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30/04/2020

"Anno Uno" (2008) di Harold Ramis - Minirece


Come la Cina ha spezzato la catena del contagio

Pubblichiamo la traduzione della meticolosa descrizione scritta a “sei mani” su come la Cina sia riuscita a sconfiggere vittoriosamente la “prima ondata” del contagio di coronavirus. Questo articolo è apparso sul prestigioso Indipendent Media Institute il 15 aprile ed è stato ripreso dalla testata digitale della storica rivista della sinistra radicale nord-americana Monthly Review On Line il 19 aprile.

Avevamo precedentemente pubblicato un racconto-intervista di ciò che è stata l’esperienza della quarantena nella città di Wuhan, nella provincia di Hubei, ed un altro resoconto del corrispondente del “The Washington Post” a Pechino.

Dalla lente di questi due differenti osservatori emergevano chiaramente alcune caratteristiche della risposta vincenti della Repubblica Popolare che qui sono riportate minuziosamente in una scansione cronologica che va dai primi di gennaio alla fine dei 76 giorni di lockdown.

Altri acuti osservatori, in questo caso osservatrici, avevano individuato la chiave di volta della risposta cinese all’emergenza sanitaria al proprio interno e poi alla pandemia globale nella “pianificazione socialista” di questo Paese.

Infatti, nonostante i primi errori nell’affrontare l’epidemia alla fine dello scorso anno, che sono stati pubblicamente ammessi dalla dirigenza, la Cina è riuscita ad affrontare da subito, al meglio, con l’inizio del nuovo anno la sfida del Covid-19.

Come ci ricorda il collettivo anti-imperialista cinese Qiao: “È quindi interessante notare come nessuno dei media occidentali abbia menzionato che il sindaco e il segretario di partito di Wuhan abbiano ammesso apertamente il loro errore sia in conferenze stampa, sia in interviste per popolari programmi televisivi, né di come il Partito abbia imposto chiaramente e in termini inequivocabili la totale trasparenza e condivisione delle informazioni riguardanti il virus”.

Questa trasparenza si è chiaramente manifestata con la diffusione della “mappatura genetica” del virus avvenuta nella prima metà di gennaio – che ha permesso di lavorare globalmente da subito alla creazione del vaccino – e della stretta e fruttuosa collaborazione tra Cina e Organizzazione Mondiale della Sanità in particolare ed in generale con tutti i Paesi che ne hanno fatto richiesta, al di là delle menzogne di Trump e di chi vi si è allineato.

In questo articolo emerge come l’esigenza principale della dirigenza cinese fosse – dopo avere preparato una risposta medica adeguata dai primi giorni di gennaio – “mettere la salute delle persone prima degli interessi economici”, e non gli interessi del “partito del PIL” come è avvenuto nei paesi occidentali tra cui il nostro.

In un sistema sanitario pubblico-privato, come quello cinese, in cui le conseguenze dell’epidemia della Sars nel 2003 hanno imposto alla dirigenza una notevole “marcia indietro” rispetto al processo di privatizzazione intrapreso precedentemente – considerate le inadeguatezze riscontrate – il PCC ha assicurato che “Le cure mediche per i pazienti con COVID-19 sarebbero state garantite per tutti e gratuite”.

Allo stesso tempo si è fatto tesoro delle esperienze pregresse sul campo maturate anche grazie al contributo che la Cina ha fornito contro l’Ebola in Africa che è stato il primo salto di qualità nell’articolazione della “via della seta della salute” .

La ricercatrice Chen Wei, è il simbolo di questo impegno su “due fronti” ed ora è in prima fila per la sperimentazione di un vaccino.

Il ruolo del PCC e delle organizzazioni di base ed in particolare dei militanti comunisti – che hanno pagato un caro prezzo in termini di perdite di vite umane – è stato fondamentale. Alla pianificazione “centralizzata” dell’intervento dello Stato si sono unite le capacità dei corpi sociali intermedi – tra cui i “comitati di quartiere”, juweihui in cinese – tali per cui “Il decentramento ha prodotto risposte creative”.

Solo gli improvvisati pennivendoli nostrani, potevano ignorare come la “mobilitazione popolare” sia uno dei tratti distintivi della società cinese contemporanea, dandoci una immagine che reitera gli stereotipi eurocentrici del “dispotismo asiatico” e amenità del genere.

Misure di contenimento “localizzate”, forniture adeguate per il personale sanitario e di medicine per i pazienti, l’assicurazione di cibo e carburante per gli abitanti nella zona del lockdown ed informazioni corrette e scientificamente comprovate sono stati i cardini d’intervento, i 4 punti riportati nell’articolo.

La “localizzazione” della zona del contagio messa in quarantena ha permesso la mobilitazione “nazionale” di personale sanitario e squadre epidemiologiche, incaricate della cura e del monitoraggio della malattia, tenendo conto che già dalla prima metà di gennaio era pronti i kit per i test.

“La velocità di produzione delle attrezzature mediche, specialmente dei dispositivi di protezione per gli operatori sanitari, è stata mozzafiato”, riportano gli autori, citando la crescita esponenziale della loro disponibilità dopo un primo momento in cui scarseggiavano.

Il ruolo delle imprese statali e delle cooperative è stato fondamentale, così come il monitoraggio del governo rispetto alla speculazione sui prezzi, ma anche il settore privato dell’economia ha dato la sua mano.

Al “sostegno finanziario alle piccole e medie imprese; in cambio, le aziende hanno cambiato le loro abitudini per garantire un ambiente di lavoro sicuro”.

Insomma tutto il contrario di ciò che avvenuto qui dove i prenditori chiagne e fotti, hanno generalmente pianto miseria, fatto pressioni per un ritorno alla “normalità” produttiva senza essere in grado di predisporre provvedimenti adeguati in termini di salute.

Un disastro annunciato, altro che ripresa!

Se confrontiamo la qualità della risposta cinese a quella presa della maggior parte dei Paesi Occidentali il paragone appare impietoso, soprattutto se prendiamo in considerazione la disastrosa gestione in Lombardia che come abbiamo più volte ribadito deve essere subito commissariata.

Quello che abbiamo di fronte è un vero e proprio “scontro di civiltà”, ma non nel senso descritto da chi ha coniato questo concetto, sarà per questo che la produzione seriale di “false informazioni” ed il bashing mediatico contro la Cina occupa gran parte dello sforzo dis-informativo dei media mainstream.

Buona Lettura

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La Cina è stata in grado di utilizzare le sue notevoli risorse – la sua cultura e le sue istituzioni socialiste – per spezzare rapidamente la catenadel contagio.

Il 31 marzo 2020, un gruppo di scienziati provenienti da tutto il mondo, dall’Università di Oxford alla Normal University di Pechino, ha pubblicato un importante studio su “Science”. Questo documento – “Indagine sulle misure di controllo della trasmissione durante i primi 50 giorni dell’epidemia COVID-19 in Cina” – sostiene che se il governo cinese non avesse imposto il blocco totale di Wuhan e non avesse dichiarato l’emergenza nazionale, ci sarebbero stati 744.000 casi confermati di COVID-19 in più, al di fuori di Wuhan. “Le misure di controllo adottate in Cina“, sostengono gli autori, “sono una lezione per gli altri paesi del mondo“.

Nel report di febbraio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo una visita in Cina, i membri della delegazione hanno scritto: “Di fronte a un virus finora sconosciuto, la Cina si è lanciata nello sforzo di contenimento della malattia forse più ambizioso, agile e aggressivo della storia“.

In questo articolo vogliamo descrivere nel dettaglio le misure adottate ai diversi livelli del governo cinese e dalle organizzazioni sociali, per arginare la diffusione del virus e della malattia in un momento in cui gli scienziati avevano appena iniziato a raccogliere dati, e di come hanno lavorato senza un vaccino e neppure un trattamento farmacologico adatto contro il COVID 19.

L’emergenza di un piano

Nei primi giorni di gennaio 2020, la Commissione per la salute pubblica (NHC) e il Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) hanno iniziato a stabilire i protocolli per gestire la diagnosi, il trattamento e i test di laboratorio per quella che allora era considerata una “polmonite virale di origine sconosciuta”.

Il NHC e i dipartimenti sanitari della provincia dell’Hubei hanno prodotto un manuale per il trattamento che è stato inviato a tutti i presidi sanitari della città di Wuhan il 4 gennaio; lo stesso giorno in tutta la città è stato condotto l’addestramento relativo al trattamento. Per il 7 gennaio il CDC aveva isolato il primo nuovo ceppo di coronavirus, e tre giorni dopo, il Wuhan Institute of Virology (Accademia cinese delle scienze) e altri iniziarono a sviluppare i kit per i test.

Entro la seconda settimana di gennaio si sapeva di più sulla natura del virus, e così iniziò a prendere forma un piano per contenerlo. Il 13 gennaio, il NHC incaricò le autorità della città di Wuhan di iniziare la misurazione della febbre nei porti e nelle stazioni e di ridurre gli assembramenti.

