Era più o meno la metà di giugno dell’estate scorsa, le maglie del lockdown e di un denso bombardamento mediatico – quello appunto fatto di quell’arsenale di metafore belliche ad uso dei politici e dei giornalisti, che nell’autunno successivo sarebbero precipitate nell’istituzione formale del coprifuoco – si stavano progressivamente allentando e, in maniera effettivamente sorprendente, il focus del dibattito pubblico si era improvvisamente spostato su un nuovo tema: l’omicidio di George Floyd negli Stati Uniti, perpetrato dagli agenti di polizia, aveva innescato una mobilitazione di ampia scala contro il razzismo strutturale delle forze dell’ordine del paese.
La mobilitazione di BLM, pur sradicato dal contesto americano, come molti prodotti culturali, politici, artistici, si stava riverberando nel dibattito pubblico italiano, anche se in qualche maniera disancorato dal suo contesto originale e soprattutto sorprendentemente cieco di fronte a potenziali connessioni con storie locali di violenza poliziesca come quella di Stefano Cucchi, del G8 di Genova, degli Uva e Aldrovandi.
Nonostante tutto però, tra gli archivi delle importazioni statunitensi nel senso comune italiano, la mobilitazione di centinaia di migliaia di ventenni contro il razzismo, per quanto apparentemente un po’ “pop”, a me era sembrata parte di un’educazione alla rivendicazione dei diritti altrui che se non altro poteva fare da prodromo ad altre forme di rivendicazione, diciamo meno pianificate e più incisive rispetto alla realtà sociale che ci circonda. La folla di ragazzi che avevo visto radunata nella borghesissima cittadina del nordest in cui sono nato, mi era sembrata quindi un segno di speranza, di un potenziale tutto da realizzare.
Se la piazza reale rimaneva gaberianamente “l’unica salvezza”, dall’altro lato, nei mesi di lockdown, si era nel frattempo consolidato il mio rapporto con un terreno di conflitto più aspro e sterile: quello dei social e delle battaglie ideologiche portate avanti a suon di meme, insulti e polarizzazioni deliranti, legate in buona parte all’adesione ad una versione “mainstream” o “complottista” della pandemia.
Ci tengo a sottolineare il fatto che queste due categorie non hanno di per sé un senso se non denigratorio (in particolare la seconda) in quanto precludono aprioristicamente all’interlocutore, di parte avversa, la possibilità di dire qualcosa di sensato, in quanto sostenuto da fonti e narrazioni sillogisticamente false, perché manipolative o razionalmente assurde a seconda dei casi.
È stato proprio un breve testo anonimo, postato da un amico molto vicino a posizioni cospirazioniste, a rivelarmi però, tra le propaggini ideologiche di narrazioni a lui familiari, dei temi che andavano ad intersecare una critica al movimento BLM, attraversando prospettive che in qualche modo mi erano sembrati fino ad allora vicine, e che ora vedevo impugnate impunemente da qualcuno che non mi sembrava avesse buone intenzioni, ma che sul piano della comunicazione dimostrava una finezza interpretativa ammirevole.
Il testo, che sono stato in grado di rintracciare solo nell’originale in inglese sostanzialmente sosteneva che lo slogan “I can’t breath”, se pensato nel quadro di una pandemia causata da un virus i cui effetti riguardavano il sistema respiratorio, dopo mesi di imposizione di mascherine che in qualche modo ostacolavano il flusso di ossigeno nei polmoni, era parte di una strategia manipolativa che disciplinava coordinatamente corpi e menti, in qualche modo assimilabile alle tecniche della PNL.
La dimensione ideologica proposta dal “mainstream” – quella cosmeticamente antirazzista – era in questo senso un po’ una valvola di sfogo che si innestava nell’inconscio di una popolazione già preparata attraverso un processo di incorporazione del discorso pandemico tramite il fastidioso dispositivo della mascherina.
L’autore non si fermava qui, e scomodando il pranayama, la pratica yogica della disciplina e dell’espansione del respiro, procedeva asserendo che il pronunciare “I can’t breath” come fosse un mantra, diventasse un compendio dell’imposizione della mascherina e dell’ossessione per gli effetti del Covid-19, e che avesse quindi un effetto degenerativo rispetto alle funzioni corporee.
