Dalla mattina del 15 agosto i talebani circondano la capitale afghana e sono appostati alle porte della città. Nel tardo pomeriggio il presidente-fantoccio Ashraf Ghani fugge in Tagikistan, e qualche ora dopo Al Jazeera mostra prima le foto e poi il video degli insorti che occupano il palazzo presidenziale segno più che tangibile della definitiva caduta della capitale.
È lo stesso ex-Presidente, in un messaggio rilasciato dopo la sua fuga ad ammetterlo: “I talebani hanno vinto“.
Gli Stati Uniti avevano bruciato i documenti con “informazioni sensibili” della propria ambasciata, ed i tre battaglioni di fanteria e marines – circa 3.000 uomini di rinforzo – giunti dagli USA a Kabul hanno sorvegliano il trasferimento del personale statunitense verso l’aeroporto non più controllato dalle evanescenti Forze Armate Afghane, ma dalle forze residuali che hanno occupato il Paese per vent’anni.
Durante la giornata la situazione attorno e dentro l’aeroporto si è deteriorata nel tentativo di fuga di massa nella sua direzione. Situazione ulteriormente peggiorata dalla chiusure del traffico commerciale a favore di quello militare. Nelle ore il trasferimento in elicottero dall’ambasciata statunitense all’aeroporto è stato più caotico, e si è concluso con la bandiere a “stelle e strisce” ammainata.
Britannici, tedeschi, spagnoli, canadesi e italiani, tra gli altri, stanno evacuando – sarebbe meglio dire fuggono – mentre gli elicotteri nord-americani hanno sorvolato tutta la giornata a quota bassa Kabul, la cui sicurezza era ancora tutelata nominalmente dall’esercito Afghano, in realtà da nessuno.
Il personale diplomatico russo non lascerà la propria ambasciata, mentre proprio la diplomazia della Federazione si è attivata per convocare un Consiglio di Sicurezza dell’ONU – previsto per questo lunedì – che trovi la quadra per l'attuale cambio di regime.
Intanto il ministro dell’interno del governo afghano uscente, Abdul Sattar Mirzak, ha dichiarato che ci sarà “una transizione pacifica dei poteri“; gli ha fatto eco il portavoce dei Talebani, assicurando che non entreranno a Kabul fino a che non sarà compiuto il passaggio di poteri. Ma come dimostra la piega degli eventi il dado è tratto.
Se in queste convulse ore si sta definendo la soluzione politica che sistematizzi la vittoria talebana salvaguardando le apparenze del diritto internazionale e venga risparmiato un inutile “bagno di sangue”, il ritiro statunitense e della NATO si è trasformato ben presto in una sconfitta imprevista nei tempi e nei modi.
Gli esperti USA qualche giorno fa prevedevano la cadura di Kabul tre mesi dopo la loro partenza, prevista entro la fine d’agosto, ma la situazione ha anticipato l’evento per cause di forze maggiore trasformando un ritiro programmato in una fuga disordinata.
Si sarebbe trattato in un ultimo disperato tentativo di stabilire un governo ad interim, quindi “di facciata”, che sostituisse quello attuale, teoricamente tra la dirigenza degli insorti ed un Consiglio di Coordinamento, ma è evidente che comanderanno i Talebani, che vedevano questa ipotesi come una più che auspicabile contropartita rispetto alla loro definitiva legittimazione politica internazionale.
L’alternativa che si starebbe concretizzando è una resa tout court dell’attuale compagine governativa, con una offensiva finale in grado di accelerare ulteriormente la partenza del personale internazionale.
I Talebani hanno fin qui mantenuto i patti – non attaccare chi si stava ritirando – oltre a limitare (per ora) le plateali rese dei conti che caratterizzano ogni fine di conflitto. Ma il tentativo di “metterci una pezza” sembra fallito.
Si tratta di una situazione molto diversa da quella di circa 25 anni fa, quando gli “Studenti coranici” entrarono a Kabul a fine settembre, concludendo di fatto una guerra civile iniziata nel 1992 e che li aveva visti emergere e prevalere tra le altre litigiose forze islamiche solo pochi anni prima.
Certamente l’entrata a Kabul avvenuta il 27 settembre del 1996 non significò né il completo controllo del territorio da parte loro, né la fine delle ostilità, ma l’inizio di 5 anni di sostanziale governo con uno scarso riconoscimento internazionale ufficiale dell’Emirato da parte di Pakistan, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti.
Questo, comunque, fino all’occupazione militare a guida USA del 2001, che usò come “testa di ponte” proprio gli avversari dei Talebani. Ma ora l’Emirato è di nuovo una realtà, 25 anni dopo.
Questa volta l’offensiva talebana è durata circa 4 mesi, e non ha incontrato ostacoli rilevanti né tra le Forze Armate Afghane, né tra i signori della guerra alleati al governo fantoccio, tra cui l’ex potente Dostum, un tempo alleati e poi competitor.