Il giorno successivo, il NHC ha organizzato una teleconferenza nazionale in cui ha avvisato tutta la Cina del virulento ceppo di coronavirus e ha esortato tutti a prepararsi per un’emergenza sanitaria.

Il 17 gennaio, l’NHC ha inviato sette squadre di ispezione nelle province cinesi per addestrare i funzionari della sanità pubblica sul virus e il 19 gennaio l’NHC ha distribuito reagenti agli acidi nucleici per i kit dei test a numerosi dipartimenti sanitari cinesi. Zhong Nanshan, ex presidente della Associazione medica cinese, ha guidato un gruppo di alto livello nella città di Wuhan per effettuare ispezioni fra il 18 e il 19 gennaio.

Nei giorni successivi, il NHC ha iniziato a capire come il virus veniva trasmesso e come poteva essere fermato. Tra il 15 gennaio e il 3 marzo, il NHC ha pubblicato sette edizioni delle sue linee guida. Analizzando queste versioni è palese un preciso sviluppo delle conoscenze prodotte sul virus e dei suoi piani di contenimento; i quali includevano nuovi metodi di trattamento, incluso l’uso della ribavirina e una combinazione di medicina cinese e medicina allopatica.

L’Amministrazione nazionale per la medicina tradizionale cinese riferirà alla fine che il 90 percento dei pazienti ha ricevuto una cura tratta dalla medicina tradizionale, che si è rivelata efficace nel 90 percento dei casi.

Il 22 gennaio, era diventato chiaro che il trasporto in entrata e in uscita da Wuhan doveva essere limitato. Quel giorno, l’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato ha invitato le persone a non andare a Wuhan, e il giorno successivo la città è stata sostanzialmente chiusa. La triste realtà del virus era ormai diventata chiara a tutti.

Gli atti del governo

Il 25 gennaio, il Partito Comunista Cinese (PCC) ha formato una task force del Comitato Centrale per la prevenzione e il controllo del COVID 19 nominando due responsabili: Li Keqiang e Wang Huning. Il presidente cinese Xi Jinping ha incaricato il gruppo di utilizzare le informazioni scientifiche più avanzate per formulare le politiche per contenere il virus e di utilizzare ogni risorsa con l’obbiettivo di mettere la salute delle persone prima degli interessi economici.

Entro il 27 gennaio, il vicepresidente del Consiglio di Stato Sun Chunlan aveva costituito una task force nella città di Wuhan per dare forma alla nuova risposta per il controllo del virus. Nel passare dei giorni, il governo e il Partito comunista hanno sviluppato un piano per combattere il virus, che può essere sintetizzato in quattro punti:

1. Prevenire la diffusione del virus mantenendo non solo un blocco nella provincia, ma riducendo al minimo il traffico anche all’interno della stessa. Ciò è stato reso complicato dai festeggiamenti del Capodanno cinese che era già iniziato; le famiglie si sarebbero incontrate e fatte visita e avrebbero frequentato i mercati (questo è il più grande spostamento umano a breve termine, quando quasi tutti gli 1,4 miliardi di cinesi si ritrovano nelle case gli uni con gli altri). Tutto questo doveva essere evitato. Le autorità locali avevano già iniziato a utilizzare le scoperte epidemiologiche più avanzate per tracciare e studiare la fonte delle infezioni e tracciare le vie di trasmissione. Tutto questo è stato essenziale per arrestare la diffusione del virus.

2. Distribuire risorse per gli operatori sanitari, inclusi i dispositivi di protezione per i lavoratori, i letti ospedalieri per pazienti e le attrezzature, nonché medicinali per il trattamento dei pazienti. Ciò includeva la costruzione di centri temporanei per il trattamento, compresi due ospedali completi (Huoshenshan Hospital e Leishenshan Hospital). L’aumento degli screening ha richiesto più kit per i test, che dovevano essere sviluppati e prodotti.

3. Garantire che durante il blocco della provincia, cibo e carburante fossero disponibili per i residenti.

4. Garantire la diffusione al pubblico di informazioni basate su fatti scientifici e non su voci non confermate. A tal fine, il gruppo ha indagato su tutte le azioni irresponsabili intraprese dalle autorità locali analizzando i report dei primi casi fino alla fine di gennaio.

Questi quattro punti hanno definito l’approccio adottato dal governo cinese e dalle autorità locali tra febbraio e marzo. È stato istituito un meccanismo congiunto di prevenzione e controllo sotto la guida del NHC, con ampia autorità per coordinare gli sforzi per spezzare la catena dell’infezione. La città di Wuhan e la provincia di Hubei sono rimaste sotto blocco virtuale per 76 giorni fino all’inizio di aprile.

Il 23 febbraio, il presidente Xi Jinping ha parlato con 170.000 quadri del Partito comunista, della regione e funzionari militari di ogni parte della Cina; “Questa è una crisi e anche un test importante“, ha detto Xi. Tutto l’impegno della Cina è nella lotta contro l’epidemia mettendo le persone al primo posto, e allo stesso tempo la Cina assicura che la sua agenda economica a lungo termine non venga danneggiata.

Comitati di quartiere

Un ruolo chiave, ma sottostimato, nella risposta al virus è stato rappresentato dall’azione pubblica che definisce la società cinese. Negli anni ’50, le organizzazioni civili urbane – o juweihui – si svilupparono come modo per i residenti nei quartieri di organizzare la loro reciproca sicurezza e il mutuo aiuto.

A Wuhan, mentre andava instaurandosi il blocco totale, i membri dei comitati di quartiere andavano porta a porta per provare la febbre, fornire cibo (in particolare agli anziani) e distribuire dispositivi medici.

In altre parti della Cina, i comitati di quartiere hanno istituito blocchi per misurare la temperatura all’ingresso dei quartieri e per monitorare le persone che entravano e uscivano; questa è la tutela della salute pubblica di base in modo decentralizzato. A partire dal 9 marzo, 53 persone che avevano lavorato in questi comitati hanno perso la vita, 49 di loro erano membri del Partito Comunista.

90 milioni di membri del Partito Comunista e i 4,6 milioni di organizzazioni di base del partito hanno contribuito a dare forma all’azione pubblica in tutto il paese, in prima linea nelle 650.000 comunità urbane e rurali della Cina.

Gli operatori sanitari che erano membri del partito si sono recati a Wuhan per far parte della risposta medica in prima linea. Altri membri del partito hanno lavorato nei loro comitati di quartiere o hanno sviluppato nuove piattaforme per rispondere al virus.

Il decentramento ha prodotto risposte creative. Nel villaggio di Tianxinqiao, nella città di Tiaoma, nel distretto di Yuhua, a Changsha, nella provincia di Hunan, Yang Zhiqiang, uno strillone del villaggio, ha usato 26 altoparlanti per esortare gli abitanti del villaggio a non spostarsi per il Capodanno e a non cenare insieme. A Nanning, nella regione autonoma del Guangxi Zhuang, la polizia ha usato i droni per trasmettere il suono delle trombe come promemoria per non violare l’ordine del lockdown.

A Chengdu, nella provincia del Sichuan, 440.000 cittadini hanno formato squadre per una serie di azioni pubbliche atte ad arginare la trasmissione del virus: hanno pubblicizzato le norme sanitarie, hanno controllato le temperature, hanno consegnato cibo e medicine e hanno trovato il modo di intrattenere il pubblico, che altrimenti sarebbe rimasto traumatizzato. I quadri del Partito Comunista hanno aperto la strada, riunendo aziende, gruppi sociali e volontari in una struttura di autogestione locale.

A Pechino, i residenti hanno sviluppato un’app che invia avvisi agli utenti registrati sul virus e crea un database che può essere utilizzato per tenere traccia del movimento del virus in città.

Intervento medico

Li Lanjuan fu una delle prime dottoresse ad entrare a Wuhan; ricorda che quando è arrivata lì, i test “erano difficili da ottenere” e la situazione delle forniture era “piuttosto negativa“. “Nel giro di pochi giorni, in città sono arrivati oltre 40.000 operatori sanitari ​​ e i pazienti con sintomi lievi sono stati curati in centri di trattamento temporaneo, mentre negli ospedali sono stati portati i malati più gravi.

Dispositivi di protezione individuale, test, ventilatori e altre forniture sono stati subito inviati nella città e negli ospedali. “Il tasso di letalità è stato notevolmente ridotto“, ha detto la dottoressa Li Lanjuan. “In soli due mesi, l’epidemia a Wuhan era sostanzialmente sotto controllo.”

Da ogni parte della Cina arrivarono 1.800 squadre epidemiologiche – con cinque persone in ciascuna squadra – per fare sondaggi alla popolazione. Wang Bo, capo di una delle squadre della provincia di Jilin, ha affermato che la sua squadra ha condotto delle indagini epidemiologiche porta a porta che sono state “faticose e pericolose”.