Ora io, antropologo che vive e lavora in India da più di dieci anni, mi sentivo fastidiosamente chiamato in causa su più versanti: il primo riguardava implicitamente un’interpretazione della dimensione ideologica attraverso le pratiche corporee. I discorsi sull’incorporazione e il biopotere foucaultiano avevano segnato la mia formazione accademica, le mie interpretazioni del fenomeno separatista Kashmiri e il suo innestarsi nella violenza ritualizzata.
Il rapporto tra ideologia, metafore linguistiche e performate, aveva in qualche modo guidato la mia ricerca sul campo e le mie riflessioni, poi pubblicate come tesi di dottorato e successivamente diventate un libro (Linee di controllo, Meltemi 2018)
D’altro canto un altro settore del capitale simbolico “amico”, quello delle pratiche yogiche, mi veniva girato contro, improvvisamente denudato da una sua presupposta innocenza politica, al limite connotata al frikkettonismo.
Parliamoci chiaro: il post era di poche righe, era evidentemente mal tradotto dall’inglese (probabilmente l’originale era stato scritto da qualche influencer alt-right statunitense) e la pagina Facebook da cui era stato ripreso si chiamava “resistence” più qualcosa che non ricordo (anziché il corretto resistance). Andando poi ad approfondire la storia del profilo avevo trovato diverse condivisioni di articoli da Primato Nazionale, l’organo d’informazione di Casapound, il che rendeva più che legittimo qualche sospetto.
Emergeva quindi un terzo problema, già inscritto (malamente) nel nome della pagina da cui il post era stato originariamente condiviso: il concetto di resistenza, e con esso quella romantica idea che le lotte dal basso verso l’alto e le relative contronarrazioni – in questo caso critiche nei confronti delle politiche scaturite durante la pandemia e della produzione manipolativa di un format di mobilitazione preconfezionato – siano sempre e comunque “legittime”.
Il mio lavoro sul separatismo kashmiri, in fondo, se da un lato tendeva a decostruire la struttura ideologica del fenomeno e le sue strumentalizzazioni, dall’altro si innestava sull’esperienza condivisa dell’oppressione militare indiana come un dato incontrovertibile e non vivisezionabile intellettualmente. L’ombra della mitologizzazione della “resistenza” era discussa, ma rimaneva comunque implicita in un testo che se non altro dava (giustamente) voce alla parte tatticamente svantaggiata del conflitto.
Il post sopracitato disputava insomma dei confini, questa volta argomentativi, che fino ad allora mi erano sembrati relativamente solidi, i quali andavano cedendo, lasciando filtrare sostanze contaminanti per il mio assetto ideologico, quindi la mia identificazione con quelle prospettive che vedevo ora colonizzate da istanze apparentemente “barbare”.
Dice Mary Douglas in Purezza e Pericolo, che il paradosso insito alla ricerca di purezza risulta, in ultima istanza, nel tentativo di inscrivere qualcosa di non malleabile come l’esperienza, entro l’ordine della non contraddizione. Sarebbe però proprio questa ossessione atta a governare il paradosso – qualcosa di implicito ad una realtà non traducibile, se non in maniera approssimativa – a portare irreversibilmente alla contraddizione.
Nell’era del caos cognitivo questa massima sembrava essere diventata una legge su cui innestare i processi comunicativi, tramite il saccheggio di sacche simboliche e chiavi interpretative forse effettivamente trascurate dall’intellighenzia, dal mondo accademico, dai vari pensatori critici normalmente pronti a costruire punti di vista inattesi e, almeno dialetticamente, sovversivi.
Il fatto è che, in Italia quantomeno, questo processo era stato immediatamente stroncato all’emergere della pandemia, a partire da una articolo di Agamben uscito sul Manifesto, nel quale l’autore, pur inciampando goffamente nel sensazionalismo, in qualche modo ipotizzava una connessione tra gestione dell’epidemia e l’imporsi di uno stato d’eccezione, richiamandosi quindi alle sue riflessioni sulla natura del potere e del diritto.
L’articolo, molto autoreferenziale specie se pensato come conferma dei bias intellettuali del filosofo italiano, sembrava poter comunque avviare un filone di dibattito che, per quanto ne so, si è sostanzialmente estinto, specie durante la seconda ondata pandemica. Nel recente ritorno alla ribalta dell’autore tramite esternazioni sul green pass, purtroppo non si può che confermare una ossessiva incapacità di coniare forme interpretative che non confermino acriticamente delle ridondanti ossessioni sulla natura del potere, per certi versi assimilabili ad una moda accademica al crepuscolo, non troppo capaci di svolgere la loro funzioni euristiche.
