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31/08/2021

Dark Star (1974) di John Carpenter - Minirece

Afghanistan, la fine dei giochi

La strage di civili compiuta da un drone americano in risposta all’attentato del 26 agosto all’aeroporto di Kabul ha suggellato in modo drammaticamente appropriato la fine dell’occupazione ventennale dell’Afghanistan. In perfetta coincidenza con l’impegno a evacuare tutti i soldati entro il 31 agosto, l’ultimo aereo militare degli Stati Uniti è decollato un minuto prima della mezzanotte di lunedì, lasciando indietro un paese con un futuro incerto e sul quale potrebbero continuare minacciosamente a pesare le manovre di Washington.

In un clima tesissimo e di estrema confusione, alimentata anche dalla stampa ufficiale in Occidente, il Pentagono ha fatto sapere di avere evacuato circa 122 mila persone, inclusa l’intera rappresentanza diplomatica americana, trasferita a Doha, in Qatar. In Afghanistan resterebbero poco più di un centinaio di cittadini americani e decine di migliaia di afghani con i documenti in regola per lasciare il paese tornato nelle mani dei Talebani.

L’entità del fallimento dell’avventura inaugurata dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001 si può misurare osservando molti degli eventi di queste ultime settimane, assieme alla situazione in cui versa l’Afghanistan dopo vent’anni di “guerra giusta”. Proprio lunedì, ad esempio, gli USA e i loro più stretti alleati europei al Consiglio di Sicurezza ONU hanno dovuto prendere atto dell’impossibilità di incidere sugli eventi del paese da cui sono stati cacciati.

Soprattutto la Francia aveva proposto la creazione di un’area “sicura” nella capitale afghana per permettere di processare le richieste di espatrio di quanti hanno collaborato con le forze di occupazione e che temono ora le ritorsioni talebane. Non avendo ormai strumenti per implementare sul campo una misura di questo genere, che sarebbe stata ovviamente respinta dai Talebani, il Consiglio ha alla fine approvato una risoluzione simbolica e inefficace. Con l’astensione di Cina e Russia è stato votato un semplice appello agli “studenti del Corano” a garantire l’evacuazione di quanti intendono abbandonare l’Afghanistan. Nessun provvedimento è comunque previsto in caso di chiusura dei confini da parte dei Talebani.

La realtà con cui Washington deve fare i conti in Afghanistan ha avuto un’evoluzione rapida e inaspettata che testimonia a sua volta le basi fragilissime su cui si è basata l’occupazione. Solo ai primi di agosto, il segretario di Stato Anthony Blinken aveva assicurato che gli USA avrebbero continuato a essere coinvolti in Afghanistan per molto tempo dopo il ritiro del contingente militare. Lo scioglimento come neve al sole delle forze armate indigene, finanziate con 80 miliardi di dollari dalla potenza occupante, ha invece innescato un processo di disintegrazione del governo-fantoccio di Kabul che ha consentito ai Talebani di entrare nella capitale il giorno di Ferragosto.

L’umiliazione del ritiro americano ha così scatenato una valanga di critiche nei confronti del presidente Biden per la gestione del disimpegno dall’Afghanistan. Oltre al fatto che i termini e i tempi del ritiro erano stati in larga misura negoziati dall’amministrazione Trump, gli eventi che hanno accompagnato l’evacuazione dei militari USA sono stati determinati dalla natura stessa dell’occupazione ventennale del paese. Le premesse ingannevoli della guerra propagandata come necessaria per colpire i responsabili degli attacchi dell’11 settembre hanno creato un sistema artificiale e ultra-corrotto tenuto in piedi da finanziamenti esterni, costati solo agli Stati Uniti più di duemila miliardi di dollari.

Questa realtà aiuta a comprendere come i Talebani, il cui governo era evaporato poco dopo l’invasione USA dell’ottobre 2001, sono stati in grado di riorganizzarsi e avanzare a poco a poco nel paese fino a controllare la maggioranza del territorio ben prima dell’inizio dell’evacuazione dei militari NATO. Un ritorno al potere quello dei Talebani che è stato senza dubbio favorito dall’impopolarità dell’occupazione, per lo meno al di fuori di una ristretta cerchia urbana che ne ha invece beneficiato spesso a dismisura, impressa nella memoria della popolazione afghana per i bombardamenti indiscriminati con i droni, le stragi di civili, i raid notturni delle forze speciali, le detenzioni arbitrarie e le torture.

Con questi precedenti, come spiegato all’inizio, il tragico incontro dell’Afghanistan con l’imperialismo americano non poteva che finire, almeno per questa fase, con l’ennesimo massacro di civili. Domenica scorsa, l’attacco con i droni autorizzato dalla Casa Bianca, ufficialmente per uccidere i responsabili dell’attentato all’aeroporto di Kabul, ha fatto una decina di vittime, nove delle quali della stessa famiglia, inclusi sette bambini tra i due e i dodici anni. L’operazione è solo l’ultimo dei crimini di guerra americani in Afghanistan che non saranno mai perseguiti penalmente.

In una situazione estremamente fluida e incerta, con l’uscita di scena delle forze di occupazione NATO al centro dell’attenzione internazionale ci sarà la finalizzazione delle trattative per la creazione del prossimo governo afghano. Le pressioni internazionali si sono intensificate sui Talebani per convincerli a garantire un sistema inclusivo che coinvolga le varie etnie afghane, eviti gli eccessi fondamentalisti della loro precedente esperienza di governo e contribuisca a stabilizzare un paese in profondissima crisi.

Se i Talebani manterranno le promesse all’insegna della moderazione fatte nelle scorse settimane lo si vedrà molto presto. Al di là del sistema che verrà instaurato sul fronte domestico, la necessità di far fronte ai problemi enormi dell’Afghanistan, in primo luogo di carattere economico, lascia sperare che i Talebani adotteranno per lo più un atteggiamento pragmatico nei rapporti con i paesi vicini e non solo.

Russia, Cina e Iran offrono in particolare occasioni di crescita e sviluppo, ma il fatto che tutti questi paesi siano nel mirino di Washington comporta più di un fattore di incertezza per il prossimo futuro. Le intenzioni americane restano infatti tutt’altro che limpide e le implicazioni strategiche del quadro afghano, così come le pressioni della fazione della classe dirigente USA più frustrata per l’umiliazione appena incassata, lasciano aperte ipotesi inquietanti.

Uno scenario di questo genere può essere collegato all’attentato di settimana scorsa all’aeroporto di Kabul, attribuito all’oscura sigla ISIS-K, ovvero lo Stato Islamico del Khorasan, ultima incarnazione del terrorismo jihadista singolarmente funzionale agli obiettivi strategici degli Stati Uniti. La presenza in Afghanistan di questo gruppo armato, per alcuni favorita direttamente dagli USA, è già di per sé una ragione che può giustificare ulteriori bombardamenti americani, secondo un copione collaudato che garantisce l’influenza di Washington sulle vicende di un determinato paese.

Altro fronte caldo, assieme a quello della possibile “resistenza” riconducibile alla cosiddetta “Alleanza del Nord”, è rappresentato infine dalle creazioni americane più letali in Afghanistan, ovvero le forze speciali più o meno clandestine nate grazie soprattutto alla CIA. Questi organismi e i suoi membri, secondo alcune fonti, sono la preoccupazione principale dei Talebani che, infatti, starebbero cercando di stanarli nel paese.

I timori degli “Studenti del Corano” sono del tutto giustificati, dal momento che sia la “resistenza” anti-talebana sia le altre formazioni dall’identità non del tutto chiara sono potenzialmente strumenti di Washington e minacciano di destabilizzare da subito l’Afghanistan post-occupazione, col rischio, nella peggiore delle ipotesi, di fare esplodere una nuova rovinosa guerra civile.

Fonte

[Contributo al dibattito] - Ostaggi in Assurdistan, ovvero: il lasciapassare e noi / Prima puntata

di Wu Ming

0. Introduzione

Questa è una miniserie da leggere con lentezza. «Chi è veloce si fa male», cantava Enzo Del Re. «Se non vale la pena impiegare tanto tempo per dire, e ascoltare, una qualsiasi cosa, noi non la diciamo», dice Barbalbero.

Nelle settimane scorse abbiamo ospitato o segnalato contributi critici sul cosiddetto «green pass», posizioni e analisi altrui che non coincidevano in toto con la nostra.

La nostra posizione l’abbiamo espressa solo tra i commenti, esplicitandola e rifinendola man mano, il che va bene, ma anche sparpagliandola, il che va male. Mancava un testo in cui, sul «green pass» e su questa fase dell’emergenza pandemica, dicessimo come la pensiamo in modo dettagliato e dal principio alla fine.

L’occasione di scriverlo ce l’ha data l’imminente ritorno all’attività on the road. Ci attendono presentazioni all’aperto, presentazioni al chiuso, reading, spettacoli... Volenti o nolenti, col «green pass» avremo a che fare. Ma appunto, che fare?

In questa prima puntata spieghiamo perché secondo noi il «green pass», detta come va detta, è una merda.

A partire dal nome che gli hanno affibbiato, a rigore ufficioso ma usato onnipervasivamente sui media e dagli stessi governanti e amministratori. È lo stesso anglicorum di «Jobs Act», «spending review» e altre nefandezze. È l’inglese usato come dolcificante artificiale, per far sembrare nuovi e “smart” provvedimenti che invece sono abbastanza vecchi da avere un nome nella lingua di Dante. Se il governo Renzi l’avesse chiamata semplicemente «Legge sul lavoro» sarebbe sembrata meno “innovativa”. In effetti, la libertà dei padroni di licenziare in tronco non è poi questa grande innovazione…

Nel caso del «green pass», la parola che già esiste è lasciapassare. Un lasciapassare definito «green», cioè verde, come il semaforo verde, in opposizione alle zone rosse. Ma anche qui l’inglese «green» viene preferito in quanto è l’aggettivo del momento, l’aggettivo che dà un salvacondotto a qualunque politica voglia spacciarsi per ambientalista e quindi al passo coi tempi: è il cosiddetto greenwashing. Tanto per autocitarci: «Nel mondo in cui il vero della devastazione ecologica e climatica diviene un momento del falso del tran tran capitalistico, ogni schifezza va definita “green”, anche provvedimenti come il pass sanitario, che con l’ecologia non ha alcun legame diretto.»

Nella seconda puntata, tra qualche giorno, ragioneremo da lavoratori della cultura e dello spettacolo quali in effetti siamo, esporremo a lettrici e lettori i problemi che abbiamo di fronte, e si capirà bene il perché del titolo.

Prendiamo a prestito le parole da un recente comunicato dei Cobas Scuola di Bologna, che definisce il lasciapassare «uno strumento prima di tutto inefficiente ed illogico in relazione alle pratiche di contenimento della pandemia e della sicurezza nelle scuole in genere […], che contiene sia nella sua definizione che nel prospettare una serie di sanzioni pesantissime, spropositate e ingiustificate, un forte profilo di incostituzionalità, configurandosi, nei fatti, come una sorta di implicito obbligo vaccinale, imposto surrettiziamente e senza alcuna assunzione di responsabilità, che sarebbe doverosa, da parte delle autorità che impongono tale pratica».