Yao Laishun, membro di una delle squadre di Jilin, ha affermato che nel giro di poche settimane la sua squadra ha effettuato sondaggi sull’infezione a 374 persone e rintracciato e monitorato 1.383 contatti stretti delle persone intervistate; questo è stato un lavoro essenziale per localizzare chi si era infettato e aveva bisogno di essere curato e chi, invece, doveva essere isolato perché non aveva ancora presentato sintomi o era risultato negativo.

Fino al 9 febbraio, le autorità sanitarie hanno controllato 4,2 milioni di famiglie (10,59 milioni di persone) a Wuhan; ciò significa che hanno ispezionato il 99 percento della popolazione, un lavoro enorme.

La velocità di produzione delle attrezzature mediche, specialmente dei dispositivi di protezione per gli operatori sanitari, è stata mozzafiato. Il 28 gennaio, la Cina produceva meno di 10.000 set di dispositivi di protezione individuale (DPI) al giorno ma, entro il 24 febbraio, la sua capacità produttiva superava i 200.000 al giorno.

Il 1° febbraio, il governo ha prodotto 773.000 kit per il test al giorno; entro il 25 febbraio produceva 1,7 milioni di kit al giorno; a partire dal 31 marzo si producevano al giorno 4,26 milioni di kit per i test. Sotto la direzione delle autorità gli impianti industriali sono stati convertiti per produrre dispositivi di protezione, ambulanze, ventilatori, monitor per gli elettrocardiografi, respiratori, macchine per analizzare il sangue, macchinari per la disinfezione dell’aria e macchine per l’emodialisi. Il governo si è concentrato nell’evitare che ci fossero mancanze di dispositivi medici.

Chen Wei, uno dei principali virologi cinesi che lavorò sull’epidemia di SARS del 2003 ed andò in Sierra Leone nel 2015 per sviluppare il primo vaccino contro l’Ebola al mondo, si è precipitato a Wuhan con la sua squadra. Insieme hanno istituito un laboratorio mobile per fare i test già dal 30 gennaio; il 16 marzo, la sua squadra ha prodotto il primo nuovo vaccino contro il coronavirus ed è stato sottoposto a studi clinici, Chen stesso è stato uno dei primi a essere vaccinato come parte dello studio.

Miglioramento

Chiudere una provincia con 60 milioni di abitanti per più di due mesi e chiudere praticamente un paese di 1,4 miliardi di abitanti non è facile. Comunque, l’impatto sociale ed economico sarebbe sempre stato enorme.

Ma il governo cinese – fin dalle sue prime decisioni – ha ribadito che il contraccolpo economico subito dal Paese non avrebbe limitato la risposta contro il virus; il benessere del popolo sarebbe stato prevalente nella formulazione di qualsiasi strategia politica.

Il 22 gennaio, prima della costituzione della task force, il governo aveva emesso una circolare in cui si stabiliva che le cure mediche per i pazienti con COVID 19 sarebbero state garantite per tutti e gratuite.

È stata quindi decisa una politica per il rimborso dell’assicurazione medica: le spese per i medicinali e i servizi medici necessari per il trattamento del COVID 19 sarebbero completamente coperte da un fondo assicurativo, nessun paziente avrebbe dovuto pagare nulla.

Durante il blocco, il governo ha creato un meccanismo per garantire costanti rifornimenti di cibo e carburante a prezzi normali. Le imprese statali come la China Oil and la Foodstuffs Corporation, la China Grain Reserves Group e la China National Salt Industry Group hanno aumentato le loro forniture di riso, farina, olio, carne e sale. La Federazione Cinese delle Cooperative di Approvvigionamento e di Marketing ha aiutato le imprese ad avere un canale diretto con le cooperative di agricoltori; altre organizzazioni, come la Camera di Commercio dell’Industria Agricola Cinese, si sono impegnate a mantenere i rifornimenti e la stabilità dei prezzi.

Il Ministero della Sicurezza Pubblica si è riunito il 3 febbraio per reprimere tentativi di speculazione sui prezzi e l’incetta di rifornimenti; fino all’8 aprile, in Cina gli organi giudiziari hanno indagato su 3.158 casi di reati connessi all’epidemia.

Lo Stato ha offerto sostegno finanziario alle piccole e medie imprese; in cambio, le aziende hanno cambiato le loro abitudini per garantire un ambiente di lavoro sicuro (la Guangzhou Lingnan Cable Company, ad esempio, ha provveduto a creare pause pranzo scaglionate, controllava la temperatura dei lavoratori, si è impegnata a disinfettare periodicamente l’area di lavoro, si è assicurata che i ventilatori funzionassero e ha fornito al personale dispositivi di protezione individuale quali: maschere, occhiali, crema per le mani e disinfettanti a base di alcol).

Lockdown

Uno studio su “The Lancet” di quattro epidemiologi di Hong Kong mostra che il blocco di Wuhan a fine gennaio ha impedito la diffusione dell’infezione fuori dalla provincia di Hubei; “le principali città, Pechino, Shanghai, Shenzhen e Wenzhou” scrivono, ”hanno visto un crollo del numero di infezioni entro due settimane dal blocco parziale”.

Tuttavia, secondo gli studiosi, a causa della virulenza di COVID 19 e dell’assenza di immunità da gregge, il virus potrebbe avere una seconda ondata. Questo preoccupa il governo cinese, che rimane vigile contro il coronavirus.

Nondimeno, luci di festa sono brillate in tutta Wuhan quando il blocco è stato tolto. Il personale medico e i volontari hanno tirato un sospiro di sollievo. La Cina è stata in grado di utilizzare le sue notevoli risorse – la sua cultura e le sue istituzioni socialiste – per spezzare rapidamente la catena del contagio.

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Utenze, storia di un paese che svende al privato i beni collettivi

Il 29 aprile del 1906, ad Aqualagna, piccolo paesino nel marchigiano, nasceva Enrico Mattei.

Partigiano del Cnlai durante la Resistenza, parlamentare Dc nel primo governo eletto della Repubblica, ma soprattutto imprenditore e dirigente pubblico italiano, fondatore del gruppo Eni nel 1953, quando assunse la proprietà dell’Agip e la trasformò, anziché liquidarla come richiesto dalla Commissione centrale per l’economia del Cln nell’immediato Dopoguerra, in una multinazionale del petrolio.

Morì in un incidente aereo solo 9 anni dopo, riconosciuto nel 2012 come vittima di un attentato da una sentenza al processo collegato alla scomparsa del giornalista De Mauro, dopo aver messo in crisi il dominio delle “Sette sorelle” nell’industria petrolifera.

Erano i tempi dei colossi di Stato, ossia della proprietà statuale dei settori strategici, come con l’Eni appunto, ma anche con l’Enel, privatizzate nella sbornia liberista degli anni '90. Quali sono le conseguenze oggi, in piena pandemia, di quel giro di privatizzaizioni?

Per quanto riguarda le utenze, lasciamo la parola al sindacato degli inquilini e abitanti Asia Usb e alla Rete giovanile nazionale Noi Restiamo, impegnati nella campagna per la richiesta del blocco pagamento degli affitti e delle utenze, specialmente per le nuove generazioni, in questo momento di crisi.

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Liberalizzazione delle utility, devastazione ambientale e l’urgenza di un cambio di rotta.

Queste settimane di emergenza sanitaria e quarantena obbligata hanno messo migliaia di persone, e in particolar modo i giovani, lavoratori e studenti che vivevano di lavoretti ed espedienti, nella condizione di totale o parziale impossibilità di pagare il canone di affitto, ma anche le utenze (acqua, luce e gas) accumulate.

Il governo Conte inizialmente si era speso in dichiarazioni sulla parziale sospensione delle bollette, poi cadute nel vuoto.

Ma perché, nemmeno in condizione di straordinarietà, il governo non prende decisioni precise sulle utenze che non possiamo permetterci di pagare? La risposta è semplice: non ne ha più il controllo dopo decenni di liberalizzazioni nei settori strategici, compreso quello delle utility.

Le grandi aziende multiutility da anni infatti speculano su beni che dovrebbero essere pubblici garantendosi utili d’esercizio e dividendi notevoli, sostenuti anche dal continuo rincaro delle bollette, e la collettività, progressivamente, ha perso il potere di tutelarsi, divenendo semplice cliente.

Il controllo pubblico su settori come quello dell’energia avrebbe concesso allo Stato quantomeno la possibilità di bloccare i pagamenti in una situazione sociale esplosiva come quella attuale.

Il mercato del gas è stato aperto in Italia nel 2003, quello dell’energia elettrica nel 2007, ma si è optato per un regime di “maggior tutela” fino al 2022, anno di passaggio ufficiale alla piena concorrenza, cioè alla libertà estrema del mercato di regolarsi in questo settore.

