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20/08/2021

Tempo scaduto per la politichetta all’italiana...

Sopraffatti dagli eventi afgani e dalle perduranti querelle intorno alla pandemia (che continua e s’allarga, non essendo “sondaggiabile”), rischiamo di non vedere più quello che accade nella “sfera politico-istituzionale” che decide della condizione di noi tutti.

Un editoriale di Dario Di Vico – uno dei vice-direttori del Corriere della Sera, ex sessantottino pentitissimo – illumina forse involontariamente la portata della partita che si sta giocando quasi in silenzio, il ruolo (e le difficoltà) dei principali protagonisti, le soluzioni auspicate dalla parte più importante dell’attuale establishment (che, come sempre, è un insieme composito di interessi finanziari, multinazionali, imprenditoriali di varie dimensioni, comunque non piccole).

Il primo elemento-chiave è la differenza profonda tra il “sistema dei partiti” e quel ristretto nucleo di decisori (Mario Draghi e lo staff da lui selezionato) incaricato di “ricostruire l’immagine dell’Italia” nel contesto internazionale.

Brutalmente – nell’esposizione di Di Vico – tutto viene di conseguenza alla capacità o meno del governo di “realizzare le riforme rimaste inevase per troppo tempo”, sfruttando la finestra del Recovery Fund e secondo le indicazioni europee.

Non esiste dubbio sulle capacità-volontà di quel ristretto nucleo, ma preoccupa la pochezza del sistema dei partiti, che pure sono indispensabili per assicurare la continuità di questo governo.

L’apertura del semestre bianco – in cui non si possono sciogliere le Camere e indire nuove elezioni – e le grandi manovre per trovare un sostituto di Sergio Mattarella, per una classe politica di mezze figure, è l’occasione per ricavarsi una rendita di posizione migliore, anche a scapito della solidità complessiva dell’edificio.

Nel parole del Corsera, “Draghi [...] opera nella complessità e pur tra qualche contraddizione cerca di domarla, i leader dei partiti – quasi fossero degli eterni ragazzi – la rifiutano e sono portati a semplificare. Puntano all’affermazione del proprio ego e declinano qualsiasi responsabilità di sistema, nonostante sostengano in Parlamento lo stesso governo.”

È la fotografia di quei “due governi in uno” che abbiamo individuato fin dall’inizio di questo esecutivo-monstre, con tutti dentro e una finta opposizione di destra.

Il secondo elemento-chiave è la composizione della “società civile” immaginata e rappresentata consapevolmente dal Corsera: Confindustria e figure sociali “ancillari” della grande industria.

Di Vico la fa parlare solo ed esclusivamente tramite Carlo Bonomi, presidente di viale dell’Astronomia, significativamente sponsorizzato dal presidente del Meeting di Rimini Bernhard Scholz (ossia da Comunione e Liberazione).

Il resto, che chiama “società civile larga“, “comprende anche il mondo delle competenze, il business, i media, il welfare professionale e la comunità degli espatriati”. Dove per “espatriati” si deve intendere i ricercatori di alto livello, non certo la marea di chi cerca un lavoro che qui non c’è. L’immensa maggioranza della popolazione, tutte le altre figure sociali, in questo schema “non conta un ca**o”.

La lamentela è altrettanto scontata: questa “società civile si scopre indispensabile nel tenere aperti i canali di dialogo e interazione con gli altri sistemi-Paese ma accessoria quando gli stessi contenuti che derivano da quel confronto cerca di sottoporli all’attenzione dei partiti”.

Fa girare insomma l’economia, i rapporti, i collegamenti internazionali, ma non riesce a essere “dirigente” delle decisioni del governo, se non in questo momento, con Draghi al posto di comando, ma dovendo scontare gli inciampi creati da quella massa di “eterni ragazzi” incapaci di far altro che “affermare il proprio ego”.

Un’idea insomma estremamente elitaria, che non può aggregare un “blocco sociale” di dimensioni significative se non aggrega le reti clientelari residue dei partiti con un minimo di “radicamento”: Pd e Lega, detto proprio esplicitamente.

Terzo elemento-chiave, che complica ulteriormente la possibilità della ristretta classe davvero “dirigente” di affermare senza contrasti il proprio programma di “riforme”, è la scomparsa della politica nel sistema occidentale. O meglio, la sua polarizzazione tra “comunicazione” e “radicamento sociale”.

La prima favorisce quella ricerca ossessiva – a cadenza quasi oraria – della “visibilità”, fatta di slogan, provocazioni, esasperazioni, semplificazioni ottuse e ottundenti, alla conquista/conservazione del “voto di opinione”, fondato su fugaci empatie temporanee.

Il secondo, ben più solido e duraturo, è fondato però su interessi sociali ristretti, locali, differenziati, stratificati, organizzati in filiere che esigono – per funzionare – protezione e capacità “riproduttive”; dunque protezione legislativa (tendenzialmente anti-”riforme” di stampo europeo), qualche rubinetto di finanziamento pubblico, accomodamenti quotidiani.

Per questo, spiega Di Vico ai suoi interlocutori privilegiati (i dirigenti di quell’immonda congrega chiamata “partiti”) quel che l’establishment italiano ed europeo si attende da loro. Ma subito:

“sarei soddisfatto se almeno uno dei quattro leader [Letta, Salvini, Conte, Meloni, che parleranno al Meeting di Cl, ndr], anche solo uno, tematizzasse la necessità della formazione di una nuova e larga classe dirigente.

Sarebbe un piccolo ma importante segnale che la sottocultura populista sta perdendo peso e insieme il riconoscimento che il successo del proprio partito o della propria coalizione non è giudicato sufficiente per «salvare l’Italia».”


