Il G7 di martedì scorso è stato un test sullo stato di salute delle alleanze nel mondo occidentale. Dopo il fallimento in Afghanistan si respira a pieni polmoni l’aria secondo cui in occidente sta svanendo rapidamente il clima respirato con l’inizio dell’amministrazione Biden.
Sulla “rogna afghana”, diversamente dal pragmatismo russo e cinese, turco e iraniano, l’Occidente stenta non solo a ritrovare una sintesi comune ma vede le sue contraddizioni interne riproporsi con maggiore forza in tutte le camere di compensazione fin qui costruite.
La Nato ad esempio, nella sua ultima riunione dei ministri degli esteri del 20 agosto, si è limitata ad un breve comunicato nel quale riafferma che “Il nostro compito è ora quello di far fede al nostro impegno di proseguire con la messa in sicurezza dei nostri cittadini, di quelli dei paesi partner, e degli afghani a rischio, in particolare coloro che hanno assistito i nostri sforzi”.
Curiosamente nel comunicato della Nato non compare mai la parola Talebani, quasi a non voler riconoscere chi si è rivelato decisivo per il ritiro delle truppe e li si cita come “coloro in posizione di potere”. Furberie lessicali e miserie della cultura politica occidentale.
Per la Nato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan deve proseguire e il presidente USA Joe Biden ha ribadito di volerlo effettuare entro il 31 agosto, per non esporre le proprie truppe a eventuali ritorsioni talebane. Ma dentro e fuori la Nato c’è chi ritiene che sia necessario più tempo.
Dopo la riunione di venerdì scorso, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha riferito che molti paesi membri hanno chiesto di mantenere aperto l’aeroporto internazionale di Kabul anche oltre il 31 agosto, per continuare con il processo di evacuazione.
L’angoscia di diversi paesi NATO è che una settimana non sia sufficiente per portare in salvo tutti i cittadini USA e degli altri paesi alleati, nonché i contractors stranieri presenti nel paese e gli afghani che negli ultimi vent’anni hanno collaborato con gli occidentali.
Secondo Stoltemberg il problema non è tanto l’evacuazione dall’aeroporto, ma il come raggiungere Kabul, visto il controllo capillare del territorio da parte dei Talebani, che rende ancor più difficile lasciare le zone rurali dell’Afghanistan distanti dalla Capitale.
La timeline sul ritiro è stata più volte cambiata dagli Usa (secondo gli accordi di Doha doveva concludersi già a maggio). Secondo la Casa Bianca gli USA manterranno l’impegno del ritiro entro fine mese nella speranza che i Talebani – diversamente dagli Usa – rispettino le loro promesse, tra cui quella di non attaccare i contingenti stranieri nelle operazioni di evacuazione.
Diventa così probabile che nessun militare degli altri paesi Nato rimanga in Afghanistan dopo che gli ultimi soldati Usa se ne saranno andati. Ma per i Talebani, eventuali altri giorni di presenza di militari occidentali nel paese rappresenterebbero una provocazione, che potrebbe dar luogo a scontri con le truppe straniere ancora nel paese: “Sarebbe un tradimento della fiducia reciproca. Se vogliono continuare l’occupazione, questo comporterà una reazione”, ha ribadito il portavoce talebano Suhail Shaheen.
Da quando è iniziato il ritiro delle forze occidentali e la rapida avanzata talebana, l’alleanza atlantica è stata accusata di aver fallito la sua missione iniziata vent’anni fa. La NATO fa eco a Biden, difendendo la scelta del ritiro con la motivazione che l’obiettivo della missione iniziata in seguito agli attacchi di al-Qaeda dell’11 settembre 2001 fosse evitare il ripetersi di attentati terroristici contro gli USA e gli altri paesi alleati.
Ma la Nato omette di dire che la missione NATO “Resolute Support” era iniziata a fine 2014 (quattro anni dopo l’esecuzione di Bin Laden) ed era pensata come sostegno agli apparati militari e di polizia afghani.
Un fallimento totale rivelatosi come tale nelle 24 ore che sono bastate per far cadere Kabul nelle mani dei Talebani. Nonostante i soldi, le armi e l’intelligence spesi in questi anni, le forze statali afghane non hanno opposto resistenza all’avanzata dei talebani.
Secondo un think thank decisamente filo atlantico come l’ISPI “Per la NATO, l’Afghanistan rischia di diventare così uno spartiacque per la propria storia: un enorme dispendio di denaro – oltre 2mila miliardi di dollari il costo totale della guerra in Afghanistan – che non ha contribuito ad una reale stabilizzazione del paese”.
Ancora più drastico è il giudizio di un altro think thank euroatlantico come l’Istituto Affari Internazionali, che in un saggio a sei mani scritto dai suoi maggiori analisti, sottolinea come
“Nel caso afghano la sconfitta non è stata militare, ma politica. L’iniziale obiettivo politico era stato quello di negare ai gruppi terroristici islamici la disponibilità di un territorio da cui far partire i propri attacchi e, incidentalmente, eliminare Osama bin Laden; ben presto l’obiettivo è diventato quello di cambiare un regime che aveva ospitato e alimentato tali organizzazioni terroristiche.
Lo scopo avrebbe dovuto essere quello di lanciare un chiaro segnale che nessuna azione terroristica e nessun regime colluso sarebbero rimasti impuniti. Ma, come poi in Iraq, non si è capito che l’intervento militare doveva lasciare rapidamente il campo ad una soluzione politica nazionale gestita da quanti controllavano davvero il Paese (capi tribù e religiosi).
Invece, si è cambiato l’obiettivo politico e ci si è fatti coinvolgere in un ventennale e costosissimo intervento di costruzione di uno Stato artificiale che, una volta tolto il supporto occidentale, si è sciolto come la neve al sole”.
La resa dei conti nella Nato e nelle alleanze occidentali è ormai iniziata. La perdita di credibilità Usa è evidente. L’unica soluzione per mantenere le alleanze del passato sarà quella di riconoscerlo e di accettare la fine della condizione di primus inter pares da parte degli Stati Uniti dentro tutte le istituzioni internazionali.
Una soluzione comunque dolorosa per chi ha avuto l’ambizione di dominare il mondo per decenni.
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