Dagli anni ‘90 in poi, infatti, il progetto di integrazione europea ha costretto il nostro paese a svendere gran parte delle aziende statali, comprese quelle strategiche: tra le aziende privatizzata troviamo anche Enel e Eni, di fronte alle quali il governo oggi non dice nulla, anteponendo alla priorità sociale di garantire una vita dignitosa il loro profitto anche nel disastro sanitario mondiale.

Va inoltre ricordato che sono le stesse grandi aziende da tempo riconosciute e additate tra le principali responsabili della crisi climatica e ambientale del Pianeta. Fatturano miliardi e producono devastazione su larga scala dell’ambiente, della salute e dei nostri territori.

Non pagare le bollette e chiedere che siano annullati i pagamenti è una necessità per tutte le fasce popolari.

Nazionalizzare i settori strategici, tra cui quelli dell’energia, e ridare alla collettività il potere di decidere e pianificare il proprio domani un’urgenza che si pone nel futuro prossimo.

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Dati Istat sull’occupazione a marzo, è boom di “inattivi”

Questa mattina l’Istat ha reso noti i dati sull’occupazione relativa al mese di marzo. A un primo sguardo sembrerebbero quasi buone notizie, e già immaginiamo la retorica con cui proveranno a essere divulgati, tronfia del “paese che tiene” (qui una primissima prova) e del “andrà tutto bene” necessario alla Confindustria per costruire le condizioni di una riapertura rapida.

Mese su mese infatti l’occupazione cala solo dello 0,1%, pari a 27mila unità, mentre diminuisce anche il tasso di disoccupazione, sceso al 8,4% (-0,9% rispetto a febbraio) e al 28% (-1,2%) tra i giovani.

Tuttavia, il boom si registra nella componente degli inattivi, ossia quegli individui in età da lavoro che non effettuano nessuna ricerca di impiego perché, come vengono plasticamente definiti, “scoraggiati” circa il possibile esito positivo della ricerca. Questi aumentano di ben 301mila unità, +2,3% su febbraio, il triplo tra i maschi rispetto alle femmine, portando il tasso di inattività al 35,7%.

Una precisazione prima di analizzare brevemente questi numeri nel contesto attuale: l’Istat scrive che «l’indagine ha risentito degli ostacoli che l’emergenza sanitaria in corso pone alla raccolta dei dati di base», e nonostante siano state «sviluppate azioni correttive che ne hanno contrastato gli effetti statistici negativi (…), la ridotta numerosità campionaria non ha tuttavia consentito di diffondere i dati con il consueto livello di disaggregazione», riservandosi in seguito la possibilità di «revisioni sulla base di ulteriori analisi».

Fatta questa dovuta premessa, torniamo ai dati disponibili.

Innanzitutto c’è da ricordare che il paese si presentava a questa crisi con uno dei mercati del lavoro meno efficienti della regione, facendo registrare il secondo peggior risultato in tutta l’Unione europea davanti solo alla Grecia e ben distante dalla media dell’area.

A febbraio infatti aveva un impiego solo il 58,9% della popolazione in età da lavoro (media Ue ben oltre il 70%), e questo significa che più di 4 persone su 10 nel paese non aveva, e continua a non avere, accesso a una fonte di reddito da lavoro.

Un’enormità, se pensiamo invece alla tranquillità con cui si sciorinano di solito i dati sulla disoccupazione, apparentemente oggi in calo al 8,4%.

In realtà, per come sono presentate, le statistiche pongono un velo sulla situazione concreta del paese, dove quel poco lavoro che c’è (circa 23,3 milioni di posizioni registrate a inizio anno) è continuamente meno stabile e dunque più atipico, con tanti contratti temporanei (la quasi totalità delle nuove assunzioni nel 2019 cadeva in questo campo), a tempo ridotto e in generale meno tutelato (soprattutto grazie al “Jobs act” targato Pd).

Come scritto ieri da Alessandro Perri, in questo contesto di fragilità un ruolo per il momento decisivo lo sta giocando il blocco dei licenziamenti, ma il dato da tenere a mente è che al 28 aprile ben 7,8 milioni di lavoratori e lavoratrici beneficiano della Cassa integrazione ordinaria e in deroga (qui solo per 30mila unità).

Questo è il numero delle persone che con l’inizio della “fase 2” non avranno la sicurezza, almeno in parte, di mantenere il posto di lavoro – sono infatti considerate occupate perché gli ammortizzatori sociali compensano il fermo-attività delle rispettive aziende, ma quante di queste avranno la forza di ripartire? – con tutto quello che ne consegue in termini di sicurezza sociale.

A loro vanno aggiunte le 13,6 milioni di persone in età da lavoro che hanno perso le speranze di trovare un’occupazione, più i 2,1 milioni che un impiego, pur cercandolo, non riescono a trovarlo. Il tutto, chiaramente, al netto del sommerso e del lavoro nero, una piaga durissima per il paese.

In questo contesto, non regge neanche la storia dei “fannulloni che non vogliono lavorare”. Infatti a febbraio 2020 un rapporto di Unioncamere recensiva le nuove posizione aperte (che non coincidono per forza con eventuali nuovi occupati) per un numero pari a 320mila, di cui il 31% sarebbero state di “difficile reperimento”.

Questo significa che prima della diffusione della pandemia, il mismatch tra le imprese in cerca di dipendenti e il mercato del lavoro ammontava a circa 100mila posizioni (di nuovo, non di occupati). Un’inezia, rispetto al totale dei non-occupati presenti sul territorio.

Eccola dunque la dimensione della bomba sociale pronta a esplodere in un contesto di recessione economica certa, anche se non si sa ancora quanto profonda e duratura, dove inoltre serpeggia il fantasma di una nuova ondata di contagi, soprattutto se il governo continuerà a fare i voleri di Confindustria e Confcommercio.

Se c’è qualcosa che tiene in queste settimane è il tanto vituperato (dai liberisti di tutte le risme, neo-, ordo-, ecc.) ruolo dello Stato nel momento del bisogno, nonostante le mannaie che si sono abbattute sul welfare state nell’ultimo trentennio.

Ma anche qui, il dibattito in corso nell’Ue non fa ben sperare, visti i pochi sostegni e le trappole di condizionalità a cui l’esecutivo sta cedendo pur di non rompere il vincolo di subalternità verso gli altri Stati membri del continente.

Se aggiungiamo che tra giugno e settembre terminerà anche il blocco degli sfratti – questo in realtà gestito a livello regionale, a proposito di decomposizione del ruolo dello Stato – il quadro è fosco abbastanza da rigettare ogni mitigazione delle incertezze a cui si appresta il paese per voce di qualche freddo dato, magari preso singolarmente e decontestualizzato.

Sì, l’occupazione a marzo rispetto al mese precedente decresce solo di 0,1 punti percentuali.

Alla luce di quanto scritto, vi sembra ancora una buona notizia?

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Pd e destra compatti a difesa degli F35. Stoppata interrogazione del M5S

Prima i parlamentari del Pd, poi il governo ed infine anche l’opposizione della destra, hanno nuovamente fatto muro contro una interrogazione parlamentare del deputato Gianluca Ferrara del M5S (commissione esteri) che chiedeva di sospendere per un anno il programma di acquisto degli aerei militari F-35. Si conferma così come sulle spese militari agiscano le stesse convergenze di quello che abbiamo definito il Partito Trasversale del Pil, un partito in cui quelli che litigano di mattina si rivelano pienamente d’accordo il pomeriggio.

L’interrogazione di Ferrara chiedeva di sospendere il programma per un anno e di rivalutarlo nel suo complesso così da destinare più risorse alla sanità. E, insieme a quella del deputato, sul testo compaiono le firme di una cinquantina di deputati del M5S, quasi la metà dell’intero gruppo parlamentare alla Camera.

La proposta di destinare ad altri capitoli della spesa sociale i fondi previsti per l’acquisto degli F-35 già in autunno aveva visto la levata di scudi sia del Ministro della Difesa Guerrini (PD) che della Lega, la quale a novembre aveva presentato una mozione per impegnare il governo a confermare gli impegni di spesa e quelli dell’alleanza con il complesso militare-industriale Usa.

Ma la mozione della Lega era stata bocciata, mentre veniva approvata una mozione di maggioranza che rinviava la questione, cassava ogni richiamo alla “rimodulazione” o “rinegoziazione” degli impegni all’acquisto degli F-35 e manteneva sostanzialmente le cose come stavano.

Un particolare significativo sono stati i voti dell’opposizione di destra (Lega, Fdi, FI) a favore del punto della mozione di maggioranza di valorizzare gli investimenti sugli F-35 nello stabilimento di Cameri e di “allargare ulteriormente gli ambiti di cooperazione internazionale nel campo aerospaziale e della difesa, al fine di massimizzare i ritorni economici, occupazionali e tecnologici del distretto”.