Questa problematizzazione si può facilmente estendere dalla scuola alla società in generale. È quanto faremo, sviluppando le tre principali ragioni della nostra critica al lasciapassare:

1. È incongruo e inutile ai fini dichiarati – o dati per intesi – da chi lo ha introdotto.
2. È l’ennesimo diversivo che serve a scaricare verso il basso le responsabilità della malagestione della pandemia.
3. È presentato come “liberatorio” ma in realtà è restrittivo, discriminatorio, invasivo.

1. Il lasciapassare quel che dice non lo fa (e quel che ti fa non lo dice)

All’osso, i fini del lasciapassare dichiarati – o dati per intesi – dal governo sono:
■ ridurre numero e frequenza dei contagi (il lasciapassare come strumento di profilassi);
■ convincere la gente a vaccinarsi (il lasciapassare come nudge, “spintarella” persuasiva);
■ garantire al maggior numero possibile di persone il diritto al lavoro e alla socialità in sicurezza (il lasciapassare come garanzia che «non si tornerà a chiudere»).

Cerchiamo di procedere con ordine.

Come strumento di profilassi il lasciapassare è una presa in giro

Il lasciapassare non può funzionare allo scopo di ridurre i contagi per la plateale incongruenza e incoerenza degli utilizzi prescritti. Le diverse disposizioni per diversi contesti e diversi comportamenti in diverse giurisdizioni sembrano buttate giù dal Cappellaio Matto e dalla Lepre Marzolina durante una gara di rutti al party di non-compleanno di Walter Ricciardi. Una cosa è certa: il criterio di fondo non è, non può essere sanitario.

Da oggi il lasciapassare viene richiesto per i treni a lunga percorrenza – «Frecce, Intercity, Intercity notte, EC, EN, Freccialink», come si legge sul sito di Trenitalia  – ma non sui treni locali. Peccato che i primi siano usati da una piccola minoranza di viaggiatori, mentre sui secondi si ammassa ogni giorno la gente che va a lavorare. Secondo il Rapporto Pendolaria 2021, nel 2019 «il numero di coloro che ogni giorno prendevano il treno per spostarsi su collegamenti nazionali era di circa 50mila persone sugli Intercity e 170mila sull’alta velocità, [mentre] sui treni regionali e metropolitani […] superano i 6 milioni ogni giorno».

E una volta che ci sei arrivato, al luogo di lavoro? Riprendiamo da una chat su Telegram l’utile riassunto di un compagno della Wu Ming Foundation:

«Al lavoro per accedere alla mensa devi avere il green pass (ma per bagni e docce no, e immagino la disinfezione degli spazi in un’azienda a fine turno) mentre in albergo, sia per soggiornare che per mangiare se sei ospite non è richiesto. Se lavori in trasferta e quindi la tua mensa è il ristorante dell’hotel non hai nessun obbligo, se te ne stai in sede invece ne hai (e in trasferta spesse volte ci stai con dipendenti di altri millemila appaltatori o sub, mandando in vacca qualsiasi possibilità di tracciamento). Al bar prima si poteva stare solo seduti ora seduti al chiuso obbligo di green pass, al bancone (il luogo più a rischio) no […]»

Ancora: il lasciapassare è richiesto per entrare in musei, cinema, teatri, ristoranti al chiuso, mense aziendali, spogliatoi sportivi. In altri luoghi dove la gente si addensa tanto quanto o di più, come shopping mall e supermercati, il lasciapassare non è richiesto, perché intralcerebbe il flusso delle merci e del denaro in settori che il governo vuole tutelare. Né è richiesto per assistere alla messa nelle parrocchie, perché dopo il «lockdown» dell’anno scorso, che ha interferito addirittura con la celebrazione della Pasqua, la Chiesa cattolica deve aver fatto capire a chi di dovere che non sopporterà altre interferenze col culto.

Un ulteriore ginepraio di assurdità lo scopriremo dando un’occhiata a come funzionano eventi artistici e culturali. Tempo al tempo.

La gente si stava vaccinando anche senza lasciapassare

Poiché quella in corso è una pandemia, è logico che se parliamo di immunità collettiva da raggiungere mediante vaccinazione la popolazione di riferimento è quella mondiale. Se ci tocca parlare della percentuale nazionale di vaccinati è perché un lasciapassare sanitario agganciato alla campagna vaccinale è stato introdotto in pochissimi paesi oltre al nostro, e con queste caratteristiche c’è solo da noi.

Nonostante tutti gli intoppi – la gestione certo non brillante dell’uomo dei fiori prima e dell’uomo in mimetica dopo, le dosi che arrivano in base a tempi e capricci delle multinazionali farmaceutiche… – tutti i dati dicono che la campagna vaccinale procedeva spedita già prima del 6 agosto, data di introduzione del lasciapassare. Se non sembra è perché un’informazione terroristica urla «ALLARME!!! 10% di NO VAX!!!11» quando il 90% dei lavoratori di un settore risulta vaccinato. Ora, checché se ne dica, la campagna è praticamente alla volata finale.

L’obiettivo non è vaccinare il 100% della popolazione italiana. Dal totale vanno esclusi gli italiani sotto i 12 anni, cioè più o meno sei milioni di persone, ergo circa il 10% della popolazione. Poi c’è chi non può vaccinarsi per motivi di salute, ci sono persone guarite che prima di vaccinarsi preferiscono aspettare, e c’è una percentuale di refrattari inconvincibili che alcune fonti stimano tra il 3 e il 6%. Poiché non è possibile una stima più accurata, di norma si fa coincidere la popolazione vaccinabile con l’intera popolazione over 12.

Quando abbiamo cominciato a scrivere questo post, cinque giorni fa, risultava completamente vaccinato – due dosi + monodose + dose unica per i guariti – il 61,6% della popolazione totale. In attesa di seconda dose – «parzialmente protetto» – era l’8,7% della popolazione totale, corrispondente al 9,6% della popolazione vaccinabile. Il che significa che potevamo già dare per acquisito il 70,3% della popolazione totale, corrispondente al 78% della popolazione vaccinabile. Alla data in cui terminiamo l’impaginazione, 1 settembre, risulta vaccinato il 71,9% della popolazione vaccinabile e «parzialmente protetto» il 79,8%. E ricordiamo che stiamo approssimando la popolazione vaccinabile per eccesso: la percentuale reale è certamente già di alcuni punti sopra l’80%. Insomma, la stragrande maggioranza dei vaccinabili è già vaccinata.

Dice: ma forse dopo il 6 agosto il lasciapassare ha avuto un effetto benefico. In realtà ad agosto il flusso delle somministrazioni è calato drasticamente. Dalle oltre 500.000 al giorno di fine luglio si è arrivati alle 50.000 di Ferragosto. È successo per vari motivi ricostruiti qui, il punto è che
1) la stragrande maggioranza dei vaccinati di oggi lo era già prima dell’introduzione del lasciapassare;
2) chi parla di un «effetto green pass» non sa quel che dice oppure ciurla nel manico. Anche senza la presunta “spintarella”, la campagna andava spedita.

Ma come spedita? Non era sabotata dai malvagi No Vax?

L’invenzione delle emergenze «medici no vax» e «insegnanti no vax»

L’estate che sta finendo non ha avuto un tormentone musicale degno di questo nome. In compenso ha avuto la campagna allarmistica sui «medici no vax» – e più in generale i «sanitari no vax» – e gli «insegnanti no vax»: giorni e giorni di terrorismo, titoli horror, numeri sparati ad altezza d’uomo, minacce antisindacali…

Partiamo dal settore sanitario. Due settimane fa uno di noi commentava:

«Perché proprio tra chi ha una formazione medica/clinica e cura le persone, stando a quanto si legge, è così diffuso il dissenso sulle mosse del governo? […] L’anno scorso chiunque lavorava nella sanità era un “eroe”, questa – anche solo applicando la legge dei grandi numeri – è la stessa gente del 2020 ma nel 2021 è stata scelta come public enemy e nessuno sembra interessato ad ascoltarla […] Se i professionisti della sanità che i media descrivono in blocco come “novax” sono tanti come dice questa campagna d’allarme, è stupido se non criminoso non chiedersi come mai ciò avvenga proprio nella sanità; se invece sono pochi, è stupido e criminoso accettarli come capri espiatori, rovesciando su di loro le colpe della situazione.»

Poi si è appurato che i numeri erano gonfiati. Come ha scritto Isver in un commento del 24 agosto:

«I lavoratori della sanità non vaccinati sono 35.691 su 1.958.461 totali, ovvero l’1,82%. Al di là delle questioni di principio […] risulta davvero difficile pensare a una situazione ingestibile. Ricordo ancora che si ragionava concretamente di messa in sicurezza del sistema sanitario ben prima che i vaccini comparissero all’orizzonte, anche se adesso pare che quei protocolli non interessino più a nessuno.

Va detto poi che quello sopra è il numero dei non vaccinati, non di quelli che non vogliono vaccinarsi. Perché ci sono anche lavoratori della sanità che non possono vaccinarsi avendo a loro volta problemi di salute. Era uno dei motivi per cui gli ordini professionali ridimensionavano il fenomeno, anche se non il principale.

Nel totale di quasi due milioni di lavoratori della sanità, sono comprese anche le professioni non strettamente sanitarie, come gli OSS.

Stando al presidente di FNOMCEO – Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri – i medici che non si sono vaccinati ad esempio sarebbero circa lo 0,2% del totale e forse anche meno. In regioni come Lombardia, Liguria e Puglia, dice, si contano singoli casi di ricorsi al TAR contro l’obbligo vaccinale da parte di medici. Singoli casi.»

E nella scuola?

A fine luglio appaiono sui giornali dati allarmanti sui non vaccinati nella scuola. Diverse realtà del mondo della scuola fanno notare che i conti non tornano. Il commissario Figliuolo intima alle regioni di fare chiarezza entro il 20 agosto, ma c’è chi non aspetta, non può aspettare, non ce la fa proprio: il 14 agosto l’immunologo superstar Roberto Burioni – per noi l’antropomorfosi di tutto quel che non funziona nella comunicazione scientifica e nell’informazione sulla pandemia – tuona in un tweet:

«Gli insegnanti che senza motivo rifiutano il vaccino mettendo a rischio i loro studenti (che dovrebbero proteggere e formare con il buon esempio) non dovrebbero essere tamponati gratuitamente ma licenziati immediatamente. Vergogna per i sindacati che li difendono.»

Si alza un polverone, e soprattutto si alzano strida giustizialiste contro i nemici pubblici, gli insegnanti No Vax. Ma il 20 agosto escono i dati aggiornati, e si vede che i non vaccinati nella scuola sono molti meno di quanto si diceva. Sul Fatto Quotidiano si spiega qual era uno degli equivoci [spoiler] il casino l’aveva fatto Figliuolo, passando all’improvviso dalla vaccinazione per settori professionali a quella per fasce anagrafiche [/spoiler]:

«la cifra stimata dei docenti ancora in attesa di prima dose era pari a 220mila persone (15%). In realtà è il risultato di una sovrapposizione. Fino al 10 aprile scorso il personale scolastico che si presentava a fare l’iniezione era registrato come categoria. L’11 aprile un’ordinanza firmata dal Commissario ha imposto come priorità di vaccinazione l’età e non più la per professione. Il personale del mondo dell’istruzione perciò ha continuato a farsi vaccinare ma è stato catalogato senza l’indicazione del ruolo.»