Il problema è che, per quanto le espressioni e le sofisticazioni intellettuali possano essere suggestive, il cuore del discorso del filosofo italiano non è sfociato in una prospettiva “terza”, ma anch’esso sembra essere stato ineluttabilmente magnetizzato nel gioco della polarizzazione, in definitiva dal versante cospirazionista: in parte per incapacità di rinnovamento e per lo scadere nel sensazionalismo intellettualizzato, in parte grazie al fatto che oramai la nostra stessa fruizione ed interpretazione di qualsiasi opinione sul tema tende a frugare, con spirito poliziesco, termini e riferimenti, alla ricerca di tratti che la collochino all’interno della struttura dicotomica complottismo/mainstream.
Riflettendo oggi sulla questione pandemica, sul mio posizionamento, e su quella pressione invasiva che avevo percepito leggendo il post su BLM, la sensazione più sincera è che si sia progressivamente diffuso un vero e proprio terrore, per chi si proclama in qualche modo intellettuale, di essere associato, per toni o argomenti, alla categoria del cospirazionsimo. Questo terrore deriverebbe proprio dalla prossimità “parentale” che il complottismo avrebbe con l’analisi sociale, normalmente dominio di un’élite, o presupposta tale: ma, in effetti, quanto il ricondurre l’evento pandemico ad uno stato di eccezione assomiglia, per quanto il discorso sia diversamente articolato, a elucubrazioni di vario genere su piani segreti di una qualche ombrosa setta? In una prospettiva si tende ovviamente all’astrazione e nell’altra ad una più cinematografica personalizzazione, ma in entrambi i casi, in fondo, la morale è un “le cose non sono come appaiono”: che il riferimento sia il mito platonico della caverna o Matrix è questione di stile, non di approccio.
C’è un problema di distinzione quindi, una disgiuntura interna che cede in una riproposizione della questione del diritto dei “non esperti” di condividere il loro pensiero – il dibattito “son tutti virologi ormai” – in un nuovo ambito, che include chiaramente le scienze umane e il pensiero intellettuale in generale.
Chi dopo l’autorevole Agamben – che in effetti poteva essere (ma non è stato) l’uomo giusto per battezzare un filone critico rispetto alle misure contenitive, le pratiche corporee, le retoriche mediatiche implementate durante questo periodo – avrebbe mai osato muovere un passo in quella direzione? Chi avrebbe rischiato di venir tacciato di complottismo, negazionismo, terrapiattismo e tutta la sequela di etichette oramai diventate aprioristicamente invalidanti dell’opinione dei nostri interlocutori “diversamente informati”? Chi vorrebbe essere associato a quei parenti un po’ sfigati ed imbarazzanti che farneticano invasati di associazioni improbabili, di strategie occulte, di poteri che si muovono invisibili dietro le quinte e manovrano i nostri destini senza che la maggioranza, in genere connotata da una natura “bovina”, anestetizzata dalla paura e dalle panzane, sia in grado di capire cosa sta succedendo?
Mi chiedo però se per esempio, questa stessa prospettiva, non sia quella che molti intellettuali, un po’ altezzosamente, applicano a molte altre categorie sociali, quando ad esempio si tratta di consumismo, berlusconismo ecc., e di questi tempi ai sostenitori delle teorie della cospirazione, i quali sembrano aver appreso una strategia speculare.
Si tratta di battaglie atte a delegittimare aprioristicamente l’agency dell’interlocutore, e di fatto l’unico risultato comune sembra essere una complicità nella polarizzazione e un frazionamento sociale che risulta ben chiaro nei flussi social, ma che in questo periodo si rinviene nelle relazioni faccia a faccia: amicizie che si infrangono, famiglie che si dividono, discorsi ossessivi e divisivi che emergono compulsivamente, agganciandosi arbitrariamente ad i più disparati brandelli di conversazione.
