione dei diritti concreti di ogni genere (ad esempio, i permessi sindacali) in nome del “si è tagliato troppo poco”. C’è poi un impegno mostruoso, e forzoso, alla riduzione del debito per oltre un ventennio contratto con l’eurozona, il fiscal compact, e approvato nel silenzio delle aule parlamentari neanche fosse la riforma del settore della pesca subacquea.
E il problema è diventato poi proprio la costituzione formale del paese. La sentenza della corte costituzionale, che afferma il principio dei beni pubblici come da referendum 2011, è vista dal neoliberismo italiano come “onerosa” proprio perchè impedisce le privatizzazioni dei servizi pubblici, attese anche da investitori esteri.
Non è dato capire quando questo treno del delirio terminerà la sua corsa. E’ data però la possibilità di fare un pò di ricerca di archivio. Ecco Mario Monti, al tg5 il primo febbraio 2012, che afferma “lo spread calerà”.

Merita la visione anche, oltre alla previsione non proprio azzeccata, per una frase sibillina di Monti sul necessario ulteriore taglio alla spesa pubblica che sarebbe “più sopportabile” in caso di crescita. Viste le previsioni sull’economia italiana, e su quella globale, l’unica previsione che si avvererà è quella sui tagli pesanti. Fino a quando, come capita nella storia, non succede davvero qualcosa. Prima possibile perché, nonostante la propaganda sulla ”austerità” e sul “rigore”, le istituzioni mostrano un feroce estremismo antisociale che ha precedenti solo nel governo Rudinì  che nel 1898 preferì cannoneggiare gli operai a Milano, che protestavano per il prezzo del pane, piuttosto che allentare la morsa fiscale sul grano e in Mussolini che adottò politiche deflazionistiche che lo portarono ad un colpo di stato nel ’25. I precedenti nazionali, oltre a quello argentino, come si vede non sono incoraggianti. Vista la situazione è davvero auspicabile di trovarsi solo davanti a delle ipotesi di scenario e a delle pure comparazioni storiografiche perché, altrimenti, ci aspetta qualcosa che forse non è stato ben percepito, e tanto meno calcolato, dalla società italiana.

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23/07/2012

La coppia modello

Al Centro Commerciale... giovani italici. Sbarcano dal loro Suv (adesso lo chiamano Cross over) o bianco, o nero. Mamma, papà e piccoletto. Aspettano 15 minuti in auto (accesa) vicino all'entrata del Centro, sia mai che devono camminare 10 metri con carrello, anche se fanno "jogging", palestra e "bird watching con i villici". Lui veste bermuda che arrivano a metà tibia, camicia fuori per nascondere l'incipiente pancetta (a 30 anni, chissà a 50), stempiato di già, ma si rasa tutto, per confondere le acque. Lei con fuseau aderentissimi che si conficcano in tutti gli orifizi (pardon!) e pieghe cutanee. Dopo l'unica gravidanza, il di lei lato B. ha conosciuto un inesorabile declino e, nonostante palestra, massaggi e lampade, il risultato è che l'individua si accorcia sempre di più e si allarga sempre di più (gli ormoni). Tutti e due hanno due curiosi tatuaggi alle spalle e stinchi, non si capisce, sembrano deiezioni feline. A casa lui vive per la moto, lei per l'estetista. Genitori estremamente educativi, hanno già comprato la moto giocattolo, l'hanno in garage, il piccolo ha solo tre anni... poi arriverà la moto cross... deve diventare l'uomo che non deve chiedere mai... Con simili genitori a scuola sarà un semideficiente, ma la colpa sarà dell'insegnante. Lui legge solo la Rosea Gazzetta e sa tutto di Ibra. Lei conosce ogni angolo di Belen. Della crisi non parlano mai, sono fortunati, lui lavora in un supermercato, lei fa l'impiegata.

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Grande vittoria dei movimenti, la Corte Costituzionale fa saltare le privatizzazioni di acqua e servizi pubblici locali

Grande vittoria dei movimenti, la Corte Costituzionale fa saltare le privatizzazioni di acqua e servizi pubblici locali
Oggi, 20 Luglio, la Corte Costituzionale restituisce la voce ai cittadini italiani e la democrazia al nostro Paese.
Lo fa dichiarando incostituzionale, quindi inammissibile, l'articolo 4 del decreto legge 138 del 13 Agosto 2011, con il quale, il Governo Berlusconi, calpestava il risultato referendario e rintroduceva la privatizzazione dei servizi pubblici locali. Questa sentenza blocca anche tutte le modificazioni successive, compresa quelle del Governo Monti.

La sentenza esplicita chiaramente il vincolo referendario infranto con l'articolo 4 e dichiara che la legge approvata dal Governo Berlusconi violava l'articolo 75 della Costituzione. Viene confermato quello che sostenemmo un anno fa, cioè come quel provvedimento reintroducesse  la privatizzazione dei servizi pubblici e calpestasse la volontà dei cittadini.

La sentenza ribadisce con forza la volontà popolare espressa il 12 e 13 giugno 2011 e rappresenta un monito al Governo Monti e a tutti i poteri forti che speculano sui beni comuni. Dopo la straordinaria vittoria referendaria costruita dal basso, oggi è chiarito una volta per tutte che deve deve essere rispettato quello che hanno scelto 27 milioni di italiani: l'acqua e i servizi pubblici devono essere pubblici.

In Toscana si continua con la Campagna di obbedienza civile: Come dice Stefano Rodotà noto giurista italiano in un intervista dopo la sentenza della consulta alla domanda: Ora la campagna di «obbedienza civile» lanciata dai comitati referendari che invita a non pagare quella parte di bolletta che remunera, appunto, il capitale investito nei servizi, è legittimata ulteriormente. Vero?

Stefano Rodotà: Questo è un punto importante: dopo la sentenza della Consulta è assolutamente legittima quella giusta reazione dei cittadini di ribellarsi ai tentativi di violare la legalità fissata con il risultato referendario.

Si scrive acqua, si legge democrazia!