Il 28 agosto nuovo aggiornamento, ecco cosa si legge in un articolo su Il manifesto:

«I dati sulle vaccinazioni del personale scolastico e universitario si vanno aggiornando. A una settimana dalla scadenza data dal commissario Figliolo alle regioni per verificare i numeri, incrociando le banche dati per età con quella degli addetti, viene fuori che il 90,45% ha avuto almeno una dose o la dose unica […] Eppure è un mese che il personale scolastico viene additato come un fortino di no vax. La docente Gloria Ghetti, fra le fondatrici del movimento Priorità alla Scuola: “È stata buttata via un’altra estate, dopo quella passata a parlare di banchi a rotelle. Ancora una volta non sono stati affrontati i problemi veri come le classi pollaio, le strutture fatiscenti e l’implementazione del personale docente”. Di diverso c’è che è stato introdotto il green pass obbligatorio per i dipendenti: “Quella dei docenti è la categoria più vaccinata – prosegue – quindi mi chiedo perché solo a noi? Sembra quasi un accanimento. Personalmente vaccinerei tutti ma quello del pass mi sembra un grande specchietto per le allodole per evitare di affrontare i problemi veri”.»

Insomma, a giudicare da titoli di giornali on line, servizi tv e campagne social, i «no vax» ci terrebbero praticamente sotto assedio. Guardando i numeri, sia per settore sia totali, si vede bene che ciò è falso.

Il nemico pubblico`«no vax» è un capro espiatorio. «I NOVAX!!!» è l’ennesima falsa risposta data dal sistema alla domanda: «Perché non siamo ancora usciti dall’emergenza?».

«No vax», nemici pubblici e nuclei di verità

Detto ciò, nel paese un’area di esitazione/opposizione vaccinale esiste, e se non costituisce il pericolo descritto (pompato) dai media, è comunque da tenere in considerazione. Nel senso che noi – inteso come noi anticapitalisti – dovremmo tenerla in considerazione.

Intanto, una declaratio terminorum. Dovremmo saper riconoscere l’ideologia contenuta nelle parole che il potere usa con entusiasmo. «No Vax» è un’espressione apparentemente inglese che però esiste solo in Italia ed è di conio giornalistico recentissimo, nata nella seconda metà del decennio scorso come calco di «No Tav» per descrivere una fantomatica «Italia dei no» popolata di ignoranti: «Non se ne può più di tutti questi No Tav No Triv No Vax ecc.»

Oggi, come «negazionista» nel 2020, «no vax» è il nome separatore [1] usato per annullare ogni sfumatura e criminalizzare il dissenso. Il complesso politico-social-mediatico chiama «no vax» anche chi, come noi, ritiene utile il vaccino contro il Covid, ma critica il lasciapassare e alcuni aspetti della vaccinazione, ovvero della «politica attraverso cui attivamente si producono, distribuiscono ed inoculano i vaccini». Il nome separatore non solo non aiuta a indagare e comprendere quel che sta accadendo, ma dà proprio una grossa mano a occultare, mistificare, omologare posizioni diverse e alimentare l’idea di un tentacolare nemico pubblico: il «no vax», contro cui bisogna «difendere la società».

Stiamo parlando di un fenomeno composito, pieno di differenze al proprio interno: quello che, tagliando con l’accetta, abbiamo a volte definito «antivaccinismo». Oggi nemmeno quest’espressione rende l’idea, perché mette insieme semplice scetticismo, riluttanza, timori fondati e infondati, fantasie di complotto e discorsi più sensati, e mette insieme tutti i vaccini e qualunque circostanza.

Se esistono soggetti ideologicamente contrari a qualunque vaccino in qualunque circostanza, non sono la maggioranza di quelli che il sistema chiama «no vax». La maggior parte delle persone sono contrarie o quantomeno scettiche o anche soltanto titubanti di fronte ad alcuni vaccini somministrati in certe condizioni. Inoltre, da quando esistono i vaccini antiCovid le presunte schiere dell’«antivaccinismo» si sono ingrossate con l’afflusso di persone storicamente favorevoli a tutti i vaccini precedenti ma esitanti nei confronti di questi qui.

Nessuno dovrebbe stupirsi dell’esitazione/rigetto nei confronti dei vaccini anti-Covid, stante la comunicazione incoerente e sensazionalistica con cui il governo e i media mainstream ne hanno accompagnato l’arrivo e la somministrazione, e stante che problemi ne sono venuti fuori eccome: si va dal merdaio planetario riguardante AstraZeneca – che oggi,  per dirla con Repubblica, «nessuno vuole più» – al ritiro di 1,6 milioni di dosi di Moderna in Giappone. E sul medio-lungo periodo potrebbero venire fuori altre magagne (da vaccinati e da persone che hanno a cuore le sorti dell’umanità, speriamo ovviamente di no).

Semmai, dovremmo stupirci del fatto che, tutto sommato, tale esitazione/rigetto, pur rilevante e da interrogare, nel Paese rimanga minoritaria.

Noi Wu Ming ci siamo vaccinati [2] e non abbiamo mai subito l’incanto di sirene antivacciniste. Tuttavia, nelle discussioni su Giap e più compiutamente nel libro La Q di Qomplotto argomentiamo che l’antivaccinismo non ci si può limitare a “smontarlo”: ne vanno compresi i nuclei di verità, cioè va riconosciuto l’anticapitalismo – a volte esplicito, più spesso inarticolato e inconsapevole – che vi si esprime, per provare a prevenire la “cattura” di quel malcontento da parte del cospirazionismo, il suo essere incanalato in fantasie di complotto.

Che, “a sinistra”, allo sviluppo di quest’abbozzo di strategia si preferisca l’arrogante «blastaggio» – quando non la vera e propria criminalizzazione – per noi è una tragedia, una débâcle politica e umana. Tanto più in quest’emergenza, quando i suddetti nuclei di verità sono parecchio grossi e nessuno che si dica anticapitalista dovrebbe fingere di non vederli.

I «nuclei di verità» [kernels of truth] – espressione che riprendiamo dalle riflessioni di vari psicoterapeuti e in particolare da Gregory Bateson – non sono punti di arrivo, cioè asserzioni e conclusioni che possiamo condividere, ma punti di partenza: premesse generali, intuizioni monche nate da malcontenti anche vaghi, da collere poco o punto elaborate, e in generale dal mal di vivere nella società capitalistica.

Nell’antivaccinismo si trovano gli stessi nuclei di verità da cui in passato si sono sviluppati nobili filoni di critica alla medicina capitalistica, da Ivan Illich alla coppia Ongaro & Basaglia, da Michel Foucault all’SPK tedesco, da Félix Guattari agli antipsichiatri inglesi, fino a certi smontaggi del sapere medico-clinico in chiave femminista.

Subordinazione della salute alla ricerca del profitto; rapporto morboso tra medicina e mercato; dipendenza della ricerca medico-farmaceutica da imprese ad altissima concentrazione di capitale; crescente burocratizzazione e spersonalizzazione della cura; sfiducia nell’industria sanitaria dopo una lunga sfilza di scandali... A tutto questo dobbiamo aggiungere nuclei di verità più specifici, formatisi nell’ultimo anno e mezzo: tutte le fandonie raccontate, tutto il terrore seminato, tutti i “doppi legami”, tutta l’informazione tanto più urlata quanto più incoerente che ha accompagnato la campagna vaccinale... Ce n’è persino d’avanzo.

Ma perché da questi nuclei di verità si sviluppano così spesso fantasie di complotto? Perché quelle narrazioni diversive funzionano così bene?

La nostra risposta è: perché non ne trovano altre a contrastarle. Dov’è oggi la critica sensata, su basi di classe, alla medicina capitalistica? Se quel terreno era quasi spopolato già prima, dall’inizio della pandemia è rimasto presocché deserto, perché la maggior parte delle compagne e dei compagni ha sposato la «Fiducia nella Scienza», che significa poi: fede nello scientismo. Si fa riferimento a una Scienza unica, neutra e universale nei suoi assunti e paradigmi, casomai (ma proprio casomai) si ritiene criticabile il rapporto tra scienza e politica in certe sue contraddizioni secondarie.

Sui siti “di sinistra”, quando va bene, si trovano discorsi al cui confronto il programma di Gotha criticato da Marx era all’avanguardia, cioè critiche tutte sul versante della distribuzione. Persino la sacrosanta polemica contro la proprietà intellettuale di farmaci e vaccini è articolata solo su quel piano. C’è pochissima critica della produzione di cura, dell’ideologia che orienta la clinica e ancor prima la definizione di malattia, del fatto che un paradigma epistemologico non è neutro ma plasmato da rapporti di produzione, di proprietà, di potere ecc.

Inutile girarci attorno: nel loro modo sballato e con tutti i bias cognitivi che vogliamo (e che vanno esposti e criticati con durezza), quelli che il mainstream  e la “sinistra” perbene chiamano «no vax» sono tra i pochi a tentare una critica alla scienza medica sul versante della produzione, dei rapporti di proprietà, della non-neutralità della scienza una volta vista dentro tali rapporti ecc. Nel loro confusionismo, alcuni di loro sono istintivamente più “marxisti” di certi eredi del marxismo smarritisi nello scientismo.

Sinceramente, con chi non riesce ad andare oltre la facciata dell’antivaccinismo, vedere tutto questo e ripartire da tutto questo, noi fatichiamo anche solo a discutere, perché viene a mancare proprio il terreno comune. Per questo battiamo tanto su questo chiodo.

In sintesi, noi siamo per scavalcare la trappola dicotomica vaccinismo / antivaccinismo perché:

1. Non è necessario essere contro i vaccini per essere contro la strumentalizzazione che ne fa il governo.

2. È necessario parlare ogni volta che è possibile con chi manifesta «esitazione vaccinale» o opposizione ai vaccini, e farlo senza burionismi, perché quelle posizioni si sviluppano a partire da nuclei di verità che dobbiamo saper riconoscere e perché va scongiurata la “cattura” di quel malcontento da parte di cospirazionismi vari.

3. Oggi molte persone che non sono mai state contro i vaccini sono additate come «novax», perché il «novax» è il nemico pubblico più facile da additare, il capro espiatorio dei fallimenti e delle porcherie della classe dirigente, e per quanto possibile dovremmo difendere le persone di cui sopra da questo mobbing politico-mediatico.

In quest’anno e mezzo è successo qualcosa, un cambiamento pesante nella testa delle persone. Governo e mass media ci hanno fatto credere e fare cose assurde, senza senso, scaricandoci addosso il peso morale di tutto pur di sottrarsi all’evidenza dell’inettitudine politica e del disastro sistemico. Ancora una volta: suona strano che ci sia gente che non si fida più, o che ha paura, o che pensa a un complotto? È gente che è stata vittima di un trattamento scriteriato e oggi non vuole più subire alcun trattamento, nemmeno sanitario. Soprattutto dopo essere stati trattati come cretini e delinquenti dalle autorità per diciassette mesi, sentirsi dare dei cretini e delinquenti non smuoverà di un millimetro chicchessia.

Da qualche giorno la colpevolizzazione sta raggiungendo il parossismo, con Repubblica in prima fila ad accusare in blocco i «no vax» di qualunque cosa: minacce, aggressioni, attentati, «escalation di violenza», tutto è gettato nel calderone e attribuito in maniera indiscriminata.

Simili campagne «d’opinione» sono sempre preludio a orrori concreti. E così, ecco l’aberrante annuncio dell’assessore alla sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato: i «no vax» che si ammaleranno dovranno pagarsi la terapia intensiva (1500 euro al giorno).

