Sono sbarcato nel Regno Unito nel 2013, appena un anno dopo dalla morte di mio padre, e qui ho cominciato la mia seconda vita. Lavoro nel mondo dell’Information Technology, fra server, macchine virtuali, containers e tante, ma tante, linee di codice. Nella mia prima vita, in cui ero giovane aitante e pieno di energie – si vabbe’…- avevo una missione: spiegare la scienza. Nel 1999, quando internet era ancora agli albori e le connessioni erano a 56k, fondai insieme a due amici un portale italiano per l’astronomia, ovvero Astrofili.org. Da quel portale nacque uno spin-off, una e-zine di astronomia chiamata Astroemagazine, e da li’ cominciai a capire che forse, ma dico forse, mi piaceva parlare di scienza.
Cominciai a parlare di scienza pubblicamente nel bellissimo planetario di San Giovanni in Persiceto e poi nei festival scientifici in giro per l’Italia. Successivamente creai un podcast scientifico chiamato Caccia al Fotone. E poi, per un caso ancora non del tutto comprensibile per me, fui accettato come explainer nel Festival della Scienza di Genova. Fino a quel momento pensavo ingenuamente che sapere qualcosa volesse automaticamente dire essere in grado di spiegarla. Ma non era cosi’. Ci furono due persone che modificarono completamente il mio punto di vista. La prima fu Lara Albanese, una straordinaria astronoma “raccontastorie” che mi fece vedere come “scienza” non volesse dire “scientifichese” ma invece un’unione di linguaggi che riusciva a fare della divulgazione un’arte che potesse essere comprensibile ai più. La seconda fu un buffo tipo chiamato Daniele Barbieri che mi spiego’ come società e scienza non fossero due universi separati, e che parlare di scienza mettendoci dentro il proprio “punto di vista” non era una bestemmia ma una necessita’. Sopratutto per noi “de sinistra”.
Ho sempre pensato, per quel poco che vale il mio parere, che trattare la gente come “poveri stupidi” sia il modo peggiore per comunicare la scienza. Elevare il linguaggio, parlare di metodo scientifico, introdurre concetti epistemologici anche complessi – Feyerabend e’ stato un mio amore di gioventù – era non soltanto giusto ma anche necessario. Solo spiegando il metodo si potevano poi introdurre temi complessi. Ai bambini in un planetario non si doveva avere paura di parlare di diagramma H-R. In una radio comunitaria non si doveva avere paura di parlare di teoria delle stringhe. Bastava indirizzare la propria comunicazione a quelli che, per qualche motivo – colpiti magari da ispirazione sulla via di Damasco – decidevano di seguirti. Bastava catturare la loro attenzione per alcuni minuti, e già ne sarebbe valsa la pena. Ma quando si parla di divulgazione il discorso e’ totalmente diverso. La divulgazione e’ un mostro strano. E’ un linguaggio davvero borderline, che gioca all’iper-semplificazione, che tenta di spiegare cose complesse in maniera estremamente semplice, partendo dall’utilizzo di metafore, finendo a giochi di prestigio comunicativi che tentano di catturare l’attenzione per lo scopo più bello del mondo: affascinare e diffondere la scienza.
Avendo la fortuna di vivere nel Regno Unito – o sfortuna? aspe’ che ci penso… – ho visto il modello comunicativo che e’ in voga qui e sorprendentemente, nonostante io fossi convinto del contrario, non e’ molto diverso da quello italiano. Certo la scienza e’ più diffusa: giornali come Guardian hanno la loro pagina di scienza fissa e costante. Certo, c’e’ David Attenborough. Certo, c’e’ Patrick Moore. Ma la salsa e’ sempre la stessa: “spiego senza spiegare”, affascino, ipersemplifico perchè tanto il lettore non puo’ capire appieno quello che sto dicendo. Questo non avviene soltanto in Uk, ma in tutto il mondo anglosassone, che fa in fondo da traino. Parlo ovviamente della comunicazione generalista, quella fatta nelle tv, nelle radio e sui giornali. Ma essendo ancora oggi un malato di podcast mi rendo conto che quando il potenziale target e’ differente, il gioco cambia completamente, e ci si spinge nella divulgazione di concetti complessi ed estremamente specialistici. Podcast come “Big picture science”, “Command line heroes” o “Rationally speaking” sono soltanto alcuni dei brillanti esempi a cui mi riferisco.
Non riesco a staccarmi dall’Italia. Mi sento italiano fin nel midollo, e dall’estero vivo la situazione dello “stivale” a volte con speranza a volte con rassegnazione. Dicono sia importante fare esperienze, conoscere nuovi mondi, integrarsi in nuove culture. Ma farlo perché lo si decide e’ un conto. Farlo perché il tuo Paese non offre più opportunità e’ un altro paio di maniche. Detto questo vivere l’esplosione della pandemia del Covid-19 da dentro (il Regno Unito) e da fuori (l’Italia) e’ strano. E’ strano perche’ si leggono dati, si ascoltano interviste, si leggono pareri piu’ o meno fantasiosi e si vorrebbe urlare “basta fermatevi tutti, fate silenzio per favore”. Avviene quello che Alvin Toffler chiamava information overload e non si sa più’ dove sia il giusto, con che parametri analizzare i dati, con che approccio analizzare gli eventi che rapidamente cambiano. E poi si vede l’esplosione della comunicazione complottista, di quelli che proprio non ci hanno capito niente e che continuano a non capirci niente. Si ascolta la Capua e Montanari, Burioni e Bacco, la Gallavotti e Mazzucco. Poi si legge Agamben e Cacciari. Con che parametri devo interpretare il mondo che mi circonda?