L’interrogazione presentata da Ferrara e dai deputati M5S ha riposto la questione in piena emergenza Covid-19 chiedendo di spostare i fondi per gli F-35 al capitolo della sanità “alla luce dell’evidente esigenza, nazionale e globale, di ridefinire le priorità della spesa pubblica, privilegiando le spese nei settori sanitari”.

L’interrogazione propone sostanzialmente una moratoria di dodici mesi sul programma F-35, mentre in un altro punto chiede al Ministero della Difesa di “valutare l’opportunità di rinegoziare e ridimensionare il programma”, valutando “programmi aeronautici alternativi economicamente più sostenibili e rispondenti alle necessità delle nostre forze aeree e agli interessi della nostra industria della difesa”.

Il Pd ha reagito subito e male a questa interrogazione. “Tutte le decisioni delicate come quelle che riguardano impegni assunti a livello internazionale vanno discusse all’interno della maggioranza e non attraverso iniziative unilaterali” ha tuonato il senatore Pd Alfieri. Più esplicito ancora un altro parlamentare del Pd, Enrico Borghi, il quale ci ha tenuto a ribadire che: “Da parte nostra non ci sarà nessun ondeggiamento; il Pd è un partito che sostiene l’atlantismo e rispetta gli accordi internazionali”.

Insomma gli F-35 e l’ingente programma di spesa per acquistarli, circa 14 miliardi di euro, continuano a rimanere un tabù, anche in tempi di emergenza sanitaria e sociale come quelli in cui siamo immersi. Pd e destra scattano come un sol uomo quando c’è da sostenere le spese militari e l’atlantismo. Sono come i ladri di Pisa.

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Quei farlocchi del “partito del Pil” lumbard

Questo è il manifesto delirante che in questi giorni circola per la Lombardia con tanto di logo regionale. Si tratta della stessa regione nella quale a inizio marzo, nonostante l’impennata esponenziale dei casi, non è stata istituita la zona rossa a Nembro e ad Alzano Lombardo. Si tratta della stessa regione nella quale circolavano slogan del tipo “Milano non si ferma” e “Bergamo non si ferma”; della stessa regione nella quale gli imprenditori continuavano a macinare profitti sulla pelle dei lavoratori e producevano un video “rassicurante” (per loro ovviamente) dal titolo «Bergamo is running».

Tutto questo avveniva mentre gli ospedali erano intasati di malati Covid, i contagi crescevano esponenzialmente così come i morti. Solo qualche giorno dopo, la Regione Lombardia avrebbe dato disposizione alle RSA di accettare anche malati di coronavirus con i risultati che tutti ormai conosciamo e che sono ora al vaglio degli inquirenti.

Insomma, l’amministrazione regionale che più di ogni altra si è dimostrata incapace di gestire la pandemia, che ha dimostrato indifferenza verso la sorte di anziani e lavoratori, che ha contribuito a rendere l’epidemia ingovernabile grazie all’accondiscendenza verso gli imprenditori e a massicce politiche di privatizzazione del sistema sanitario, ora dice a tutti coloro che temono per la propria vita e la propria salute che sono dei paranoici.

Questo manifesto è l’ennesima conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, del fatto che la Regione Lombardia va commissariata subito.

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Il “nuovo Mes” prevede sempre la “sorveglianza rafforzata”

Il bello della verità è che “i fatti hanno la testa dura”, e dunque alla fine disperde le nebbie sparse dalla “comunicazione”.

La vicenda del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) ha attraversato il dibattito pubblico per diverse settimane, con il solito indegno codazzo di “rassicurazioni” disinformative seminate dagli “europeisti” e il berciare scomposto della destra in cerca di visibilità a tutti i costi.

Le posizioni sono note: dalle corazzate europeiste (Repubblica, Corriere, Sole24Ore, La7, ecc) viene il coro “non ci sono condizionalità come quelle che hanno distrutto la Grecia”, “perché non bisognerebbe prendere quei soldi per finanziare la sanità e combattere la pandemia?”, fino a trattare la questione come “un pregiudizio ideologico”.

Da destra si grida alla “resa” e al “tradimento”, senza neanche provare ad entrare nel merito.

Ora esce fuori la lettera che il direttore del Mes, Klaus Regling, ha inviato a tutti i presidenti del Consiglio dell’Eurozona per chiarire le nuove condizioni – il Term Sheet – del “contratto” che consentono di accedere ai finanziamenti.

Queste modifiche sono state preventivamente contrattate nell’Eurogruppo e poi nella prima riunione del Consiglio Europeo (capi di Stato e di governo), a partire dalla principale “condizionalità” prevista: utilizzare i soldi unicamente per la sanità e le spese collegate.

Un curiosità: l’Italia potrebbe chiedere ed avere rapidamente circa 36 miliardi, ovvero l’ammontare dei tagli alla sanità degli ultimi dieci anni, apportati per ridurre la spesa pubblica entro i limiti di anno in anno imposti della Commissione Europea.

In pratica, se i governo italiani non avessero fatto quei tagli oggi non sarebbe necessario chiedere un prestito per rimettere la sanità in condizioni di reggere l’urto del coronavirus (soprattutto della “seconda ondata” che arriverà come conseguenza della “ripartenza”). Ammazza che figata, ‘sta Ue...

Per avere quei soldi, comunque, il governo italiano – come tutti gli altri – dovrà firmare il Pandemic Response Plan, ossia un piano di intervento uguale per tutti i Paesi. Non il famigerato “Memorandum” del 2015, ma un impegno formale ad utilizzare il prestito secondo le indicazioni della Commissione e dello stesso Mes.

Beh, si potrebbe dire, “è normale che se chiedi 36 miliardi qualche minimo impegno lo devi pur prendere”. È logico, anche se poi uno guarda alla smodata quantità di moneta che la Bce sta riversando nel mercato finanziario tramite le banche private (in pratica comprando di tutto, anche spazzatura senza valore) ed è costretto a chiedersi come funziona questo strano sistema per cui alle banche non si chiede nulla e dagli Stati si pretendono impegni formali pluriennali “in garanzia”...

Lo stesso Mes, del resto, quei soldi non li ha (possiede “garanzie” dai singoli Stati, fino a 410 miliardi complessivamente) ma li deve trovare “sul mercato”. La convenienza teorica starebbe nel fatto che il Mes è quotato con la “tripla A” – la massima valutazione per le agenzie di rating – proprio ieri Fitch ha declassato i titoli italiani a BBB, un passo da “spazzatura” – e quindi si potrebbero avere con tasso addirittura leggermente negativo.

Tutto bene, dunque?

Neanche per sogno. In chiusura di lettera Klaus Regling – il “falco” tedesco considerato il vero “padre dell’euro” – infila la frase-chiave: “La Commissione Europea chiarirà monitoraggio e sorveglianza in accordo con le regole del Two Pack” (un trattato europeo relativamente recente che regola ulteriormente le modalità di stesura della “legge di stabilità” di ogni Paese dell’Unione).

Non è una cattiveria, ma una delle regole fondamentali del Mes, il cui Trattato istitutivo prevede che tutti i Paesi richiedenti l’accesso al prestito siano sottoposti a “sorveglianza rafforzata” da parte della Commissione e della Bce. Manca solo il Fmi, altrimenti sarebbe riapparso il fantasma della Troika...

La “sorveglianza rafforzata” significa un più stringente controllo sulla spesa pubblica degli Stati che, in determinate condizioni, può tranquillamente portare a un “doloroso programma di aggiustamento macroeconomico”.

Insomma, a ricominciare con politiche di austerità assassine. L’unico “miglioramento” rispetto alla vecchia versione del Mes è che in questo caso non scatterebbe in automatico la richiesta di “aggiustamento”, ma verrebbe invece affrontata secondo i tempi decisi nella contrattazione tra gli Stati (dove valgono comunque i rapporti di forza, mica il bon ton solidale).

L’unico punto su cui Giuseppe Conte e Gualtieri proveranno ancor a trattare, il 6 maggio, è questo: evitare che ci siano “condizionalità aggiuntive” oltre al vincolo sulla spesa sanitaria.

Ma la “sorveglianza rafforzata” è costitutiva del Trattato sul Mes. E non si può rimuovere con un gesto di fastidio, né con una “narrazione tranquillizzante”.

Chi ricorre al Mes si mette un cappio intorno al collo. La decisione su modi e tempi della stretta, di lì in poi, è in mano ad altri.

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Il blackout pedagogico globale

Presentiamo la traduzione di una video-intervista al venezuelano Luis Bonilla-Molina, studioso di pedagogia e tematiche relative alla scuola e alla formazione in generale.