Ovviamente non può trattarsi di un’iniziativa individuale, questa trovata da flame sui social devono averla discussa in giunta regionale. E nella “sinistra” di questo paese molti si dicono d’accordo. E magari tra chi si dice d’accordo c’è qualcuno che fuma, e se un giorno si pigliasse un canchero non vorrebbe mai pagarsi la chemioterapia.

La verità è che costoro, nonostante sproloquino incessantemente di «bene comune», la sanità come servizio pubblico e universale non hanno proprio idea di cosa sia.

Del resto, come potrebbero, se ormai subordinano l’appartenenza stessa al consesso umano a una certificazione su base etica da parte dello Stato?

E in fondo, non sono proprio loro quelli che la sanità l’hanno aziendalizzata, tagliata con la mannaia, privatizzata e semi-smantellata, con le conseguenze che abbiamo visto l’anno scorso?

2. Il lasciapassare ti convince che la colpa è tua, o meglio: del tuo prossimo

Il lasciapassare è lo strumento con cui il governo prosegue la strategia adottata fin dall’inizio della pandemia, quella di metterci tutti sul chi vive gli uni contro gli altri. In questo caso potremmo dire: “sul chi merita di vivere” e chi invece deve stare chiuso in casa «come un sorcio».

Deviare l’attribuzione di responsabilità verso il basso e disperderla in orizzontale è ciò che ha fatto la classe dirigente fin dai primi di marzo del 2020.

Prima il nemico pubblico era chi faceva la «corsetta» o anche solo la passeggiata. Ricordiamo bene la volta in cui il sindaco di Bologna Virginio Merola paragonò le persone che continuavano a fare due passi o fare jogging a «sacche di resistenza» da sgominare, aggiungendo: «Ci sono ancora alcune zone, in particolare nelle periferie, dove il richiamo del verde è molto forte.»

Questo, rammentiamolo, mentre le fabbriche di Confindustria restavano aperte e treni e bus giravano carichi di pendolari.

Oggi è assodato che il divieto di camminare nei parchi e in generale di stare all’aperto non aveva il minimo fondamento scientifico. Qui citiamo il New York Times:

«There is not a single documented Covid infection anywhere in the world from casual outdoor interactions, such as walking past someone on a street or eating at a nearby table».

Poi c’è stata la campagna – forse la più demenziale – contro... i «furbetti di Pasquetta», gente che progettava di commettere gravi crimini come fare una gita in collina o raggiungere la propria casa delle vacanze.

Poi si è sferrato l’attacco alla «movida», termine spagnolo ma che si usa così solo in Italia. Ancora una volta gente che stava all’aperto, nelle piazze, fuori dalle rotte reali del contagio.

Poi è stato il turno degli stronzi irresponsabili che erano andati in ferie, molti dei quali... usando il «Bonus vacanze» dato loro dal governo.

Nel frattempo c’era la voga del dare a chiunque del «negazionista».

Poi c’è stato l’obbligo di mascherina all’aperto, e chiunque dicesse che era insensato – cioè dicesse la pura verità – era un «no mask», altro esempio di anglicorum di regime.

E mica li abbiamo elencati tutti, i diversivi e i capri espiatori.

Ogni volta si è trovato un modo di scaricare su bersagli implausibilissimi le colpe del governo e dei padroni, al fine da continuare a gestire l’emergenza in modo capitalistico, facendo leva sulla pandemia per un’enorme ristrutturazione.

Ora è il turno dei «no vax», e ormai viene chiamato così chiunque non abbia il lasciapassare, e persino chi ce l’ha ma non lo descrive in modo encomiastico.

A illustrare al meglio come funziona la deresponsabilizzazione, l’amore di Confindustria per il lasciapassare.

I lavoratori nelle aziende sanno bene che il rischio calcolato sulla loro pelle durante i picchi pandemici del 2020 è stato altissimo. Quante mense aziendali sono state chiuse per focolai Covid l’anno scorso? Nemmeno ne è giunta notizia. Se uno studente trovato positivo implicava il tampone per tutta la classe e la sospensione delle lezioni in presenza in attesa degli esiti, per gli operai non è mai stato così, o almeno nessuno ha controllato che lo fosse.

Nella maggior parte dei casi il lavoratore positivo al tampone veniva messo a casa in malattia per due settimane e amen. In malattia, non per infortunio come previsto dall’art. 42 del D.L. n. 18/2020. La differenza non è da poco: se sei in malattia l’Inail non riceve alcun avviso, tutto si ferma lì, i tuoi colleghi non vengono tamponati e la produzione non subisce stop né rallentamenti. È grazie a quest’escamotage che i focolai nelle fabbriche sono rimasti invisibili. Nel mondo sindacale lo sanno tutti, è un segreto di Pulcinella.

Massimo rischio per i lavoratori, minimo rischio per l’azienda.

Ora quegli stessi lavoratori si ritrovano appeso all’ingresso dello stabilimento un bel cartello del padrone che dice che chi non ha il lasciapassare per entrare a mensa deve fare il tampone rapido ogni 72 ore – cioè due tamponi a settimana – al costo di €25 cada uno, duecento euro al mese che verranno addebitati in busta paga. Non c’è bisogno di essere «no vax» per incazzarsi. Basta pensare che lo stesso padrone che prima se ne fotteva della tua salute, ora ti costringe ad assumerti la responsabilità che lui non ha mai voluto assumersi, sotto il ricatto di una penalizzazione salariale.

Ma l’amore di Confindustria – e Confapi, il suo corrispettivo per la piccola e media impresa – si è fatto ancora più forte. I padroni premono sui sindacati confederali e sul governo per ottenere – unici in Europa – l’obbligo vaccinale per gli operai. Chi non ha il lasciapassare non deve proprio poter lavorare.

Il lasciapassare degli operai è in realtà un salvacondotto per i padroni. Anche se la situazione dovesse peggiorare, la produzione non correrà mai il rischio di fermarsi.

Il lasciapassare è una garanzia che, qualunque cosa accada, si proseguirà coi diversivi.

3. Il lasciapassare non estende l’area del possibile, anzi, la restringe

Dal punto di vista dei comportamenti il lasciapassare non cambia nulla: rimane la mascherina al chiuso, rimane il distanziamento ecc. Viene però introdotta una discriminazione, in base alla quale certe persone potranno fare meno cose di quante ne potevano fare prima. Ancora una volta citiamo Isver:

«Prima fai di tutto per convincermi che in assenza di vaccini le regole di comportamento fanno la differenza. Poi arrivano i vaccini. Quindi per convincermi che sono i vaccini a fare realmente la differenza, metti in discussione l’utilità delle regole di comportamento. Ma non nelle condizioni di prima. Prima era prima. Le regole di comportamento non bastano più… adesso! Adesso che più di [sette] italiani su dieci sono vaccinati. Quindi in sostanza bisogna vaccinare tutti per ripristinare le condizioni di sicurezza di quando non c’erano i vaccini. Non fa una piega.

in assenza di vaccini, erano tutti assolutamente certi che per azzerare la circolazione del virus fossero sufficienti [portare la mascherina, lavarsi le mani e restare distanziati]. Adesso, con la maggioranza assoluta delle persone vaccinata, uno si aspetterebbe che a dover rispettare quelle sacre regole fosse la minoranza non vaccinata. E invece no! Sono i vaccinati a doverle rispettare, mentre per i non vaccinati non bastano più nemmeno quelle. Fra un po’ non potranno più nemmeno lavorare, quando appunto un anno fa era essenziale che rischiassero la vita anche per produrre cazzi di gomma.

Ora, a me sta benissimo che se prima nessuno poteva andare allo stadio, per dire, adesso possa andarci solo chi ha il green pass. È una condizione per la riapertura di uno spazio altrimenti chiuso. Quello che non mi sta bene è che adesso possa prendere il treno solo chi ha il green pass, quando prima lo potevano prendere tutti indistintamente. Questa per me è discriminazione e basta.

[...] Come abbiamo fatto a mettere in sicurezza gli ospedali e gli ambulatori prima che gli operatori sanitari avessero la possibilità di immunizzarsi? Eppure l’abbiamo fatto. Adesso però, col [70]% di popolazione vaccinata e il [99]% di operatori vaccinati, [descrivono] la situazione [come se fosse] peggiorata, anziché migliorare.»

Chi ha il lasciapassare può fare ciò che prima poteva fare anche senza. Chi non ce l’ha, non può più fare ciò che prima poteva fare purché con mascherina e distanziato.

L’asticella dei requisiti per poter vivere, lungi dall’abbassarsi, si è alzata. Senza alcun peggioramento della situazione da poter addurre a “giustificazione”.

4. Controllo padronale, invasione della privacy, discriminazione

Il lasciapassare è uno strumento di discriminazione dei lavoratori che facilita il controllo padronale, i licenziamenti, le vessazioni.

Chi può esserne esentato per motivi di salute – c’è gente che non può oggettivamente vaccinarsi – o non si vaccina per resistenze personali – giuste o sbagliate che siano, comunque legittime – oltre a dover restare fuori da certi luoghi sarà tenuto a giustificarsi con il datore di lavoro, ovvero a dargli una serie di informazioni private sulla propria salute o sulle proprie convinzioni che resteranno nella disponibilità di quest’ultimo e che potrebbero esporre il lavoratore all’ostracismo dei colleghi (come sta avvenendo in certe fabbriche).

Fabbriche dove il lasciapassare alimenterà cultura del sospetto e della delazione. Come ha scritto in una discussione qui su Giap Ibnet:

«In questo ormai lunghetto periodo pandemico [...] ne abbiamo vissute di tutte, tra gente armata nelle strade, balcodelazioni incoraggiate via TG, gogne social, fabbriche aperte vs cimiteri chiusi. Quello che il green pass spinge al livello successivo è la possibilità di ogni lavoratore, in scuole, uffici, ristorazione, fabbriche, di essere nominato dai padroni come responsabile del controllo di colleghi e clienti. Controllo di adesione a raccomandazioni governative, tutte emanate in stato di emergenza continuo senza alcun controllo (quello che ci piace) popolare verso i dirigenti. Controllo effettuato da gente non preparata e che non ha mai scelto di fare il controllore.»

Più in generale, come ha ricordato l’ex-magistrato Livio Pepino:

«Gli effetti a lungo termine dell’erosione di un principio o di un diritto fondamentale [...] sono imprevedibili. Ed è per questo che la normativa europea (a cui pure la legislazione nazionale dovrebbe uniformarsi) è drastica nell’escludere la possibilità di strumenti siffatti. Il punto 36 del regolamento UE 953/2021 prevede, infatti, che “è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che [...] hanno scelto di non essere vaccinate” e ad esso si affianca la risoluzione n. 2361/2021 del Consiglio d’Europa, che, nei punti 7.3.1 e 7.3.2, prescrive di “assicurare che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno è politicamente, socialmente o altrimenti sottoposto a pressioni per farsi vaccinare” (punto 7.3.1) e di “garantire che nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato o per non voler essere vaccinato” (punto 7.3.2).»

E d’altro canto, anche l’OMS sostiene una posizione molto simile, quando sconsiglia l’introduzione dell’obbligo vaccinale [3].