Mi chiedo quanto questo dispositivo di distinzione, la delegittimazione, che poi trova nella ridicolizzazione il suo apice operativo, non sia diventato un termine comune alla sintassi del dibattito ideologico (in primo luogo digitale), e quanto sia a questo punto fondamentale farne a meno, in un atto radicale di dialogica resistenza ad una frammentazione sociale irreversibile e che, come voleva la Douglas, non sfugge al paradosso proprio per aver ceduto alla tentazione di superarlo. Perché in effetti, la stessa spocchiosa presunta superiorità del vecchio “intellettuale dissidente” la ritroviamo oggi, ben assestata nel paradigma della post-verità, al cuore operativo del narcisismo cospirazionista, come una beffarda caricatura che in fondo ci parla di noi stessi.
Le teorie della cospirazione peraltro, come è stato fatto notare da molti, sono pur sempre teorie e si radicano in un sentimento gnostico, quindi nella ricerca di una verità più “profonda”: anche queste si nutrono di intuizioni, come per esempio fa l’antropologia, ma in fin dei conti anche molte altre discipline accademiche (e non solo). Anche la questione, paternalisticamente più volte sollevata, per cui l’adesione a queste narrazioni, più o meno fantasiose, sia dovuta alla necessità inconscia di darsi delle spiegazioni rassicuranti (per quanto paranoiche) rispetto a qualcosa di indistricabile, non distingue sufficientemente il fenomeno da altre forme di conoscenza, che siano quelle guidate da categorie ortodosse per il mondo accademico ed intellettuale, o che si tratti semplicemente delle versioni preponderanti nella comunicazione mainstream.
Forse il problema, in senso più politico che epistemologico, è da rinvenire nelle forze che incapsulano determinate narrazioni, in genere più orientate al populismo e al nazionalismo identitario, ma anche, come esemplificato dal post citato in apertura, abili nel pasturare e pescare indifferenziatamente in bacini di pensiero (un esempio lampante è proprio la new age) trascurati sdegnosamente da chi fa dell’identificazione con un pensiero intellettualmente elitario la roccaforte del proprio essere.
È oramai un fatto consolidato che le “tematiche esca” legate all’impianto discorsivo del complotto, si accompagnino, nei canali mediatici che le veicolano, a lignaggi ideologici radicalmente reazionari. Accostando il sensazionalismo cospirazionista alla critica della cosiddetta ideologia gender, dell’annacquato antirazzismo di BLM, all’ecologismo strumentale dei “gretini”, questi neonati agglomerati ideologici finiscono per ricontestualizzare posizioni reazionarie, travestite e mimetizzate da controcultura, resistenza e pensiero critico.
È anche qui la già discussa ossessione per la distinzione elitaria, e l’autocompiacimento che ne deriva, a catalizzarne l’efficacia seduttiva e, in questa dinamica intimamente narcisista in senso psicologico, si nasconde il paradosso, quindi la “fastidiosa parentela” con il pensiero critico ed antagonista.
Mi chiedo quindi, in conclusione, quanto l’ansia di distinzione – questa paura di contaminazione reputazionale, con il conseguente timore di elaborare e diffondere idee radicalmente critiche sulla gestione della pandemia come policy capillare nel modificare le tecniche del corpo, le modalità di interazione, la libertà di movimento, fino alle questioni di ampia scala – abbia lasciato campo d’azione a forze che, intercettando il malcontento e il disagio, se ne appropriano irreversibilmente, accentuando una polarizzazione ideologica che non promette nulla di buono.
Tra le categorie “complottari” e “covidioti” o il “non venne coviddi” e “#iorestoacasa”, con le loro rassicuranti banalità, c’è, credo, un poco esplorato, ma fertile, terreno intermedio di potenziale circolazione di prospettive critiche, fatte di caute ipotesi ed opinioni bilanciate, le quali però andrebbero inserite nel dibattito pubblico con l’idea che, quando un evento pervasivo come la pandemia irrompe nella storia, produce inesorabilmente accelerazioni e riassetti rispetto ai quali alcune formazioni di potere sono ovviamente più pronte di altre a prevederne e capitalizzarne gli effetti.
Che si parli delle compagnie farmaceutiche, delle pulsioni securitarie degli stati, o delle aziende che hanno tutto da guadagnare dalla digitalizzazione delle relazioni umane, evitare di monitorare e criticare le modalità in cui questi apparati portano avanti le loro strategie, di fatto gioca a loro favore, come gioca a loro favore il fatto che la contronarrazione diventi dominio di narrazioni sterili e tendenti al delirio. L’antidoto a questa potenziale impasse, a mio parere, è lo strumento dell’ipotesi argomentata, che, anche se basata su intuizioni e soprattutto metafore, permetterebbe di discutere la storia del presente in presa diretta, dando modo all’immissione di prospettive interpretative mediane e non assolutizzanti di plasmarla nel suo svolgersi.