Luis Bonilla-Molina ha iniziato a insegnare a sedici anni come educatore popolare. Ha lavorato nell’educazione dei giovani con problemi comportamentali (13 anni), nell’istruzione di base, nelle scuole superiori e tecniche (25 anni) e come insegnante universitario (quasi 20 anni).

È stato un delegato sindacale e presidente del sindacato degli insegnanti, e ha ricoperto diversi ruoli nell’amministrazione in campo educativo, passando attraverso tutti i livelli, fino a quelli nazionale e internazionale: vice ministro dell’istruzione universitaria, coordinatore di consiglieri presso l’ufficio presidenziale e presidente del Consiglio IESALC UNESCO (che si occupa di istruzione superiore).

Ha un sito personale ricco di interventi, dove, tra l’altro, è possibile leggere informazioni più approfondite sul suo percorso di studioso e militante.

La video intervista di cui qui proponiamo la traduzione è stata pubblicata nel 2017 sul canale youtube del portale di pedagogia “Otras Voces En Educación”. In questo articolo l’autore presenta sinteticamente un concetto da lui coniato, quello di “blackout pedagogico globale” (Apagón Pedagógico Global), ampiamente trattato nel libro Apagón Pedagógico Global. Las instituciones educativa en la cuarta revolución industriale y la era de la singularidad (Editorial Global, 2018), messo a disposizione dall’autore sul sito del Centro de Investigación Clacso-RIUS (clicca qui).

Tale concetto ricalca il concetto di apagón cultural, che è stato coniato negli anni ‘70 per indicare la condizione della vita culturale sotto la dittatura di Pinochet, durante la quale fu soppressa ogni libertà di espressione e opposizione culturale al regime. In sintesi l’Apagón Pedagógico Global si articola in 5 punti: frammentazione pedagogica; svalorizzazione istituzionale e sociale della figura del docente; svalorizzazione della scuola; riduzione dell’insegnamento e della valutazione scolastica a due aree cognitive (logico-matematica e letto-scrittura); riducendo il contenuto dell’apprendimento alla scienza e limitando la pratica all’uso strumentale delle tecnologie, con il corollario che tutti gli altri apprendimenti sono di secondo ordine.

Luis Bonilla-Molina sta svolgendo da tempo un lavoro militante che lo ha portato a coniugare impegno politico e impegno teorico, ed è una delle figure più interessanti della pedagogia critica, ossia di quel vasto ambito di confronto teorico e politico che attraversa tutta l’America Latina e anche il mondo anglosassone, cercando di combattere l’ultradecennale attacco del neoliberismo alla scuola.

Crediamo che quanto esposto sinteticamente in questa video-intervista abbia un’importanza rilevante per diverse ragioni. Tra le tante, ne vogliamo elencare solo alcune:

1) inquadra storicamente i cambiamenti epocali del mondo della formazione all’interno di una lunga serie di trasformazioni che stanno modificando le forme della socialità;

2) ci aiuta a leggere il contesto in cui si inserisce l’introduzione della didattica a distanza;

3) ci mostra come i veri soggetti della governance mondiale della scuola sono gli organismi internazionali come OCSE, FMI, Banca Mondiale (le cui indicazioni sono alla base anche dell’attuale gestione dei governi nazionali dell’emergenza sanitaria);

4) il concetto di “depedagogizzazione” (da lui coniato) aiuta a leggere bene il percorso storico di distruzione di una visione unitaria dei problemi complessivi sull’educazione.

La pedagogia non è una scelta metodologica individuale di un insegnante, ma è un ragionamento complessivo che mette insieme il rapporto tra individuo e società, tra società e natura, e tra società e finalità complessive. Luis Bonilla-Molina intende portare il ragionamento e la critica pedagogica allo stesso livello a cui, in Italia, lo aveva portato Antonio Gramsci. Non è un caso che Gramsci oggi sia una delle figure di riferimento della pedagogia critica in America Latina e nel mondo.

Ringraziamo l’autore per averci dato il consenso alla pubblicazione.

*****

Contesto economico

Il blackout pedagogico globale ha una cornice di ordine economico. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la maggior parte dei paesi altamente sviluppati erano distrutti. Per riattivare la macchina capitalista si decise di ampliare il numero dei consumatori. Da qui tutta la questione della massificazione del sistema scolastico, però si dovevano fare imponenti investimenti in infrastrutture: autostrade, strade, porti, aeroporti per far arrivare le merci il più vicino possibile ai centri di consumo. Questo modello funzionò più o meno fino agli anni ‘70.

Negli anni ‘70 arriva la crisi di sovrapproduzione e nel capitalismo si produce una modificazione immediata: si crea il concetto di rapida obsolescenza delle merci, affinché quanto comprato si distrugga dopo 5, 6, 7 o 10 anni al massimo.

È in questo momento che nasce il concetto di centro commerciale, rappresentato magistralmente da Saramago nel romanzo La caverna. Con esso si distrugge il piccolo commercio e si attua la ricollocazione del consumo nei centri commerciali.

Questo modello funziona più o meno bene fino al termine degli anni ‘90 e l’inizio del XXI secolo. Oggi la tendenza del nuovo modello di consumo è quello del consumo online. Tutto è stato progettato per non andare più nei centri commerciali e per essere ricevuto direttamente a casa.

In una prima fase di questo processo si ha l’eliminazione dei punti vendita. McDonald’s negli Stati Uniti ha annunciato che sostituirà tutti i centri di vendita con dei robot. Ma questo è solo l’inizio degli sforzi tecnologici per chiudere il consumo nei centri commerciali e promuovere il consumo online. Il consumo online è una riconfigurazione della relazione merce-consumo.

Contesto politico

Un’altra cornice del blackout pedagogico globale è di ordine politico. C’è stato un profondo cambiamento nel modello di partecipazione politica. Per la generazione precedente al 1985 la sede di partito era il luogo naturale dello sviluppo delle relazioni politiche. Ma non era solo un fatto ideologico, era il luogo dove ci si incontrava, dove si parlava e si conosceva il mondo presente e si immaginava quello futuro.

Con lo sviluppo tecnologico che inizia nel 1985, la rivoluzione di internet degli anni ‘90 e la connettività della rete social tutto ciò sta cambiando profondamente. Oggi non c’è nessuno che aspira a diventare presidente, primo ministro, sindaco, dirigente di un sindacato la cui preoccupazione primaria sia aprire una sede di partito.

La prima decisione è crearsi un account twitter, instagram, facebook, cioè promuovere virtualmente la propria candidatura. Tutto ciò è legato al modello di partecipazione civile. Ogni giorno i cittadini vogliono conoscere la realtà politica sui social, e le consultazioni si moltiplicano su chi può essere un candidato papabile o quale deve essere la decisione politica migliore su un determinato argomento, il tutto via social.

Podemos, che è il partito più innovativo nella politica degli ultimi anni, ha scelto il suo comitato esecutivo non nelle sedi di partito, ma tramite la rete. Questo è un fenomeno che interessa la destra e la sinistra e sta riconfigurando la partecipazione politica, che non avviene più nelle sedi locali di partito, o nelle strade o piazze, ma a casa. Siamo davanti alla ricollocazione dello spazio della politica in ambito domestico.

Contesto sociale

Il blackout pedagogico globale ha anche una radice di ordine sociale. Per le generazioni precedenti al 1985 la strada era uno spazio di socializzazione. La prima cosa che dovevano imparare i nostri genitori era chiudere per bene la porta di casa, per evitare che i piccoli scappassero a incontrare gli amici, a giocare con la trottola, con gli aquiloni, con i colori o con qualunque altra cosa.

Oggi ai bambini si può lasciare aperta la porta, perchè difficilmente usciranno. È difficile convincerli a farsi accompagnare a un centro commerciale o a fare una passeggiata per strada. A ogni nostro invito a uscire l’unica risposta che riceviamo è di lasciar loro la casa connessa a internet e con i videogiochi.

Avviene dunque una ricollocazione anche dello spazio di socializzazione. Dalla generazione dell’85 in poi la casa è il nuovo spazio di socializzazione e la rete virtuale sta avendo un forte impatto sull’immaginario e sul modo di prefigurare la società del XXI secolo.

La tecnologia

Il blackout pedagogico globale ha un riferimento particolare nella tecnologia. Non sono nemico della tecnologia. Sono profondamente convinto che la pedagogia del XXI secolo deve abbracciare lo sviluppo tecnologico, ma la tecnologia del XXI secolo non ama la pedagogia. Per essere più concreto: tutte le tecnologie che si sono sviluppate negli ultimi decenni hanno avuto come fine quello di rilocalizzare adulti e bambini dentro le sicure mura domestiche.

Si sta promuovendo una sorta di stato virtuale, conformandoci tutti alla tranquillità della casa dove viviamo: tutti oggi possiamo partecipare, scrivere una mail, giocare da casa. Anche la sicurezza è vissuta in maniera tecnologica, con le telecamere istallate nelle nostre case, e con tutte le apparecchiature con cui possiamo governare la casa. Quindi la casa è il luogo dove vivere, dove troviamo sicurezza e dove possiamo incontrarci, ma virtualmente.

