Dell’incapacità di governanti e finanzieri di comprendere la natura
reale di questa crisi abbiamo già detto e non vi torneremo, ma questa
incomprensione non riguarda solo loro. Anche le classi subalterne (o, se
preferite, i cittadini, l’opinione pubblica, il popolo o come vi pare)
hanno le loro responsabilità. E non leggere. Mi riferisco, ovviamente
ai paesi occidentali (degli altri ne so troppo poco per dire) nei quali
c’è la diffusa sensazione che la crisi è destinata a passare come le
tante altre di questi decenni trascorsi. Forse questa è più grave e
lunga delle altre, anche di quella del 1973-74 che fu particolarmente
rognosa ed ebbe effetti durevoli. Ma alla fine torneremo, più o meno, al
livello di vita di prima ed i danni saranno contenuti. Da dove viene
questa certezza infondata che impedisce la percezione reale di quel che
accade ed impedisce un giudizio lucido sull’operato delle classi
dominanti?
Certo: c’è il bombardamento dei mass media che censurano molte
notizie sgradite, ingigantiscono le speranze, sostengono le azioni di
governi e banche legittimandoli e, soprattutto, che diffondono analisi
tendenzialmente sempre troppo ottimistiche.
Tutto questo è vero, come è vero che mancano forze di opposizione con
un livello accettabile di analisi da proporre. Ma anche questo non
basta, c’è dell’altro che ha a che fare con reazioni psicologiche che
fanno barriera. Il punto è che la gente non vuol credere che questa
crisi rappresenti un punto di svolta dopo di che molte cose cambieranno.
E per capirlo dobbiamo fare una riflessione più ampia.
La storia non procede sempre con lo stesso passo, può avere lunghe
inerzie, oppure periodi di cambiamento graduali e lenti oppure momenti
di svolta rapidi e radicali, dopo i quali nulla resta come prima. La
rivoluzione francese rappresentò, appunto, una di queste svolte a
gomito, quello che, con il linguaggio della complessità, possiamo
definire una “biforcazione catastrofica” (in greco antico il concetto di
catastrofe sta per “capovolgimento” o “soluzione di continuità”). Di
solito queste svolte si accompagnano a gravi perturbazioni nel corso
delle cose (guerre, rivoluzioni, gravi eventi tellurici o epidemie ed,
in tempi più recenti, gravissime crisi economiche) e per questo il
termine catastrofe ha assunto un contenuto negativo e temuto; d’altra
parte, la storia genera attraverso le doglie del parto esattamente come
gli uomini e se per gli umani abbiamo trovato tecniche di parto
(relativamente) indolore, per i grandi fenomeni collettivi non
disponiamo di queste tecniche. Il riformismo aspira a questo ruolo di
innovatore gentile e graduale, ma non sempre se ne danno le condizioni
necessarie: talvolta la “grande forza tranquilla” del riformismo è
impotente di fronte al grumo di interessi che ostruisce la strada al
fluire della storia e diventa necessaria l’esplosione che spazza via e
dissolve quel grumo. D’altro canto, il riformismo è più adatto a
modifiche interne al sistema, piuttosto che al passaggio da un sistema
ad un altro.
Questa consapevolezza del “procedere della storia per
catastrofi” c’è stata sino ai primi anni sessanta, poi si è dissolta
nella lunga pace seguita al grande conflitto. L’occidente ha vissuto
circa 70 anni di grande prosperità, di crescita continua, di pace, di
stabilità interna dei sistemi politici e di assenza di pandemie. La
fame? La guerra? Le grandi crisi finanziarie? La penuria di beni? Le
pandemie? Tutte cose appartenenti al passato che la modernità ha
sconfitto una volta per sempre.
La fame? Ormai la produzione agricola dell’Occidente è
definitivamente sovrabbondante rispetto alla domanda complessiva ed il
calo della natalità (dovuta ai contraccettivi) non lascia presagire
alcuna crisi malthusiana.
La guerra? Paradossalmente è proprio lo sviluppo dei sistemi d’arma,
giunti alla soglia di quelle nucleari, ad averla resa impossibile, se
non per scaricare le tensioni del nord del mondo in scenari remoti ed
esotici.
Le pandemie? Ma con antibiotici, cure igieniche, misure preventive ecc sono ormai cose possibili solo nei paesi “arretrati” (- concetto opinabile, alle pandemie si sono sostituiti cancro e malattie degenerative... -).