Se le metafore belliche della primavera 2020 sono diventate reali, in fondo, possiamo anche valutare una loro consistenza fattiva nell’operare nella realtà politica e sociale.
A un anno di distanza dalla lettura del post citato in apertura insomma, dopo una lunga e difficile digestione, posso dire che quella prospettiva raffazzonata, fatta di un patchwork di suggestioni è stata un utile spunto per tornare a riflettere sui rapporti tra ideologie, metafore e corpi, le stesse che in qualche modo avevo investigato in Kashmir, dove il coprifuoco implica effettivamente la possibilità di essere uccisi se trovati fuori casa, e dove il gas lacrimogeno utilizzato dalle forze armate durante le rivolte anti-indiane, continua a bruciare nei polmoni di ragazzi che così, come in un primo lacerante respiro neonatale, ricevono l’imprinting dell’atmosfera politica in cui sono destinati a vivere.
Continuando quindi a pensare i frammenti dell’esperienza individuale e collettiva come costitutivi, o quantomeno metonimici rispetto alla realtà in cui sono incastonati, le domande che a me si impongono sono diverse: “a quale forma di cittadinanza, appartenenza e sovranità alludono le policy del lockdown, il distanziamento sociale, la didattica a distanza, guardando simultaneamente alle evoluzioni sul discorso del razzismo, dei diritti LGBTQ, dell’ecologismo e dei diritti civili universali? A quale organismo collettivo apparterremo a partire dal rituale iniziatico del vaccino, con la sua implicita accettazione sacrificale di un rischio marginale individuale per il bene dei più deboli? A quali mitologie, utopiche o distopiche che siano, rimandano le pratiche rituali pandemiche e i discorsi che le circondano? Come sta mutando il capitalismo, o meglio l’ordocapitalismo, che per queste narrazioni (comprese quelle complottiste) rimane un’intaccabile struttura di fondo? Cosa ne è della scienza, e soprattutto del dubbio scientifico, quando le sue acquisizioni giustificano politiche così pervasive, quando si diluisce in pratiche e discorsi del quotidiano, quindi nel senso comune e quando questa si tramuta un fenomeno ideologico ed identitario? E cosa ci preannuncia questa onnivora polarizzazione e la conseguente atomizzazione, con i suoi fitti meccanismi esclusivi, delegittimanti, divisivi – ultimo dei quali il dibattuto green-pass? Come si spiega, nell’ambito della fruizione, il fatto che aggregati ideologici apparentemente incoerenti, in cui misticismo e conservatorismo o dall’altra parte capitalismo e diritti civili, stiano diventando le forme discorsive più efficaci.
Ce ne sono molte altre di domande, e non sono questioni che richiedono di trasgredire i nostri limiti in disquisizioni su mRNA, proteine spike e big data analysis, campi che hanno già i loro affidabili specialisti; ma quel che ci importa è che in fondo, è nella dimensione esperienziale e molecolare della società che si nascondono i segni delle totalità indecifrabili in cui siamo intrappolati, ed è in primo luogo nella loro interpretazione che possiamo percepirle e interagirci nel loro stesso divenire.
Ma condizione necessaria per mantenere lo sguardo lucido e profondo – così mi ha insegnato la mia formazione da antropologo e soprattutto la mia esperienza di ricerca – è una faticosa sospensione del giudizio, quindi la capacità di non attivare compulsivamente schemi predefiniti alla realtà per schermarci dai suoi problematici paradossi. Perché questo esercizio di empatia sia praticabile, in fondo, è sufficiente considerare che quell’attaccamento morboso, ossessivo ed ostile che rinveniamo nei nostri interlocutori (e riflesso complementarmente nel nostro stesso giudizio, di qualsiasi parte), non è nient’altro che espressione del malessere, dei traumi, delle limitazioni, che hanno come noi vissuto durante quest’ultimo squarcio di storia.
L’unica distinzione praticabile, in una prospettiva che ci riporta all’epistemologia del paradosso, sembra essere quella orientata ai meccanismi pervasivi della distinzione stessa, e di quella contagiosa polarizzazione di cui siamo, consapevoli o meno, potenziali vettori.
Fonte
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