5. «Tanto verrà applicato all’Italiana» e altre belle obiezioni (e benaltrismi)

– Ma sì, tanto sarà applicato a cazzo di cane, si risolverà in una cialtronata, non merita di occuparsene!

Il fatto che la gestione della pandemia sia cialtrona dovrebbe farci preoccupare di più, non di meno.

Non solo perché la cialtroneria – soprattutto in Italia – non è in antitesi con l’autoritarismo, anzi, ne è una caratteristica fondamentale (cosa c’era di più cialtrone del fascismo?). No, c’è di più di questo. Di mossa cialtrona in mossa cialtrona – regolarmente sottovalutata perché tanto è cialtrona – si stabiliscono precedenti via via più gravi.

Lo ha detto bene Wolf Bukowski: «I provvedimenti/sparate del governo sono random, ma quelli che sopravvivono, cioè diventano effettuali, sono quelli che mostrano maggiore adattabilità rispetto al sistema di governo e all’emergenza.»

– Ma perché vi scaldate tanto? Anche la patente è un documento senza il quale non puoi fare certe cose...

Ha già risposto perfettamente Livio Pepino:

«l’abilitazione alla guida (così come quella all’esercizio di una professione) riguarda l’esistenza o la mancanza dei requisiti tecnico-professionali per svolgere una specifica attività e pone una differenza di trattamento solo con riferimento a quella attività e non a una generalità (potenzialmente indeterminata) di situazioni.»

– Invece di perdere tempo col green pass che è un diversivo perché non parlate del fatto che la sanità è messa come prima se non peggio, della ristrutturazione, dei licenziamenti, delle devastazioni…?

Insomma, tu spieghi che il lasciapassare è un diversivo, e che anche grazie al lasciapassare il capitale potrà continuare a ristrutturare, licenziare, devastare e continuare a privatizzare la sanità; loro ribattono che... è tutta una perdita di tempo perché mentre noi parliamo del lasciapassare il capitale ristruttura, licenzia, devasta...

Logica ineccepibile.

Fine della prima puntata / 1 di 2
Aggiornamento 09/09/2021: la seconda puntata è qui.

N.B. I commenti saranno attivati solo con la pubblicazione della seconda puntata, che avverrà nei prossimi giorni (e includerà il calendario dei nostri appuntamenti pubblici da settembre a novembre 2021).

NOTE

1. Sul concetto di «nomi separatori» si veda qui.

2. Qui un interessante dibattito sulla questione: ha senso o no un tale disclaimer?

3. Il documento ufficiale «COVID-19 and mandatory vaccination: Ethical considerations and caveats» spiega perché in generale l’obbligo è raramente una buona idea, sia sotto vari aspetti concernenti l’etica e la bioetica, sia per quanto riguarda la sua efficacia. Va letto tutto, ma in sintesi si afferma che se un determinato fine di salute pubblica «can be achieved with less coercive or intrusive policy interventions (e.g., public education), a mandate would not be ethically justified, as achieving public health goals with less restriction of individual liberty and autonomy yields a more favourable risk-benefit ratio.»

Fonte

30/08/2021

La paranoia è contagiosa (2006) di W. Friedkin - Minirece

Sabin, per non dimenticare perché si vaccina

Il 26 agosto di 113 anni fa, Albert Bruce Sabin nasceva nel ghetto di Bialystok, città polacca allora sotto il dominio zarista. A 15 anni emigrò con la famiglia negli Stati Uniti, perché il padre, artigiano, cercava miglior fortuna e voleva sottrarre la famiglia al pesante clima antiebraico di cui aveva rischiato di fare le spese Albert stesso, quando, ancora bambino ma già individuabile dai tratti semitici che lo caratterizzano nelle foto da adulto, era stato fatto oggetto di una sassaiola in quanto “deicida”.

In America, il giovane Sabin mise a frutto il suo talento e la sua volontà negli studi cominciati nella facoltà di odontoiatria, ma terminati in quella di medicina dopo essersi scoperto un interesse speciale per la microbiologia e la virologia. Epidemie ricorrenti

Tuttavia, fu quasi per caso che Sabin si mise a studiare la poliomielite: “Fu il mio maestro, dottor Park, famoso per aver debellato la difterite, a consigliarmi di studiare la polio – ebbe a dire Sabin - quindi non fu una mia scelta: fu l'unica volta che feci qualcosa dietro suggerimento di un altro". Era il 1931, Sabin si era appena laureato e negli Stati Uniti era scoppiata una delle ricorrenti epidemie di polio. La precedente, del 1916 nel Nordest degli Stati Uniti, aveva registrato più di 27.000 casi con 6.000 morti.

La poliomielite colpisce soprattutto i bambini sotto i cinque anni di età, ma non solo: per esempio, aveva colpito il presidente Franklin Delano Roosevelt a 39 anni, lasciandolo semi-paralizzato. Il libro di Philip Roth “Nemesi” è interamente dedicato alla tragedia dell’estate del 1944 nella sua città natale, Newark, flagellata dalla poliomielite:
Il bollettino della polio, che veniva trasmesso quotidianamente dalla stazione radiofonica locale, teneva aggiornati i newarkesi sul numero e la localizzazione di ogni nuovo caso in città [...] Ovviamente, l’impatto di quei numeri era sconfortante, terrificante e defatigante. Perché quelli [...] erano gli spaventosi numeri che certificavano l’avanzata di un’orribile malattia e che, nelle sedici circoscrizioni di Newark, equivalevano ai numeri dei morti, feriti e dispersi della vera guerra. Perché anche quella era una vera guerra, una guerra di annientamento, distruzione, massacro e dannazione, una guerra con tutti i mali della guerra: una guerra contro i bambini di Newark
Perché la poliomielite era così diffusiva? Questa malattia, descritta per la prima volta dal medico britannico Michael Underwood nel 1789, è causata da tre tipi di enterovirus, con l’uomo come unico serbatoio naturale. Il contagio avviene per via oro-fecale, attraverso l’ingestione di acqua o di cibi contaminati o di microgocce di saliva (le cosiddette goccioline di Flügge) emesse da soggetti ammalati o portatori sani. Il virus attacca il sistema nervoso (soprattutto i neuroni motori del midollo spinale) e causa una paralisi di vario grado di gravità: dalla paralisi flaccida degli arti (soprattutto delle gambe) all’interessamento dei muscoli respiratori (negli anni cinquanta del secolo scorso erano molto diffusi i polmoni d’acciaio). Poiché solo l’1% dei contagiati con i virus della polio sviluppa la paralisi e il 10% sviluppa una forma di meningite asettica, il restante 90% circa, che presenta sintomi simil influenzali e perciò non viene isolato, è in grado di far circolare velocemente l’infezione in una comunità non vaccinata.

Storia di un vaccino

Sabin si mise a studiare la malattia avendo ben chiare le prerogative di un ricercatore, che egli sosteneva essere un’enorme curiosità, una grande tenacia e l’onestà: “Se una sua scoperta sembra troppo bella per essere vera, ci sono buone possibilità che non lo sia”. Al suo rigore professionale (oltre che al suo caratteraccio) erano da addebitare le frequenti scenate verso chi, in laboratorio, gli pareva non avesse condotto a dovere un esperimento.

Agli inizi degli anni Cinquanta, Sabin riuscì a sviluppare un vaccino orale contro la poliomielite da virus vivi attenuati, più efficace di quello da virus uccisi sviluppato negli stessi anni da altri gruppi di ricerca, come quello di Jonas E. Salk. Dopo l’esito positivo dei controlli sugli animali, passò a sperimentarlo sugli esseri umani, cominciando dai suoi collaboratori e da se stesso, e infine sui bambini, cominciando dalle proprie figlie, cui aveva dato i nomi delle nipotine trucidate dalle SS: Amy, di cinque anni, e Debbie di sette anni.

Negli Stati Uniti, però, era già partita la campagna d’immunizzazione con il vaccino Salk; Sabin offrì, così, il proprio ai governi dell’est Europa (la prima nazione a produrre industrialmente il vaccino di Sabin fu la Cecoslovacchia, seguita da Polonia, Urss e Germania orientale), dove in un paio di anni, dal 1959 al 1961, furono vaccinati milioni di bambini. Nel 1963, finalmente, il Sabin divenne il vaccino di scelta anche negli Stati Uniti, e tra il 1962 e il 1965 più della metà della popolazione statunitense dell’epoca lo aveva ricevuto, con drastica diminuzione dei casi poliomielite, già molto ridotti dopo l'introduzione del vaccino Salk. L’ultimo caso americano risale al 1979.

Sabin non volle brevettare il vaccino, rinunciando ad arricchirsi, per mantenere un prezzo che consentisse una sua più vasta diffusione.

In Italia, che nel 1958 aveva registrato 8.000 casi di poliomielite, ma che aveva fatto scorta di vaccino Salk, il vaccino di Sabin fu autorizzato solo nel 1963 e reso obbligatorio nel 1966; secondo lo storico della medicina Giorgio Cosmacini, il ritardo nella sua adozione costò quasi 10.000 casi di poliomielite (oltre 1.000 morti e 8.000 paralisi). L’ultimo caso italiano è stato registrato risale al 1982.

Salk e Sabin a confronto

Il vaccino di Sabin è più facile da somministrare di quello di Salk: è in una sola dose da assumere per bocca (con la famosa zolletta) e, per di più, il virus vivo attenuato viene eliminato con le feci, ottenendo un'elevata copertura vaccinale di massa, anche nei confronti degli individui non vaccinati. Inoltre, i virus attenuati contenuti nel vaccino sono in grado di competere ecologicamente con i virus selvaggi presenti nell'ambiente costituendo un ulteriore fattore di protezione dal contagio.

Vi è, però, il rischio di una possibile retromutazione genetica, durante il transito intestinale, dei virus attenuati, con ripristino della loro virulenza e insorgenza di una paralisi flaccida in 1 caso ogni 2,2 milioni di dosi somministrate. Il rischio è più alto dopo la prima dose (1 caso ogni 550.000 bambini). Per queste ragioni, dei due vaccini antipolio disponibili, dove la malattia è ormai virtualmente debellata, si preferisce non correre il rischio di una paralisi iatrogena e si somministra il vaccino inattivo, mentre il vaccino Sabin resta raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità per i Paesi ancora a rischio di epidemie.

Il termine “virtualmente” merita una spiegazione: la regione europea è stata dichiarata dall’OMS libera da polio nel 2002 e nel settembre del 2015 è stata annunciata l’eradicazione del poliovirus selvaggio (WPV) tipo 2, ma è ancora possibile che si verifichino casi da contagio con individui provenienti da Paesi dove la malattia è ancora endemica (soprattutto Asia centrale e Africa centrale). Occorre, quindi, mantenere l’allerta (continuando a vaccinare) fino a che il ciclo di trasmissione della poliomielite sarà interrotto a livello mondiale. Questo è l’obiettivo dell’OMS, simile a quello già raggiunto per il vaiolo, dichiarato eliminato nel 1980.

Anche in Italia, per decisione della Conferenza Stato Regioni, nel 2002, dopo l’eradicazione completa della polio in Europa, l’unica forma di vaccino somministrato è quello che contiene i tre virus della poliomielite uccisi (inattivati). Presso il Ministero della salute viene, però, mantenuta una scorta di vaccino orale attivo come misura precauzionale, in caso di emergenza e di importazione del virus. Da qualche anno si usa un vaccino Salk potenziato in antigeni che determina una protezione sovrapponibile a quella ottenuta con il vaccino Sabin, senza la necessità di numerosi richiami e con requisiti di grande sicurezza, con la rara eccezione di reazioni allergiche agli antibiotici in esso contenuti (neomicina, polimixina B, streptomicina).

