In Afghanistan è finita. I Talebani stanno entrando a Kabul, al termine di una “avanzata” senza combattimenti, senza resistenza e senza neanche veri interventi aerei da parte Usa.
Le residue truppe della coalizione Usa-Nato si stanno occupando soltanto di evacuare il personale diplomatico. Lasciano al loro destino i collaborazionisti locali, come hanno sempre fatto ovunque nel mondo.
Sciolto come neve al sole lì”esercito” addestrato e armato per venti anni dagli “esperti” occidentali. Svanito nel polverone della fuga il “governo” che aveva messo insieme personaggi scelti dall’Occidente (Ghani) e qualche “signore della guerra” (Dostum).
Le foto delle “truppe” jihadiste che avanzavano a bordo di ciclomotori, furgoncini a tre ruote o a cavallo, restituiscono l’immagine di un popolo che si riprende il suo paese perché non l’aveva mai lasciato davvero gestire agli invasori.
È un fatto, non una impossibile dichiarazione di solidarietà.
Registriamo come stanno le cose in un paese lontano da noi geograficamente e come cultura, tradizioni, cui i nostri governanti-servi dell’ex superpotenza unica hanno portato per venti anni morte e distruzione supplementari, senza costruire nulla.
Le scene di fuga dalle ambasciate della “coalizione dei volenterosi” sono simili a quelle di Saigon, 1975.
Le chiacchiere dei media nostrani stanno diventando col passare delle ore in-credibili persino a chi le pronuncia. Devono riscrivere in pochi minuti la “narrazione” consolidata in un ventennio. Da barzelletta le dichiarazioni del “ministro degli esteri” italiano, al secolo Luigi Di Maio, che ancora poche ore fa ripeteva “non lasceremo soli gli afgani“.
Per gli Usa si tratta della sconfitta più cocente, appunto, dalla fine della guerra in Vietnam.
Ma in quel caso si apriva una speranza di liberazione generale dal binomio capitalismo/imperialismo. In questo soltanto la certificazione empirica che l’”esportazione della democrazia” attraverso i droni e i cacciabombardieri è solo una formula verbale che nasconde una volontà di potenza che non ha più il motore per marciare.
In questo senso, e solo in questo, la caduta di Kabul e la fuga dell’Occidente neoliberista parla a tutti noi.
Non abbiamo di fronte un nemico invincibile, onni-sapiente grazie alle banche-dati e ai sistemi di controllo diffuso sempre più sofisticati, in grado di “progettare” sviluppi di lunga durata.
Abbiamo un impero col fiato corto, capace di qualsiasi follia, ma senza futuro.
Prima ce ne rendiamo conto, prima cominceremo a liberarci anche noi.
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