In una settimana sono cadute 26 province su 34, e circa il 65% del territorio è nelle loro mani. Fino a ieri, tranne praticamente Kabul, che con i suoi 4 milioni e mezzo di abitanti costituisce il 12% della popolazione, tutte le capitali di provincia ed i punti strategici ai confini, compreso quelli fondamentali lungo i 1.200 km circa con il Pakistan, sono in mano talebana.
Da notare che il “passaggio di consegne” nei punti di attraversamento con il Pakistan è avvenuto nella più totale tranquillità, quasi con la “benevolenza” dell’autorità pakistane.
Per risultare vincitori tra il litigioso schieramento di forze unite dalla lotta, prima contro l’esperienza della Rivoluzione Saur dell’aprile 1978 e poi contro l’intervento sovietico del dicembre del 1979 che la difendeva, ci vollero alcuni anni.
La prima importante conquista di una città da parte dei Talebani, Kandahar, avvenne infatti nel novembre del 1994, quasi due anni prima della presa di Kabul, e nell’anno che ne aveva preceduto la conquista della capitale, controllavano solo una dozzina di province. Kandahar, insieme ad Herat, le principali città a parte la capitale, sono cadute appena qualche giorno fa.
Kabul fu praticamente sempre al centro dei combattimenti tra le varie fazioni rivali da quando Mohammad Najibullah nel 1992, che aveva tentato la via della riconciliazione nazionale coniugata ad un accordo internazionale di ampio respiro, fu costretto a dimettersi.
Ma ciò che era stato stabilito dagli Accordi di Peshawar in Pakistan dell’aprile di quell’anno, per il nascente Stato Islamico dell’Afghanistan, e che dovevano fare da cornice alla transizione, rimase di fatto lettera morta per il mancato accordo tra le parti.
In particolare, chi allora si oppose con forza fu Gulbuddin Hekmatyar, leader di Hezb-e Islami, la forza anti-sovietica che tra i mujaheddin aveva goduto del maggiore appoggio finanziario e politico da parte di USA e Gran Bretagna, tra gli altri, e allora referente privilegiato (prima della sua caduta in disgrazia) dei servizi segreti pakistani, l’ISI.
Ora è membro ipotetico, insieme ad Abdulah Abdulah, del Consiglio di Coordinamento nominato dal presidente uscente, per trattare con i Talebani. Gulbuddin non è stato poi che il primo dei disaccordi tra i “signori della guerra”, che di fatto annullarono l’ipotesi di un governo di transizione che avrebbe teoricamente dovuto avere Massoud, ex mujaheddin anti-sovietico, futuro leader della cosiddetta “Alleanza del Nord” anti-talebana come ministro della difesa.
Massoud finirà i suoi giorni il 9 settembre del 2001, ucciso in un attentato, due giorni prima delle Twin Towers. Così al mancato accordo politico subentrò lo scontro militare tra ex alleati che insaguinò il Paese.
Nel 1996, entrando a Kabul i talebani prelevarono dal compound dell’ONU l’ex leader comunista Najibullah, lo torturarono e lo impiccarono, tenendolo esposto fuori dal Palazzo Presidenziale.
Nonostante si fosse dimesso da più di quattro anni infatti godeva ancora di un notevole prestigio – e ne gode tuttora, specie tra i pashtun, come ha dovuto ammettere Foreign Affairs in un articolo dell’anno scorso – e si era rifiutato di andarsene dal Paese.
Un rispetto che dura tuttora, considerando gli sforzi (quando era in carica) per una soluzione politica e non militare al conflitto tra le parti che gli avrebbe fatto preferire “La pace al potere“, come dichiarò in una intervista quando era ancora in carica.
Il suo fu uno sforzo generoso per trasformare l’Afghanistan da paese dell’orbita dell’URSS, dopo il suo collasso, in un Paese neutrale all’interno dei paesi Non-Allineati. Un Paese che, anche se privato di riferimenti apertamente socialisti, con una certa apertura al mercato e l’ufficializzazione dell’Islam come religione di Stato, avrebbe potuto mantenere alcune delle conquiste sociali fatte con la Rivoluzione Saur, contro cui gli USA cospirarono ben prima dell’intervento sovietico.
Queste conquiste avevano posto le basi per l’uscita dalla condizione di arretratezza e povertà di un regime semi-feudale, com’era l’Afghanistan anche dopo la fine della monarchia.
Appare paradossale ma i Talebani, mutatis mutandis, sembrano prendere ispirazione proprio da alcune delle ultime istanze politiche legate alla “sovranità nazionale” di quel leader che avevano trucidato insieme al fratello, presentandosi ora come una forza pronta a concedere l’amnistia a chi ha lavorato per il precedente governo, pronta ad una riconciliazione nazionale di tutte le componenti della popolazione, interessata ad un buon rapporto con i vicini (Iran e soprattutto Pakistan sono ora nell’orbita di Pechino) e disposta a ricevere gli investimenti, in particolare cinesi, ed allo stesso tempo disponibile a non ridiventare un “santuario” della guerriglia islamica, come venti anni fa.