Fonte

Afghanistan - Radiografia di un fallimento

La settimana scorsa abbiamo discusso le ripercussioni geopolitiche della sconfitta USA e NATO in Afghanistan. Si tratta, naturalmente, di una situazione in evoluzione che deve ancora mostrare le sue vere dimensioni. Quindi, il risalto che la questione ha guadagnato tra gli analisti e i politici, ovviamente vista da prospettive diverse, sembra giustificato.

In questo senso, la superficialità, la banalità e persino l’ignoranza con cui alcuni leader occidentali si riferiscono alla situazione generata dalla loro stessa stupidità – che può essere intesa solo come espressione della loro arroganza imperialista – è profondamente sorprendente.

È inquietante constatare che la pace del mondo è nelle mani di un tale gruppo di irresponsabili. Il “ritiro” dall’Afghanistan lo ha reso chiaro.

A questo proposito, il presidente Joe Biden ha affermato che gli Stati Uniti stanno realizzando una delle più grandi e difficili evacuazioni della storia, affermando di essere “l’unico paese al mondo in grado di proiettare così tanta forza in un luogo così remoto”.

Oltre ad essere falso, Biden sta mettendo in campo tutta la sua ignoranza per costruire una nuova narrazione volta ad incoraggiare il lavoro degli studios di Hollywood. È probabile che già – come in Vietnam – si stiano preparando centinaia di film che mostrano la vittoria americana, l’eroismo dei suoi soldati e il genio dei suoi generali, finché un nuovo Oliver Stone non emerga e un altro film come “Platoon” smentisca e sfati la falsità.

Biden sa cosa accadde a Dunkerque alla fine di maggio 1940 quando 330.000 soldati dovettero essere ritirati in Inghilterra? Biden sa cosa accadde a metà ottobre 1941 quando il governo sovietico e gran parte della popolazione furono costretti a lasciare Mosca quando le truppe naziste erano a soli 120 km dalla capitale?

Questi due eventi – che sono quelli che mi vengono in mente ora – furono davvero “evacuazioni difficili nella storia”, perché furono fatte sotto attacco incessante da parte dell’esercito tedesco, non dopo accordo, sostegno e approvazione da parte del “nemico”, che è quello che sta succedendo ora a Kabul.

Non è questa la ragione del “disastro afgano”. Volerla trasformare in un evento epico è solo una chiara dimostrazione di un’altra sfaccettatura della sconfitta, tanto che lo stesso Biden ha ammesso che mentre l’obiettivo è organizzare un’evacuazione sicura, è consapevole dei rischi, accettando di non poter promettere “quale sarà l’esito”.

Come è possibile che il presidente della nazione più potente del mondo, che ha fatto un accordo per ritirarsi dall’Afghanistan, non possa promettere buoni risultati di un tale evento?

Lo stesso ex presidente Trump, che è stato il “padre” di quell’accordo, ha detto: “La fallita ritirata di Biden dall’Afghanistan è la più sorprendente dimostrazione della più totale incompetenza da parte del leader di una nazione, forse di tutti i tempi”. Trovo difficile essere d’accordo con Trump su qualsiasi cosa, ma devo ammettere che in questo caso ha assolutamente ragione.

A sua volta, uno dei promotori e organizzatori dell’invasione della NATO nel paese dell’Asia centrale, l’ex primo ministro britannico Tony Blair, “sanguinando dalla ferita” del suo gioco fallito, ha descritto il ritiro come una mossa “tragica, pericolosa e non necessaria”, sostenendo che è stato “guidato non dalla grande strategia ma dalla politica”.

In una critica aperta e intemperante a Biden, Blair è arrivato ad affermare che le forze si sono ritirate “in obbedienza a qualche slogan politico imbecille sulla fine delle ‘guerre eterne’”, riferendosi alla dichiarazione di Biden per la presenza statunitense in Asia occidentale. Blair ha sostenuto che la decisione di ritirarsi dalla regione colpirà sia l’Afghanistan stesso che l’Occidente.

Nonostante sia passata poco più di una settimana dall’occupazione talebana di Kabul, i dettagli del fallimento cominciano già ad emergere. A questo proposito, Yossi Melman, un giornalista di intelligence ed editorialista del quotidiano israeliano Haaretz, ha opinato che “l’importante lezione che Israele deve trarre da questa situazione è che l’era del coinvolgimento degli Stati Uniti in Medio Oriente sta per finire”.

L’opinione del comunicatore sionista mostra l’impatto che la sconfitta degli Stati Uniti sta avendo sui suoi alleati. Il giornale americano The Hill, pubblicato a Washington, ha scritto una nota il 22 agosto in cui menzionava questa situazione. Dice che la debacle in Afghanistan “sta causando un effetto a catena di preoccupazione tra gli alleati che dipendono da Washington per la protezione militare”.

Un tale seguito è stato oggetto di un dibattito urgente ad alti livelli politici, militari e di intelligence nello stesso Israele, a Taiwan e in altri paesi come la Corea del Sud, il Giappone, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, la cui stabilità dipende dalla presenza di forze armate statunitensi.

La preoccupazione espressa dagli alleati degli Stati Uniti ha superato i confini nazionali fino a Washington, dove sia il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan che il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price sono stati costretti a dare prova di fiducia nel fatto che gli Stati Uniti onoreranno i loro impegni con i propri partner nel mondo.

Gli eventi in Afghanistan sono indicativi di un fallimento che non si manifesta solo in ambito militare, dato che i talebani non potevano essere sconfitti, ma anche in ambito diplomatico, dove gli Stati Uniti non sono riusciti a informare i loro alleati dei piani di ritiro.

A questo proposito, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha detto che l’organizzazione è stata “completamente sorpresa” quando i talebani sono saliti al potere. Senza nascondere il suo stupore, il leader atlantico ha detto: “La velocità del crollo della leadership politica e militare afgana e delle forze armate non era prevista”, affermando che una valutazione è ora necessaria per sapere “cosa è andato storto, così come dove abbiamo avuto successo”.

In un’altra insolita manifestazione di mancanza di controllo e di irresponsabilità, ha spiegato che non sa quale percentuale delle armi dei paesi membri dell’organizzazione sia rimasta nelle mani dei talebani dopo che l’alleanza ha lasciato il paese.

In altre parole, parte dei miliardi di dollari spesi per le armi sono ora sotto il controllo di forze sconosciute e potrebbero facilmente trovare la strada per le organizzazioni terroristiche che la NATO sosteneva di combattere.

In un’altra manifestazione della totale mancanza di supervisione che avrebbe impedito il caos e l’illegalità che ora regna a Kabul, il capo diplomatico dell’UE, Josep Borrell, ha dichiarato che è “impossibile” per gli Stati Uniti e i loro alleati europei evacuare il proprio personale afgano e le loro famiglie da Kabul entro il 31 agosto, incolpando le truppe statunitensi all’aeroporto della città di ostacolare lo sforzo di evacuazione.

Questo ha creato un’ulteriore tensione sulla già inefficace operazione statunitense, che ha preso acqua fredda di fronte alle assicurazioni del comando talebano che non ci sarà alcuna estensione del periodo di evacuazione del 31 agosto.

In una mossa che potrebbe essere ridicola se non fosse in gioco la vita di migliaia di persone innocenti, tra cui donne, anziani e bambini, Bruxelles si è lamentata con gli Stati Uniti che la sua sicurezza all’aeroporto di Kabul era troppo stretta e ostacolava l’ingresso di afghani che lavoravano per gli europei. “Abbiamo chiesto loro di essere più flessibili”, ha aggiunto un balbettante Borrell in una tipica manifestazione del suo stato d’animo quando si rivolge a Washington.

Il fallimento degli Stati Uniti è evidente anche nel lavoro delle agenzie di intelligence, anche se non è chiaro quale dei tre errori comuni il governo statunitense abbia commesso in questo settore: se abbiano applicato la politica dei falsi positivi, cioè siano stati prodotti rapporti immaginari per far “felici” i capi in cambio di promozioni, premi e gratifiche; se i rapporti fossero sbagliati perché non sapevano davvero cosa stava succedendo sul terreno; o se fossero corretti, ma siano stati scartati dai responsabili delle decisioni.

In ognuno dei tre casi, il lavoro di questi organismi con budget multimilionari è finito in un gigantesco fiasco.

Infine, è un fallimento della fiducia. È chiaro che gli Stati Uniti sono disposti ad accettare qualsiasi cosa, non importa quanto aberrante, purché serva ai loro obiettivi di sicurezza nazionale. In questo settore, gli Stati Uniti hanno chiuso un occhio su undici rapporti dell’ispettore generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar), una figura creata nel 2008 su mandato del Congresso, che ha dimostrato che le crescenti iniezioni di fondi nel paese dell’Asia centrale sono cadute nel vuoto.

Allo stesso modo, venti documenti declassificati sono stati pubblicati venerdì 20 agosto dal National Security Archive, una Ong legata alla George Washington University, rivelando come le fonti sul terreno hanno costantemente contraddetto l’ottimismo trasmesso dal Pentagono nei suoi rapporti.

Oggi, quando hanno preso atto della scomparsa irreversibile di migliaia di persone, afgane e straniere, e hanno speso 2.200 miliardi di dollari, che nel contesto sembra essere un costo sommerso, si strappano i capelli, nonostante il fatto che la crescente corruzione nel paese centroasiatico era stata denunciata nel 2019 da John F. Sopko, l’ispettore generale nominato da Barack Obama nel 2012.

Ma le sensibilità che circondano la leadership statunitense sono diventate anche brutalmente chiare, dopo una dichiarazione dello stesso consigliere per la sicurezza nazionale, quando ha cercato di spiegare che Washington ha ritardato l’evacuazione di Kabul – dopo che i talebani hanno preso il controllo della capitale – per paura di innescare “una completa crisi di fiducia” nelle autorità del precedente governo afgano, che però non ha potuto impedirne il crollo.

In altre parole, una volta che Kabul è stata occupata dai talebani e il presidente Ghani è fuggito, gli Stati Uniti pensavano ancora che il governo fantoccio fosse salvabile: un errore di calcolo di proporzioni colossali che espone l’incapacità di un apparato altamente tecnico, dotato di grandi risorse finanziarie, ma inefficiente su scala superlativa.

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A morte il FanQuan

Ieri la Cina ha tenuto botta sui media internazionali con una notizia che non riguarda l’economia, l’Afghanistan o il prossimo sorpasso degli Stati Uniti. La Reuters è uscita con questo titolo: «China cracks down on ‘chaotic’ celebrity fan culture», il Guardian con: «China bans celebrity». Mentre Variety, con poco più di un giorno di anticipo, titolava: «China Moves Against Fan Culture».

Il 15 giugno del 2021, l’Ufficio centrale della Cyberspace Administration of China ha promosso una campagna speciale di due mesi per risolvere i problemi crescenti legati ai FanQuan, ovvero ai Club di Fan che alimentano il circo delle Pop Star in Cina (cac.gov.cn).