Depedagogizzazione

Un capitolo speciale del blackout pedagogico globale è la “depedagogizzazione”. Come si manifesta? Per il capitalismo erano pericolose le pedagogie come interpretazione dei fatti educativi nella loro complessità che mettesse l’aula scolastica in relazione con la comunità, con l’ambiente circostante, col progetto paese, col contesto geopolitico internazionale. E inizia così un’operazione di smembramento della pedagogia in ciò che ho chiamato “mode pedagogiche”.

Non dico che negli anni ‘50 non si dovesse parlare di pedagogia, ma il centro della discussione stava nella didattica e bisognava parlare solo di questa, non di pedagogia. Negli anni ‘60 si disse nuovamente che non bisognava parlare di pedagogia ma di supervisione della formazione, di direttori di formazione, di pianificazione.

Negli anni ‘70 continuò l’attacco alla pedagogia, divenne una brutta parola e fu sostituita dalla valutazione, che divenne il centro del fatto educativo. Iniziò così il dibattito tra valutazione quantitativa e valutazione qualitativa.

Negli anni ‘80 fece la sua comparsa la moda pedagogica più duratura, quella del curricolo. Si parlò prima del curricolo per obiettivi, il curricolo per contenuti, poi di curricolo interdisciplinare, poi di curricolo totale, globalizzato e infine di curricolo per competenze.

Nel 2008 infine è arrivata la moda della qualità educativa e dei sistemi di valutazioni, che non ha niente di pedagogico. La pedagogia è qualcosa di superato per gli organismi internazionali, qualcosa da seppellire, perché si è frammentata la visione complessiva del fatto pedagogico.

Oggi la sfida per insegnanti ed educatori, per le università che formano i futuri docenti, dei centri di formazione degli insegnanti è tornare a collocare la pedagogia al centro della trasformazione dei sistemi educativi. Mai come oggi la pedagogia torna al centro della trasformazione dell’educazione in diritto umano fondamentale.

La svalorizzazione del docente

Il blackout pedagogico pone un’attenzione particolare alla professione docente. Gli organismi economici internazionali stanno facendo uno sforzo enorme per destrutturare la figura del docente. Da qualche decennio a questa parte con diverse iniziative a partire dagli anni ‘70 si è iniziato a dire che non era corretto chiamarli maestri, che era arrogante, che nessuno era professore e che la parola corretta era facilitatore, nonostante ci fossero istituzioni che formavano maestri e professori e che ci fossero titoli riconosciuti per questa professione. In realtà quello che si voleva fare era tagliare le risorse alla formazione dei docenti e minare il loro orgoglio.

A questo si aggiunse un falso slogan secondo il quale nessuno insegna niente e nessuno apprende nulla con gli insegnanti, mentre come diceva Paulo Freire nessuno apprende da solo, ma tutti apprendiamo insieme e costruiamo collettivamente la conoscenza.

Questo ci dice molto della dialettica della relazione di apprendimento e potenzia la funzione del maestro. Ma nel XXI secolo lo sviluppo delle tecnologia mette a rischio il ruolo della funzione docente. In alcuni sistemi educativi si abilita all’insegnamento qualunque figura professionale.

Negli Stati Uniti sta accadendo qualcosa di terribile, la segretaria dell’istruzione Betsy De Vos sostiene che bisogna spostare l’insegnamento a casa e che gli attuali sistemi scolastici non hanno più ragione di esistere con l’attuale sviluppo tecnologico, perché saranno sufficienti dei buoni video per fare apprendere i ragazzi, come se il lavoro dell’insegnante consistesse solo nel trasferimento di conoscenze e non, più in generale, educare a vivere.

I docenti del XXI secolo devono affrontare questa sfida producendo scienza e lavoro educativo ma attualizzandoli. Devono impadronirsi dello sviluppo tecnologico, sì, ma per resistere a questa nuova offensiva del capitale contro la professione dell’insegnante.

La destrutturazione della scuola

Per il blackout pedagogico globale la scuola è uno spazio da destrutturare. La scuola, così come la conosciamo noi con quattro pareti, i banchi, la lavagna e un insegnante, per il capitalismo è un costo eccessivo al quale vuole porre rimedio con la ricollocazione a casa dell’azione educativa.

La Banca interamericana di Sviluppo nel 2014 sosteneva che occorresse invertire la piramide dell’apprendimento collocando la formazione a casa ricorrendo a video tutorial. Io sono profondamente convinto che una generazione che non ha spazi di incontro (piazze, strade, scuole) è una generazione che può arrivare a costruire una non-società.

Perché possa esistere una società è fondamentale l’incontro tra le persone. E in tal senso la scuola gioca un ruolo insostituibile, ma la scuola del XXI secolo dovrebbe insegnare ad apprendere insieme, a lavorare insieme e a vivere insieme.

Educazione e trasformazione sociale

Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di incontrarmi con insegnanti di molti paesi: Messico, Nicaragua, Honduras, El Salvador, Brasile, Argentina, Perù, Venezuela, Colombia, e in tutti ho trovato la profonda speranza nella capacità di trasformare il mondo e la società per mezzo dell’educazione.

L’educazione come diritto umano fondamentale sta al centro della scommessa per costruire un altro mondo possibile, più solidale, più umano, più capace di rapportarsi in modo armonico con la natura e con gli altri esseri umani.

Per questo è fondamentale denunciare e combattere l’intento degli organismi economici internazionali di creare un blackout pedagogico globale.

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Questo è il momento di costruire l’alternativa

di David Harvey

La misura della ricchezza non è il lavoro ma la quantità di tempo disponibile al di fuori di esso. La lezione di Marx, dice David Harvey, ci aiuta a comprendere come qui e ora si stiano già tracciando le idee e le pratiche di un mondo nuovo

Scrivo nel mezzo della crisi del Coronavirus a New York City. È un momento complicato per sapere come reagire esattamente di fronte a ciò che sta accadendo. Normalmente in una situazione di questo tipo, noi anticapitalisti saremmo fuori per le strade, a manifestare e mobilitarci.

Invece, mi trovo in una posizione frustrante di isolamento personale, in una fase in cui ci sarebbe bisogno di forme di azione collettiva. Ma come sintetizzò con successo Karl Marx, non siamo noi a scegliere le circostanze in cui fare la storia. Quindi dobbiamo capire come sfruttare al meglio le opportunità a nostra disposizione.

Mi trovo in circostanze relativamente privilegiate. Posso continuare a lavorare, ma da casa. Non ho perso il lavoro e vengo comunque pagato. Tutto ciò che devo fare è nascondermi dal virus.

La mia età e il mio genere mi collocano nella categoria vulnerabile, quindi ogni contatto è sconsigliato. Ciò mi dà un sacco di tempo per riflettere e scrivere, tra una sessione di Zoom e un’altra. Tuttavia, invece di soffermarmi sulle particolarità della situazione qui a New York, ho pensato di offrire alcune riflessioni su possibili alternative e chiedere: in una circostanza del genere cosa pensa un anticapitalista?

Elementi della nuova società

Comincerei con una nota a margine di Marx su ciò che accadde nel movimento rivoluzionario a seguito del fallimento della Comune di Parigi del 1871. Marx scrive:
La classe operaia non si aspettava miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre par décret du peuple. Sa che per mandare a effetto la propria emancipazione, e con essa quella forma più alta cui tende irresistibilmente la società presente attraverso le sue attività economiche, dovrà passare attraverso lunghe lotte, attraverso una serie di processi storici che trasformeranno circostanze e uomini. Essa non ha da realizzare ideali, ma ha da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia società borghese che sta crollando.
Vorrei fare alcuni commenti su questo passaggio. Innanzitutto, ovviamente, Marx era in qualche modo antagonista al pensiero degli utopisti socialisti, molti dei quali vivevano negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta dell'800 in Francia. Questa era la tradizione di Charles Fourier, Henri de Saint-Simon, Étienne Cabet, Louis Auguste Blanqui, Pierre-Joseph Proudhon e così via.

Marx pensava che i socialisti utopisti fossero dei sognatori e che non avrebbero operato concretamente per trasformare effettivamente le condizioni di lavoro nel qui e ora. Al fine di trasformare le condizioni qui e ora, c’era bisogno di una buona comprensione della natura della società capitalista.

Ma Marx è molto chiaro sul fatto che il progetto rivoluzionario debba concentrarsi sull’auto emancipazione dei lavoratori. Il prefisso «auto» in questa formulazione è importante. Qualsiasi grande progetto per cambiare il mondo richiede anche una trasformazione del sé. Quindi anche i lavoratori dovrebbero cambiare sé stessi. Ciò era molto chiaro a Marx ai tempi della Comune di Parigi.

