Quando una classe dirigente, ossia quel nucleo economico e politico più o meno ristretto a seconda del tipo di società in cui opera, non riesce ad avere una visione chiara della fase storica, la società va in crisi e inizia quel processo di decadenza che la porta ad estinguersi.
Tale assunto, non esente, naturalmente, da forzature, teleologie storiche e semplificazioni, calibrato tale insieme di contraddizioni, si rivela tuttavia vero se analizziamo la storia romana, che da almeno tredici secoli (diciamo dall’età carolingia) si pone come esempio per le diverse storie contemporanee.
Roma iniziò il suo lungo declino nel momento in cui la classe dirigente senatoriale e i diversi entourages imperiali non furono in grado di comprendere la portata economica, politica, antropologica e culturale del rapporto con le popolazioni germaniche.
Agendo su un organismo instabile nella misura in cui, date le tecnologie dell’epoca, questo si faceva esteso e complesso, esse portarono l’impero alla sua caduta persino in quel simbolico 24 agosto del 476 quando, deposto Romolo Augusto, detto Augustolo, un generale sciro, Odoacre, dichiarò apertamente che l’Occidente non aveva più bisogno di un imperatore.
Odoacre si rivelò così molto più lungimirante dei suoi contemporanei romani che non colsero affatto il valore simbolico (ma non solo) di tale passo.
Se, dunque, prendiamo Roma come esempio, non possiamo non notare come le attuali classi dirigenti italiane si trovino ad affrontare il problema dei problemi del XXI secolo, ossia la crisi ecologica, con un armamentario ideologico e una forma mentis totalmente novecentesca: mentre il pianeta brucia non solo metaforicamente, nei convegni organizzati periodicamente dai grandi gruppi industriali, dai media e da ciò che resta dei partiti, i diversi esponenti del provinciale potere politico ed economico nazionale continuano a parlare di Tav, Terzo Valico, Ponte sullo Stretto, autostrade, consumo di suolo, in una coazione a ripetere ormai talmente palesemente autodistruttiva da ricordare gli eroi della tragedia greca o della mitologia germanica, prigionieri di un destino al quale non potevano sottrarsi.
Tale miopia in apparenza palese non viene tuttavia pienamente colta dall’insieme della società, fatte salve le avanguardie coscienti. Entrambi i fenomeni, la miopia delle classi dirigenti e il silenzio – assenso delle masse, sono legati.
Lungi dall’essere figli del “destino cinico e baro”, si inseriscono in un processo di egemonia di classe che prese avvio all’inizio degli anni Settanta: a fronte dei primi e pionieristici allarmi sullo stato dell’ambiente, quali il citatissimo ma poco letto documento del Club di Roma del 1972 sui “limiti dello sviluppo”, la borghesia europea e quella statunitense diede allora avvio a una vera e propria “rivoluzione al contrario”.
Si trattava di imporre anche manu militari (come in Cile) le dottrine neoliberiste come strumento di riappropriazione delle quote di ricchezza perdute durante la grande stagione di progresso sociale e civile degli anni Sessanta (che in Italia durerà anche per tutti i Settanta: da noi questa stagione, infatti, prenderà avvio nel decennio successivo).
L’ideologia neoliberista, ossia la forma di pensiero adatta allo sviluppo del capitalismo di allora, fondata anche sull’illimitata estrazione delle risorse (oltre che su altri elementi che qui vengono omessi per ragioni di tempo e spazio), estendeva ulteriormente il produttivismo del capitalismo nelle sue fasi precedenti: le innovazioni tecnologiche piegate agli interessi delle classi dominanti, infatti, permettevano l’estensione su scala planetaria dello sfruttamento dell’ambiente, facendo anche proliferare come non mai il sistema del trasporto navale e aereo.
Il discorso è lungo, complesso ed esteso, nonché non esente da parziali contraddizioni, come qualsiasi fenomeno umano, ma la questione di fondo, drammatica ed evidente è in sintesi la seguente: è possibile che una classe dirigente (e un società da essa egemonizzata) nata, forgiata e cresciuta con l’ideologia del produttivismo come motore immobile, padrone e signore dell’universo, possa autoriformare il proprio punto di vista sul mondo, invertendo la rotta del disastro ecologico determinato dalle sue stesse politiche?
La domanda, ovviamente retorica, evidenzia nella sua natura stessa il dramma nel dramma che stiamo vivendo. Detta in parole povere, anche a rischio di parere populista, “questi non ci arrivano”. Più che mai, dunque, oggi occorre fare ricorso alla famosa scommessa di Pascal, rivolgendoci con attenzione e ascolto alle nuove generazioni.
Anche quando lontane dai nostri linguaggi e dalle nostre pratiche, le loro battaglie possono portare a un superamento di quei dogmi che sembrano condannarci a un eterno presente, fino al giorno in cui la storia finirà. Per parafrasare un grande pensatore, non possiamo non dirci anticapitalisti.
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