Si tratta di un fenomeno che in Occidente conosciamo bene, anche se, ormai, da una prospettiva, per così dire, provinciale. In Cina il giro di affari dalla Fan Culture è stato stimato nel 2020 in 15,6 miliardi di dollari, con un tasso medio annuo di crescita del 31% (vip.stock.finance.sina.com.cn)

Il crackdown è iniziato venerdì, quando le autorità hanno annunciato di aver comminato una multa di 46 milioni di dollari all’attrice Zeng Shuang per evasione fiscale.

Zeng Shuang è una delle attrici più pagate al mondo. Per il suo ruolo nella prossima serie di 50 episodi “A Chinese Ghost Story“, progetto dietro il quale ci sono Tencent e Beijing Culture, ha incassato la bellezza di 24,6 milioni di dollari per 77 giorni di riprese – l’equivalente di 320.000 dollari al giorno (variety.com).

Altre star stanno subendo lo stesso trattamento che, in genere, comprende la completa cancellazione da internet e da altri media, la messa la bando dai programmi di intrattenimento e la sospensione dei programmi già registrati.

Secondo Variety il sistema del FanQuan è alla base della cultura pop. Senza cultura pop lo Star System non esisterebbe. Le autorità hanno infatti preso di mira proprio questo sistema. Hanno vietato le classifiche online delle Star e ostacolato o vietato altri meccanismi di costruzione del consenso.

Si tratta di meccanismi noti, ma che nei FanQuan sfruttano economie di scala. Zeng Yuli, esperto di sotto culture giovanili cinesi, ha un buon rapporto con il leader di un FanQuan della Star Cai Xukun.

Una volta, scrive (sixthtone.com), “questo leader mi ha detto che se fosse scoppiato online uno scandalo che coinvolgeva Cai, il suo primo passo, anche prima di valutare l’autenticità della storia, sarebbe stato quello di seppellire quell’informazione e impedirle di raggiungere altri fan o il pubblico. Ma – racconta il leader – non è sufficiente sopprimere le informazioni negative e aumentare quelle positive. Nessuna vera celebrità, dice, può sopravvivere a lungo senza drammi, senza un bla bla bla continuo. Non entrare in una narrazione è peggio che essere oggetto di disgusto popolare.“

Agenzie commerciali e leader FanQuan si danno da fare per inventare accuse infondate contro i loro idoli. Si fabbrica il nemico come tattica per stimolare stati emotivi e sentimenti nei fan, al fine di radunarli per difendere il proprio idolo.

Al di fuori della polarizzazione amico/nemico la star non può sopravvivere – e nemmeno il fan. Senza effetti polarizzanti il fan subisce una deprivazione emotiva che porta a stati di afasia e/o agrafia, i quali svaniscono non appena si ritrova la linea divisoria che permette di schierarsi. Schierarsi, trovare un accomodamento su uno dei due fronti, ha lo stesso effetto dell’assunzione di antidepressivi.

“Il leader del FanQuan con cui ho parlato – dice Zeng Yuli – mi ha confessato che una volta aveva organizzato una campagna di massa per votare e promuovere il suo idolo, ma la risposta dei fan fu tiepida, quindi ha rilasciato un messaggio falso dicendo che i fan del rivale dell’idolo si stavano mobilitando per schiacciarlo. Il sostegno è aumentato all’istante.”

L’esistenza del nemico, dice Zeng Yuli, giustifica ogni comportamento. Tanto più il nemico è cattivo, tanto più il fan si sente tenuto ad incrementare la violenza della sua risposta.

Si tratta di meccanismi che dalle nostre parti conosciamo bene. Le teorie sullo speech act le abbiamo sperimentate e messe in produzione da tempo, ed è familiare anche ai non addetti ai lavori il motto di “Nicce”: “Non ci sono Fatti, ma solo Narrazioni”.

Il prof. Ju Chunyan, associato di sociologia alla Beijing University of Technology, dice che in Cina (sixthtone.com) la cultura del FanDom (Fan KingDom) deve essere fatta risalire al concorso televisivo del 2005 “Super Girl”.

Oggi, dice, il FanDom è definito dai cosiddetti FanQuan. I loro membri offrono volontariamente tempo, energia e competenza per rendere i loro idoli il più popolari e influenti possibile. Spendono migliaia di yuan in album, biglietti per film e concerti e promuovono campagne di crowdfunding per i cartelloni pubblicitari di Times Square.

Dietro il comportamento apparentemente folle dei fan, dice il Prof, si cela una logica aziendale razionale. Il mercato delle celebrità in Cina è altamente incentrato sui dati. Più una star è in alto nella classifica dei social, migliori saranno gli accordi di sponsorizzazione.

Ci sono società di talent scout che lavorano per coltivare basi di fan appassionati, inserendo dipendenti retribuiti nei Gruppi per aumentare l’entusiasmo e l’attività. Tuttavia, un FanQuan di successo fa soprattutto affidamento sul lavoro non retribuito dei fan. Sono loro che organizzano il tipo di presenza sui social necessaria per mantenere le star in cima alla classifica.

I FanQuan, dice il Prof., dividono il loro lavoro tra una serie di plotoni di fan specializzati. Al centro ci sono i cosiddetti Data Team, che trasmettono aggiornamenti sull’idolo e sono responsabili della posizione nelle classifiche e della mobilitazione di altri fan per condividere post positivi e seppellire quelli negativi sui social.

Ci sono poi le squadre dei copywriter che producono modelli di commento che i fan possono usare. I grafici fanno lo stesso per le immagini, mentre i team di sensibilizzazione del mercato diffondono contenuti a blog di intrattenimento.

L’Amministrazione cinese ha preso di mira questo fenomeno – vede nel FanQuan un attacco al socialismo. I giornali nostrani, a partire da Variety, sono stretti in un double bind. Da una parte vedono nella cultura pop e nella libertà di informazione (libertà che la Cina, a loro dire, vorrebbe sopprimere o, perlomeno, controllare), nella libertà individuale, il sale delle repubbliche liberali occidentali.

Dall’altra credono di vedere nelle stesse azioni (nelle strategie di Condimento – Narrazione delle informazioni) la distruzione del feticcio del realismo giornalistico costituito dai fatti veri e propri, dalla realtà nuda e cruda, feticcio che tiene in piedi tutta la baracca.

Questo double bind (o questa contraddizione) è il capitalismo stesso: è il capitalismo che fabbrica notizie come fabbrica biscotti e fabbrica biscotti come fabbrica notizie.

Esso deve creare l’illusione che i biscotti siano fatti con una materia naturale, biologica, nata spontaneamente, a KM 0. Per vendere biscotti esso deve creare l’illusione di una separazione tra Natura e Cultura, deve creare l’illusione di un Mulino le cui pale sono mosse da una forza indipendente, incontaminata, pura, bianca, divina.

Mentre sappiamo bene, e Marx lo ha ribadito chiaramente – prima di Heidegger – che mentre nel mulino artigianale le pale girano spinte dal vento, ma il soffio prosegue per la sua strada, la centrale elettrica capitalista impiantata (gestell) nelle acque del Reno non è costruita sul Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce le due sponde.

Qui il fiume, invece, è deviato, costretto in un letto artificiale a servire la centrale. Non c’è più niente di naturale nell’acqua che scorre, nemmeno la sua forza – l’impeto della corrente – che è dosata con dighe e chiuse artificiali.

La materia prima – il fatto – deve subire un trattamento preliminare per poter essere elaborata dalla macchina capitalista.

Scontate le stronzate sulle libertà individuali e sulle notizie spazzatura, il vero problema che interessa la Cina è un problema noto anche da queste parti. Ci sono settori interi – lo dico in modo un po’ ellittico, vista l’economia di spazio – ci sono settori economici che parassitato le economie di scala di altri settori.

L’industria dello spettacolo e dello Star System ha sempre parassitato la macchina industriale impiantata per altri scopi, ha realizzato un prodotto bypassando la dialettica tra lavoro vivo e lavoro morto.

Anche un liberale radicale come Zingales deve riconoscere che, nel caso dell’agricoltura, un produttore meno efficiente guadagnava un po’ meno del più efficiente. Nell’industria del software, invece, il programmatore un po’ meno brillante rimane a pancia vuota, mentre il più brillante si accaparra tutto il mercato.

Il fenomeno, dice, non è circoscritto ai beni che comportano esternalità di rete (come i software), ma vale anche per i beni che comportano esternalità sociali, ossia beni che agli occhi dei consumatori hanno maggior valore per il fatto di essere popolari.

Questa situazione, dice, non è specifica del software, ma si sta diffondendo ai film, alle canzoni e all’intrattenimento, così come ai farmaci, ai prodotti high tech, alle telecomunicazioni, alle automobili e persino ai libri.

In questi settori il prezzo è fortemente aleatorio. Le ascese (e le discese) repentine nelle classifiche sono un effetto di questa aleatorietà – aleatorietà che ha toccato anche il voto elettorale.

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29/08/2021

Natural Born Killers (1994) di O. Stone - Minirece

Afghanistan, il grande imbroglio

L’attentato all’aeroporto di Kabul ad opera dell’Isis K, fazione afgano-pakistana dell’ISIS, presenta un quadro inedito di occupanti che fuggono, terroristi che attaccano i terroristi, e gli USA che da giorni lanciavano allarmi su un attentato che è sembrato quasi una predizione. Né le forze NATO né i Talebani sono stati in grado di prevenire un attentato annunciato dai media per una intera settimana. Certo, un attentatore suicida non è semplice da intercettare e la confusione di queste ore non aiuta, ma una zona sotto il completo controllo militare della NATO, con le migliori tecnologie a disposizione, non sa intercettare la formazione e l’insediamento di una cellula ISIS? Nemmeno porre dei filtri a salvaguardia di obiettivi (peraltro ampiamente noti) è stato possibile? Non si capisce come mai una forza terroristica riesca a colpire superando un doppio livello di difesa. Ma se non conoscevano l'attentatore come hanno fatto due giorni dopo a scoprire l'ideatore? Misteri afghani? La NATO ha eserciti da operetta, buoni solo nei film oppure siamo in presenza di un confezionamento del nuovo nemico utile per le prossime mosse?

I Talebani controllano ormai quasi tutto il Paese. Si annuncia la resistenza degli avversari dei Talebani con la decantata guerriglia al comando di Ahmad Massoud, figlio di Ahmad Shin Massoud, detto “il leone del Panshir”. Ma appare più una operazione mediatica che politico-militare. Il figlio non ha lo stesso seguito e carisma del padre, ha un seguito modesto, pochissima influenza politica nazionale e ancor meno ruolo internazionale e non è dotato di nessun apparato militare in grado di sfidare le truppe talebane. Questa nuova guerriglia non precisata ma già così propagandata, appare piuttosto destinata a mantenere in qualche modo le mani statunitensi sul Paese senza dover pagare il prezzo di una presenza militare ormai costosa e squalificata.

Saranno infatti gli USA a fornire di armi e a fare da sponda politica a Massoud, dopo però aver firmato gli accordi di pace con i Talebani, ai quali pure hanno lasciato armamento leggero e pesante (che magari gli ex studenti di Teologia di Kabul non sapranno decifrare ma provvederenno i tecnici militari afghani addestrati dagli USA. Nemmeno l’esercito dei puffi avrebbe lasciato al nemico elicotteri Uh-60 Black Hawk, elicotteri Apache, elicotteri da ricognizione e droni militari ScanEagle, oltre duemila veicoli corazzati, mitragliatrici pesanti, missili terra aria e una spaventosa quantità di munizioni, dispositivi per la scansione biometrica, apparecchi per la visione notturna, uniformi e giubbotti antiproiettili, oltre all’armamento leggero. Tutto materiale assegnato dagli USA all’esercito afghano, che è però passato armi e bagagli con i Talebani, salvo una cinquantina di veivoli fuggiti in Uzbekistan.