Durante questo periodo di pandemia secondo me e’ stato fatto un grande errore: parlare troppo. A mio parere bisognava fermarsi e far silenzio. Invece fiumi di parole sono state spese per cercare di spiegare questa situazione, per comunicare cosa fosse un virus, cosa fosse un vaccino e quanto fosse importante indossare mascherine protettive sul volto. Erano tutti diventati virologi ed esperti di scienza, un po’ come fosse una partita di calcio, e ovviamente più parametri metti nel sistema più entropia finisci per generare nel sistema. Il mio passato da comunicatore e divulgatore scientifico mi ha letteralmente salvato. Mi ha permesso di tenere la barra dritta, di fare silenzio nella mia testa, di analizzare, come facevo un tempo le systematic reviews e gli abstract dei paper che avevano maggiore impact factor sull’argomento. La biblioteca Jstor infatti – Aaron Swartz sarebbe fiero di questo – ha deciso di pubblicare tutti i paper su argomento Covid-19 in open access, in modo da renderne accessibile la loro lettura a tutti. Grande avanzamento del “public science” di cui pero’, sui media si e’ parlato forse troppo poco.
Fermandomi un attimo anche dal punto di vista lavorativo – sono andato in completo burnout e ho dovuto lasciare per qualche mese – ho analizzato cosa stava accadendo. Da fuori pero’. E questo mi ha permesso di comprendere molto. Per esempio mi ha permesso di capire che tipo di comunicazione scientifica veniva realizzata. Comunicazione bianco-nero, come se la scienza fosse non il miglior modo, ma imperfetto, d’interpretare la realtà, ma come se fosse la panacea per tutti i mali. Come se insomma l’interlocutore fosse un perfetto ignorante, che doveva ricevere una comunicazione paternalistica mirata al concetto del “fidatevi perché ve lo diciamo noi”. Chi invece ha bazzicato la scienza anche da turista, sa benissimo che la scienza non e’ questa. Certo eravamo e siamo in situazione di emergenza ma il lupo (il virus) non mangia cappuccetto (gli esseri umani) perché e’ cattivo ma perché ha fame. E banalmente questo bisognava fare: evitare che si cibasse di noi.
Le mascherine ci proteggono dal virus. No, le mascherine erano il miglior metodo che avevamo per ridurre la diffusione del virus che si trasmette attraverso le droplets. Il lockdown impedisce al virus di diffondersi. No, il lockdown e’ uno dei metodi contenitivi migliori che conosciamo per rallentare la diffusione del virus. Il tampone testa la presenza del virus. Sì, non è un metodo perfetto, ma è il migliore che abbiamo al momento. I vaccini ci proteggono dal virus e sono sicuri. Si, ci proteggono dal virus ma non al cento per cento, ogni vaccino ha tecnologie diverse; e no, ovviamente come ogni medicina possono avere effetti collaterali.
Bastava poco in fondo. E invece no, convinti che, per qualche motivo, l’interlocutore non potesse comprendere, si e’ spostata la comunicazione sul vero-falso, su “la scienza e’ perfetta, fidatevi della scienza”. Come si stesse raccontando una favola, dove ci fossero i buoni e i cattivi, e dove per arrivare al lieto fine bastasse cambiare strada per non incontrare il lupo. Ma anche il lupaccio poteva cambiare strada, magari mettersi il vestito della nonna e mutare. Ed e’ ovvio che immettendo nel sistema un tipo di comunicazione di questo tipo, si favorisce l’esplosione delle comunicazioni alternative, alla Byoblu per intenderci, che fanno vedere le fallacie del sistema e che fanno passare il messaggio del “vedete, quello che dicono non e’ completamente vero, fidatevi invece di noi”.
Dobbiamo smettere di comunicare la scienza in questo modo. E dobbiamo anche smettere di pensare che i nostri interlocutori siano perfetti ignoranti, o, come si dice oggi, “analfabeti funzionali” e utilizzare questo momento storico per creare nuove modalità di comunicazione che vadano dritte al cuore, che non trattino il metodo scientifico come un’imposizione calata dall’alto ma come esso e’: un metodo, il migliore che abbiamo, per interpretare la realtà. Soltanto comunicando con onesta’, spiegando tutto, anche nei suoi difetti intrinseci, possiamo avere un ritorno di fiducia. Altrimenti non solo si fa un cattivo servizio alla scienza, ma anche allo scopo per cui stiamo comunicando scienza in questo preciso periodo: salvare vite.
Lara si siederebbe in mezzo al planetario e risponderebbe con dolcezza a tutte le domande. E voi cosa fareste?
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