Una ipotesi, quella di diventare nuovamente un hub dello jihadismo globale, che minerebbe gli interessi cinesi nello Xinjiang e quelli russi nei tre Stati centro asiatici con cui confina.
E se qualcuno tra i talebani avesse avuto dei dubbi, la conclusione della quarta fase dell’esercitazione anti-terroristica congiunta russo-cinese, che ha impiegato 10 mila uomini, probabilmente li ha eliminati.
Non è peregrino pensare che siano addirittura disposti a combattere gli altri network jihadisti. Certo non possiamo sorvolare su alcuni aspetti apertamente “regressivi” che comporterà la governance talebana, ma ai liberal dalla memoria corta va ricordato che fu proprio la rivoluzione socialista del 1978 che fece fare notevoli avanzamenti alle donne e limitò il potere della religione nella vita politica, in un contesto di miglioramenti sociali; cosa che non hanno mai fatto invece le concessioni dei “liberatori” del 2001.
Dalla facilità con cui hanno preso, quasi senza combattere, tutte le città afghane, prima di accerchiare la capitale, nonostante le forze inferiori sulla carta ed i mezzi più esigui, si può dedurre che l’ipotesi che si sviluppi nuovamente il caos (cosa che non dispiacerebbe agli anglo-americani) sembra piuttosto remota. A meno che qualche signore della guerra non si allei con le altre centrali della Jihad internazionale, agendo da antagonisti dell’asse euro-asiatico in formazione tra Russia, Cina e Iran.
Inoltre i risultati di questi vent’anni di “ricostruzione” sono stati un scarsi: più della metà della popolazione viveva sotto la soglia di povertà già prima della pandemia, ora sono quasi i tre quarti. Solo metà della popolazione maschile sa leggere e scrivere (solo un terzo delle donne), i profughi all’estero sono circa 2,4 milioni (su una popolazione di 38), secondo le cifre ufficiali. Ma è chiaro che sono solo stime notevolmente al ribasso.
La corruzione e la polarizzazione sociale, ed altri fenomeni made in USA, sono dilagati, come ha denunciato l’opposizione, ma gli occidentali sono stati piuttosto sordi di fronte a fenomeni come questi.
Non proprio un successo, insomma, se sommato al fatto che l’amministrazione statale si è liquefatta e le Forze Armate non hanno praticamente combattuto, il fiasco appare completo.
Non è assurdo pensare che per una parte rilevante della popolazione i talebani possano costituire un fattore di “stabilizzazione“.
Una stabilizzazione che, con le alleanze di cooperazione militare a “geometria variabile” che fanno perno su Pechino e Mosca (Shangai Cooperation Organization ed il suo Gruppo di Contatto con l’Afghanistan, e il Collective Security Treaty Organization), se gli insorti staranno ai patti, può garantirne la pace ai confini ed indirettamente la “profondità strategica” dell’Afghanistan che sta per sorgere, ed in cui USA ed UE avranno molta – ma molta – difficoltà a rimettere piede.
Per gli USA ed i Paesi della NATO – in cui lo sviluppo del complesso militare-industriale connesso alle missioni militari iniziate con l’Afghanistan, ed in generale il passaggio dal Welfare State al Warfare State, è stato un fattore di contro-tendenza alla crisi – può insomma chiudersi un ciclo.
Così come accaduto con l’effetto boomerang delle sue creature sfuggitegli di mano (ricordate l’ISIS?).
La credibilità dell’Occidente neoliberista, a dispetto degli sforzi dei media mainstream, è irrimediabilmente compromessa: hanno perso nel “Grande Gioco", difficile occultare la sconfitta e scacciare via il fantasma di una seconda Saigon.
Ora tocca a noi “bastonare il cane che affoga” partendo proprio da quell’indecente classe dirigente filo-atlantica e pro-europeista che in tutti questi venti anni circa (tra cui il governo Prodi-bis, quelli Berlusconi e i tre governi con dentro i “pentastellati") ci ha costretto a questa disastrosa avventura militare e fallimentare impresa politica.
Subordinati e complementari agli USA come “negri da cortile“, avrebbe detto Malcom X.
Una scommessa foriera di immani tragedie per un popolo martoriato che sembrava, con il socialismo, aver trovato una possibilità di riscatto e che fu stroncata dalla reazione interna e dall’imperialismo anglo-americano, con la complicità indiretta (tra cui la dirigenza del PCI di Berlinguer) di chi condannò l’intervento militare sovietico per chiarire il proprio nuovo posizionamento internazionale e di classe.
Alla luce di ciò che i media ci hanno raccontato in questi venti anni e passa, quella afghana appare una “strana” sconfitta.
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