Insomma, la politica estera statunitense è sempre lo stesso pasticcio di cinismo ed imperizia: con repentina velocità i nemici diventano amici e gli antichi amici vengono dati in pasto ai vecchi nemici. Come già accaduto, con i Curdi in Siria, ai quali venne chiesto di sconfiggere l’Isis promettendogli un posto al tavolo della spartizione siriana, per poi salutare in fretta e furia e riconsegnarli alla disponibilità genocida dei turchi, lo stesso avviene con i collaboratori afghani. Qualcuno potrebbe pensare che nell’atteggiamento statunitense vi sia una contraddizione insanabile, almeno una incongruenza evidente, ma l’unico interesse è per i vantaggi che possono ottenere, pazienza per chi paga il costo. Rimettendo le pedine al loro posto il quadro si fa meno opaco, per quanto complesso e inquietante.

Gli Usa si sono ritirati d una occupazione militare che con la battaglia contro il terrorismo non aveva nulla a che fare, e d’altra parte anche per gli alleati NATO il terrorismo non era il problema, visto che, come ha sinteticamente esposto il capo europeo della NATO, hanno partecipato con l’unico scopo di proteggere gli statunitensi. Che sono scappati senza decoro da una guerra priva di ogni ragionevole possibilità di vittoria e persino di mantenimento delle posizioni acquisite. Prolungare un fallimento politico e militare non sarebbe stato possibile e del resto la decisione (che fu di Trump) ben s’inquadrava nella politica di riduzione dell’impegno militare dalle zone di minor importanza strategica o dove non vi era la possibilità di vittoria da usare come propaganda politica.

Biden, insomma, ha solo applicato (male) il piano dell’Amministrazione Trump. L’uscita pacifica degli USA dall’Afghanistan in cambio della disponibilità al riconoscimento internazionale del nuovo governo di Kabul per il quale Washington si impegnerà è infatti parte degli accordi sul terreno in osservanza di quelli di Doha. Ovviamente la richiesta statunitense di non scegliere la Cina come interlocutore economico sarà bellamente ignorata: i Talebani sono tagliagole ma non stupidi. Pechino gli garantirà una creazione veloce di infrastrutture e inietterà investimenti importanti per la ricostruzione del Paese; certo, non lo farà per solidarietà caritatevole con l’Afghanistan martoriato, bensì perché esso rappresenta un elemento centrale del passaggio in Asia Centrale del progetto di Nuova Via della Seta.

Tornando agli USA, c’è però un aspetto decisivo che non va sottovalutato. Una parte del core business della presenza statunitense in Afghanistan era il controllo sulla produzione e distribuzione di una gran parte delle sostanze oppiacee da porre sul mercato internazionale delle droghe. I militari hanno a malincuore obbedito alla decisione politica di Biden ed ora si trovano con un problema da risolvere non da poco.

Gli enormi profitti non tracciabili, utilizzabili per le politiche di destabilizzazione in ogni luogo del mondo e per le covert action della CIA, andranno comunque in qualche modo preservati dalla fuga precipitosa. Ma una volta usciti come potrà garantire il proseguimento del business? I Talebani non hanno nessuna condiscendenza con la coltivazione dell’oppio; nel periodo che governarono il Paese la produzione scelse a ritmi vertiginosi. Dunque non si può chiedere ai Talebani di coltivare, raccogliere e spedire l’oppio, ma almeno si può cercare di mantenere aperte le vie d’uscita e consentire il lavoro delle strutture che del problema si sono occupate fino a pochi giorni orsono, magari in cambio della disponibilità di Washington di farsi promotrice nelle sedi internazionali di concessioni finanziarie al nuovo governo afghano.

Come molti sanno la via d’uscita per l’oppio afghano passava per due percorsi. Il primo, quello di maggior volume, viaggiava sugli aerei militari statunitensi; il secondo, attraverso la frontiera con il Tagikistan. Il fatto che ora proprio nella regione confinante con il Tagikistan si stia organizzando una guerriglia con la benedizione statunitense, rappresenta una strana coincidenza induce a pensieri al riguardo; pensieri maliziosi magari, ma non fuori luogo.

Formare e tenere una guerriglia significa poter allocare militari e mercenari con la scusa dell’addestramento, dell’approvvigionamento e del sostegno logistico e militare. Senza questa fantomatica guerriglia non si spiegherebbe la presenza di consiglieri militari e mercenari in orbita USA. Avere dei buoni amici lungo il percorso del business rappresenta un indiscutibile vantaggio. Insomma una guerriglia che arriva giusto in tempo per tirare fuori dai guai il ricco affare dell’oppio.

D’altra parte è innegabile che l’aumento della produzione degli stupefacenti sia più forte proprio dove la presenza militare statunitense è particolarmente forte (Colombia, Honduras e fino a ieri Afghanistan). Una coincidenza almeno inquietante per le anime belle che non colgono il nesso tra l’appropriazione di uno dei maggiori business del mondo grazie alle politiche proibizioniste, che sono necessarie al mantenimento della produzione clandestina degli stupefacenti ed a mantenerne alto il prezzo di mercato. A completare il quadro si deve ricordare che i ricavi finiscono nelle mani di chi controlla produzione e distribuzione regolandone l’offerta, incidentalmente lo stesso Paese primo al mondo per la domanda.

Disinvolti, questi USA: combattono i Talebani ma ci stringono accordi, formano l’Isis ma fanno finta di combatterlo e provano attraverso i loro alleati del Golfo a controllare il tutto. In Afghanistan si è consumata la peggiore sconfitta politico-militare che Washington poteva immaginare. C’è un pesantissimo danno d’immagine, di affidabilità politica e di credibilità militare. È la parte consistente del declino dell’impero.

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John Elkann e il miracolo delle scatole cinesi

Nella telenovela grottesca e quasi pietosa sul piano umano dello scontro in famiglia su eredità, donazioni e linee di successione di casa Agnelli tra la madre Margherita e il figlio John Elkann (che dura da anni e che è riesplosa con fragore quest’estate) un punto fermo è finalmente emerso. Nell’offensiva, l’ennesima, scoccata dalla figlia di Gianni Agnelli si è alzato, almeno in parte, il velo sulla Dicembre società semplice, la cassaforte di famiglia in cima alla lunga catena societaria della dinastia torinese. Una piccola scatola, fantasma per la Camera di Commercio di Torino fino all’altro ieri e considerata “inattiva” e che dal 1984 non aveva aggiornato la situazione dei possessi azionari. Neppure dopo la scomparsa di tutti i soci storici dall’Avvocato, alla moglie Marella, a Gabetti a Franzo Stevens.

Un’anomalia profonda, concessa non si sa perché proprio alla cabina ultima di controllo dell’impero degli Agnelli. Ora però si è finalmente acclarato che John Elkann, in virtù di successive donazioni, è titolare nella Dicembre del 60% delle quote. L’altro 40% è suddiviso tra i fratelli Lapo e Ginevra. E così la designazione da delfino a monarca assoluto predestinato alla guida della dinastia, prefigurata in anni lontani da Gianni Agnelli è compiuta nei fatti. È l’ex giovane rampollo, l’unico dominus incontrastato di quello che era l’impero Fiat e connessi e oggi è rappresentato dalla Exor, la holding olandese di partecipazioni che raggruppa le quote di Stellantis; Ferrari; Cnh; di PartnerRe e degli asset minori: dalla Juve, a Gedi (editore di Repubblica, La Stampa e Secolo XIX), all’Economist.

Quella saga sulla successione ereditaria sa tanto di ancien regime quanto a lotte e faide familiare. Ma ha sapore stantio anche la struttura societaria che, scatola su scatola, consente a Yaki, come prima al nonno Gianni, di comandare con il minor esborso possibile di denaro. È il miracolo delle scatole cinesi, delle lunghe filiere societarie che hanno consentito alla famiglia di governare per decenni l’impero con capitali ridotti all’osso. Uno schema caro al vecchio capitalismo familiare e che John Elkann nell’era della turbo finanza e delle public company, non si sogna di abbandonare. In questo fedele seguace del nonno. Quando si pensa all’ex Fiat, poi Fca oggi Stellantis, si pensa a John Elkann come il grande proprietario. Grave errore di prospettiva, dato che in virtù della diluizione dei vari passaggi societari, il condottiero unico degli affari degli Agnelli, governa con piccolissime quote di capitale diretto.

Stellantis quota di Yaki sotto il 2% – Partiamo dal caso di Stellantis. Exor ne possiede solo il 14,4%. A sua volta però Exor è controllata al 53% da un’altra scatola olandese, la Giovanni Agnelli BV la holding che raggruppa tutti i rami del casato torinese. Sopra la Giovanni Agnelli Bv ecco comparire come primo
socio la Dicembre che ha il 38% delle quote. Infine si arriva direttamente a John Elkann che di Dicembre possiede il 60%. Ecco così che, salendo lungo i rami della catena societaria, si scopre che John Elkann di suo possiede appena l’1,74% di Stellantis. Di fatto, con Carlos Tavares come amministratore delegato, governa sulla fusione tra Fca e Peugeot con una quota di possesso diretto di capitale che è meno di un qualsiasi fondo d’investimento.

Il copione si può replicare con tutti gli asset della finanziaria di partecipazioni. La quota di Ferrari diretta di Elkann è del 2,78%. Di Ferrari, il vero gioiello dell’impero, Exor possiede il 22,9%. E anche qui la quota diretta in mano a John Yaki Elkann risalendo la filiera delle scatole fino al 60% di Dicembre, è solo del 2,78%. Per Cnh che costruisce macchine agricole e veicoli industriali, di cui Exor controlla il 26,8%, la quota diretta del nipote dell’Avvocato è appena del 3,2%. Il peso di Elkann sale solo con PartnerRe, la compagnia di riassicurazioni dato che Exor la possiede al 100%. In ogni caso ecco che Yaki ne è socio con solo il 12%.

Poi ci sono gli asset minori: dalla Juventus (Exor ha il 63,8%) a Gedi (Exor ha una quota dell’89%) fino all’Economist. Qui il peso societario del capostipite della dinastia torinese si fa più consistente, ma non certo con quote maggioritarie. È il miracolo consentito dalle “medioevali” scatole cinesi, messe una sopra l’altra, con quote che consentono di diluire la necessità di capitale idonea a governare. Comandare di fatto con i soldi degli azionisti di minoranza che in realtà mettono la gran parte del capitale. Uno schema che da sempre usano le grandi famiglie imprenditoriali del Belpaese per minimizzare il loro rischio di capitale. Basti pensare che con soli 61 milioni di euro, la quota di capitale di proprietà di John Elkann in Dicembre, l’ex delfino di casa Agnelli governa su asset che valgono oggi oltre 28 miliardi di valore di Borsa. Non male come moltiplicazione esponenziale della ricchezza. Un “vizietto” antico, tanto caro da sempre agli Agnelli come ad altre grandi famiglie e che il moderno e innovatore Yaki, ben si è guardato dall’abbandonare.

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