Le rivoluzioni? E che bisogno ce ne è quando il welfare e la
democrazia hanno reso possibili miglioramenti del livello di vita
generale e lasciato la porta (teoricamente) aperta ad ogni mutamento
politico voluto dalla maggioranza?
Una nuova crisi come quella del 1929? Abbiamo imparato la lezione, il
keynesismo ci ha insegnato a redistribuire la ricchezza in modo che non
se ne determinino più di quella gravità. E le ricette del grande
economista inglese, nel complesso, sono riuscite a mantenere la loro
promessa per circa 40 anni. Poi sono venute le velenose certezze
matematiche del neo liberismo che promettevano di scongiurarle in eterno
conciliando la grande accumulazione privata con la sicurezza
collettiva.
Ci sono state ben due generazioni che sono nate e cresciute in questa
temperie, sempre più convinte di non dover più vivere guerre,
rivoluzioni, depressioni, carestie… Niente più tempeste ma un solo
perennemente splendente sole.
Tutto questo ha creato un insieme di certezze infondate ed ha minato
grandemente il senso storico delle nostre generazioni, sempre più
immerse in un immoto presente cui il passato non interessa perché il
futuro non può essere altro che una costante riedizione, sempre
migliorata del presente.
Oggi siamo di fronte ad una serie di mutamenti che stanno per
stravolgere l’opulenta, inerte sicurezza dei nostri giorni e ce lo
diciamo, ma usando parole di cui non comprendiamo (non vogliamo
comprendere) il significato: suoni privi di contenuto.
Il disastro climatico? C’è, ne parliamo tutti, ma nessuno che rinunci
al benché minimo consumo di energia. Forse questo mutamento avrà
conseguenze da minacciare la stessa sopravvivenza dell’Uomo sulla Terra.
Bè, non esageriamo con gli allarmismi, e poi chissà quando accadrà…
Problemi delle generazioni future.
L’esaurimento delle materie prime non rinnovabili? Ci sarà, ma chissà quando, che se la vedano i nostri pronipoti.
Il rischio di una esplosione demografica? E’ una cosa da paesi del
sud del Mondo (che, si sa, sono un po’ selvaggi) non è cosa che ci
riguardi, qui di crisi malthusiane non ce ne saranno né domani né
dopodomani.
Guerre? Ma no, anche questo è roba da ipo progrediti, noi siamo
civili e queste cose non le facciamo (al massimo le facciamo agli ipo
progrediti di cui sopra, ma non certo fra noi). E se anche dovesse
scatenarsi una guerra fra i grandi paesi emergenti (come Cina ed India),
meglio ancora: si massacrano fra di loro e lasciano in pace l’egemonia
dell’Occidente.
Rivoluzioni? Non scherziamo: non evochiamo neppure il termine.
L’unico rivolgimento dei nostri tempi è stato il crollo dei regimi sorti
dalla rivoluzione d’ottobre, suprema sconfessione del sogno
rivoluzionario e definitiva consacrazione del modello liberale. E poi le
forze dell’ordine hanno messo a punto strumenti tecnologicamente
sofisticatissimo per tenere a bada masse in rivolta, il controllo di Facebook e Twitter ci avvisa in tempo di quel che monta, l’apparato legislativo
prevede pene sempre più severe che giudici sempre più ossequiosi del
potere applicheranno con la massima durezza. C’è da stare sicuri.
E su questi scenari di catastrofi, che si immaginano lontane nel
tempo e nello spazio, si stendono le ombre dei due grandi processi del
nostro tempo: la crisi economico-finanziaria, appunto, con la sua
devastante gravità ed il passaggio di egemonia dall’Occidente all’Asia.
Nubi spesse e nere, il cui cozzo promette quella tempesta che in
settanta anni non abbiamo mai visto e che oscureranno per chissà quanto
tempo quel sole che splende da sette decenni.
Ma di fronte a questo scenario che viola le certezze di “sereno
stabile” la mente dell’uomo di questo primo scorcio di secolo si ritrae
rifiutando di ricevere il messaggio che viene dai segni del tempo.
Forse siamo di fronte alla prima biforcazione catastrofica dopo il
1945, ma la ristrettezza dell’orizzonte storico dell’Occidente odierno
impedisce di capirlo e la crisi diventa solo una perturbazione
momentanea.
Le classi dirigenti hanno le loro colpe, ma non tutto può essere loro
attribuito. Anche le classi popolari ci mettono del proprio.
Aldo Giannuli
Fonte
A mio avviso le classi subalterne ce ne hanno messo veramente tanto del proprio.
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