Chiaro? L’avvento del governo Draghi, oltre all’affermazione di priorità economiche-strutturali non più contrattabili, deve “ridisegnare la classe politica”, creandone una “nuova e larga” che metta fine al caos dei “capetti non statisti” e impedisca – soprattutto – l’emergere di nuove forze in grado di rappresentare, anche solo parzialmente e molto malamente, il malessere sociale.

Ovvero gli interessi di tutti coloro che non rientrano nella definizione di “società civile larga” descritta dallo stesso Di Vico (ma che, in tutta evidenza, gli suggerisce cosa scrivere).

Questa la partita, questo il campo di gioco.

Sembra evidente che sia necessario – per rovesciare il tavolo – delineare una visione all’altezza della sfida, ossia capace di misurarsi sulla dimensione dei problemi sistemici, una visione che dia forma unitaria, tenga insieme e colleghi concretamente la miriade sfarfalleggiante di interessi sociali frammentati dal capitalismo 4.0. “Dal basso”, come sempre, arrivano bisogni che chiedono soluzioni concrete, ma difficilmente possono arrivare visioni d’insieme.

Come lamenta Di Vico, nemmeno nella borghesia quel modo di “fare politica” funziona più...

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Semestre bianco: i timori di un “autunno caldo” dei partiti

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Leggendo le interviste e le dichiarazioni di importanti protagonisti della società civile se ne ricava la netta sensazione che temano un nuovo autunno caldo. Ma stavolta non prevedono veementi manifestazioni sindacali o derive estremiste degli studenti, quello che li spaventa è un autunno caldo dei partiti.

Sia il presidente della Confindustria Carlo Bonomi nella sua recente intervista alla Stampa sia il presidente del Meeting di Rimini Bernhard Scholz al Corriere hanno sostenuto la stessa tesi. Hanno paura che i mesi che ci separano dall’elezione del presidente della Repubblica siano segnati dalle iniziative funamboliche delle forze politiche e che tali interventi ad effetto — e in favore di telecamera — possano minare l’azione di governo.

Concretizzatasi finora in una nuova reputazione internazionale del nostro Paese, in un migliore funzionamento della macchina pubblica e nel varo di una serie di riforme rimaste inevase per troppo tempo. Draghi, a loro giudizio, opera nella complessità e pur tra qualche contraddizione cerca di domarla, i leader dei partiti — quasi fossero degli eterni ragazzi — la rifiutano e sono portati a semplificare. Puntano all’affermazione del proprio ego e declinano qualsiasi responsabilità di sistema, nonostante sostengano in Parlamento lo stesso governo.

La società civile questi comportamenti li vede, li sopporta in silenzio e teme però che interrompano il sogno di una ritrovata normalità italiana e, come ha segnalato polemicamente, Bonomi, rallentino le riforme e l’attuazione del Pnrr.

La manifestazione di questi timori però equivale allo stesso tempo a una denuncia e a una confessione di impotenza. La società civile si scopre indispensabile nel tenere aperti i canali di dialogo e interazione con gli altri sistemi-Paese ma accessoria quando gli stessi contenuti che derivano da quel confronto cerca di sottoporli all’attenzione dei partiti.

Sia chiaro, non parlo solo dei tradizionali e ingrigiti corpi intermedi ma della «società civile larga», quella che comprende anche il mondo delle competenze, il business, i media, il welfare professionale e la comunità degli espatriati. Che pur sommati non paiono in grado di influenzare positivamente la politica e indurla a comportamenti più lungimiranti.

Secondo gli studiosi di demoscopia il motivo è che la comunicazione ha ormai mangiato la politica, i sondaggi hanno sostituito il dialogo con «i mondi vitali» e il chiacchiericcio dei social ha oscurato la partecipazione.

È difficile dire se sia esattamente così, certo è che guardando dentro la Lega emergono due sotto-partiti: quello figlio della comunicazione e quello espressione del radicamento territoriale. Convivono non senza frizioni e anzi c’è chi sostiene come ormai sia diventato difficile trovare un tema sul quale siano perfettamente allineati. Il pasto, dunque, quantomeno non è stato ancora consumato.

Qualcosa del genere succede nella forza politica erede di una robusta tradizione di interazione con la società, il Pd. Anche in questo caso il sotto-partito della comunicazione e quello del radicamento — rappresentato dai sindaci e dagli emiliani — convivono pur dando l’impressione di un crescente disagio visto che ogni settimana nasce una nuova corrente. O «sorgente» come Graziano Delrio ha definito la sua.

Oggi a Rimini prende il via il tradizionale Meeting dell’amicizia e martedì 24 in un’apposita sessione dedicata proprio al «ruolo dei partiti» e alle preoccupazioni della società civile parleranno uno dietro l’altro Enrico Letta, Giuseppe Conte, Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Un inedito assoluto e di conseguenza un test sulle rispettive intenzioni.

Chi tra loro avrà l’ardire di rivendicare l’autunno caldo e chi invece si accontenterà di restare in scia? Chi avrà il coraggio di pronunciare «parole che ambiscono a durare», per dirla con Walter Siti?

Personalmente oltre alle rassicurazioni che chiedono Bonomi e Scholz sarei soddisfatto se almeno uno dei quattro leader, anche solo uno, tematizzasse la necessità della formazione di una nuova e larga classe dirigente.

Sarebbe un piccolo ma importante segnale che la sottocultura populista sta perdendo peso e insieme il riconoscimento che il successo del proprio partito o della propria coalizione non è giudicato sufficiente per «salvare l’Italia».

Fonte

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