Tuttavia, Marx osserva anche che il capitale stesso sta effettivamente creando le possibilità della trasformazione, e che attraverso lunghe lotte, sarebbe stato possibile «sprigionare» le coordinate di una nuova società in cui i lavoratori avrebbero potuto emanciparsi dal lavoro alienato. Il compito rivoluzionario era quello di liberare gli elementi di questa nuova società, già esistente nel grembo materno di un vecchio ordine sociale borghese in rovina.

La liberazione potenziale

Ora, siamo d’accordo sul fatto che viviamo in una situazione in cui la vecchia società borghese sta crollando. Chiaramente, la società è gravida anche di cose brutte – come il razzismo e la xenofobia – che non mi piacerebbe vedere emergere. Ma Marx non sta dicendo «liberi tutti e ogni cosa del vecchio e terribile ordine sociale in rovina». Quello che sta dicendo è che dobbiamo selezionare gli aspetti della società borghese che sta crollando che contribuiranno all’emancipazione dei lavoratori e delle classi lavoratrici.

Da qui discende la domanda: quali sono queste possibilità e da dove vengono? Marx non lo spiega nel suo scritto sulla Comune, ma la gran parte del suo precedente lavoro teorico era stato dedicato a divulgare quali possibilità creative esistevano per le classi lavoratrici. Di questo si occupa a lungo nel testo ampio, complesso e incompiuto chiamato Grundrisse, che Marx scrisse negli anni di crisi del 1857-1858.

Alcuni passaggi di quel lavoro fanno luce su ciò che Marx ha poi pensato nella sua difesa della Comune di Parigi. L’idea di «liberare» si riferisce alla comprensione di ciò che stava succedendo all’interno di una società borghese e capitalista. È questo ciò che Marx cercava continuamente di afferrare.

Nei Grundrisse, Marx si sofferma a lungo sulla questione del cambiamento tecnologico e del suo dinamismo correlato al capitalismo. Spiega come la società capitalista, per definizione, sarà pesantemente investita dall’innovazione e fortemente coinvolta nella costruzione di nuove possibilità tecnologiche e organizzative. Ciò accade perché se, come singolo capitalista, sono in concorrenza con altri capitalisti, otterrò un profitto maggiore se la mia tecnologia è superiore a quella dei miei rivali. Pertanto, ogni singolo capitalista ha un incentivo a sperimentare una tecnologia più produttiva rispetto a quelle utilizzate da altre aziende con cui è in competizione.

Per questo motivo, il dinamismo tecnologico è incorporato nel cuore della società capitalista. Marx lo riconobbe dal Manifesto (scritto nel 1848) in poi. Ecco una delle forze principali che spiega il carattere permanentemente rivoluzionario del capitalismo.

Non si accontenterà mai della tecnologia esistente. Cercherà costantemente di migliorarla, perché premierà sempre la persona, l’azienda o la società che ha la tecnologia più avanzata. Lo Stato, la nazione o il blocco di potere che dispone della tecnologia più sofisticata e dinamica guadagnerà la posizione dominante. Quindi il dinamismo tecnologico è incorporato nelle strutture globali del capitalismo. È stato così fin dall’inizio.

Innovazione tecnologica

La prospettiva di Marx da questo punto di vista è illuminante oltre che interessante. Quando immaginiamo il processo di innovazione tecnologica, in genere pensiamo a qualcuno che fa qualcosa e va alla ricerca di un miglioramento tecnologico in qualunque cosa stia facendo. Questo è il dinamismo tecnologico per una particolare fabbrica, un determinato sistema di produzione, una situazione specifica.

Ma accade che molte tecnologie si estendano da una sfera di produzione all’altra. Diventano generiche. Ad esempio, la tecnologia informatica è disponibile per chiunque voglia utilizzarla a qualsiasi fine. Le tecnologie di automazione sono disponibili per ogni tipo di utente e settore.

Marx nota che negli anni Venti, Trenta e Quaranta (dell’Ottocento) in Gran Bretagna, l’invenzione delle nuove tecnologie era già diventata un’attività indipendente e a sé stante. Vale a dire che non era più qualcuno che produceva tessuti o cose del genere a essere interessato alla nuova tecnologia che avrebbe aumentato la produttività del lavoro. Piuttosto, gli imprenditori escogitavano una nuova tecnologia che poteva essere utilizzata ovunque.

Il primo caso di questo tipo ai tempi di Marx era il motore a vapore. Aveva diverse applicazioni, dal drenaggio dell’acqua dalle miniere di carbone alle ferrovie, mentre veniva applicato anche ai telai nelle fabbriche tessili. Quindi, se volevi entrare nel business dell’innovazione, l’ingegneria e l’industria delle macchine utensili erano dei buoni punti di partenza.

Intere economie – come quella nata nella città di Birmingham, specializzata nella produzione di macchine utensili – si sono orientate alla produzione di nuove tecnologie e di nuovi prodotti. Anche ai tempi di Marx, l’innovazione tecnologica era diventata un’attività autonoma a sé stante.

Correre per rimanere fermi

Nei Grundrisse, Marx esplora in dettaglio la questione relativa a cosa accade quando la tecnologia diventa un business, quando l’innovazione crea nuovi mercati piuttosto che funzionare come risposta a una specifica domanda generata da un mercato preesistente. Le nuove tecnologie diventano quindi l’avanguardia del dinamismo di una società capitalista.

Le conseguenze sono di vasta portata. Un risultato ovvio è che le tecnologie non sono mai statiche: non sono mai regolate e diventano rapidamente obsolete. Restare al passo con le ultime tecnologie può essere stressante e costoso. L’accelerazione dell’obsolescenza può essere disastrosa per le imprese esistenti.

Tuttavia, interi settori – elettronica, farmaceutica, bioingegneria e simili – sono dedicati alla creazione di innovazioni nell’interesse del progresso tecnologico. Chiunque sia in grado di creare l’innovazione tecnologica che catturerà l’immaginazione, come il telefono cellulare o il tablet, o avere le applicazioni più varie, come il chip del computer, probabilmente prevarrà. Ecco che l’idea per cui la tecnologia stessa si trasforma in un business diviene centrale nel racconto di Marx su ciò che è una società capitalista.

Questo è ciò che differenzia il capitalismo da tutti gli altri modi di produzione. La capacità di innovare è stata onnipresente nella storia umana. Ci furono cambiamenti tecnologici nell’antica Cina, anche sotto il feudalesimo. Ma ciò che rende unico il modo di produzione capitalistico è il semplice fatto che la tecnologia diventa un business, con un prodotto generico che viene venduto a produttori e consumatori.

Questo è l’elemento davvero caratterizzante del capitalismo. E diventa uno dei fattori chiave per l’evoluzione della società capitalista. Questo è il mondo in cui viviamo, che ci piaccia o no.

Appendice della macchina

Marx prosegue mettendo in evidenza un corollario molto significativo di questa forma di sviluppo. Affinché la tecnologia diventi un’azienda, è necessario mobilitare nuove forme di conoscenza in determinati modi. Ciò comporta l’applicazione della scienza e della tecnologia come forme di sapere distintive del mondo.

La creazione di nuove tecnologie sul campo si integra con l’ascesa della scienza e della tecnologia come discipline intellettuali e accademiche. Marx nota come l’applicazione della scienza e della tecnologia, e la creazione di nuove forme di conoscenza, diventano essenziali per questa innovazione tecnologica rivoluzionaria.

Ciò descrive un altro aspetto della natura del modo di produzione capitalistico. Il dinamismo tecnologico è collegato al dinamismo della produzione di nuove conoscenze scientifiche e tecniche oltre che di nuove concezioni del mondo spesso rivoluzionarie. I campi della scienza e della tecnologia si mescolano con la produzione e la mobilitazione di nuove conoscenze e saperi. Alla fine, per facilitare questo sviluppo, è stato necessario fondare istituzioni completamente nuove, come il Mit o Cal Tech.

Marx prosegue chiedendosi: tutto ciò come influenza i processi di produzione all’interno del capitalismo e come trasforma il modo in cui il lavoro (e il lavoratore) viene incorporato in questi processi di produzione? Nell’era precapitalista, diciamo tra il Quindicesimo e il Sedicesimo secolo, il lavoratore generalmente aveva il controllo dei mezzi di produzione – gli strumenti necessari – e divenne esperto nell’uso di questi strumenti. Il lavoratore specializzato era il monopolista di un certo tipo di conoscenza e di un certo tipo di sapere che, osserva Marx, veniva sempre considerato un’arte.

Tuttavia, quando arrivi al sistema di fabbrica, e ancora di più quando arrivi al mondo contemporaneo, non è più così. Le abilità tradizionali dei lavoratori sono ridondanti, perché tecnologia e scienza prendono il sopravvento. Dal momento in cui tecnologia, scienza e nuove forme di conoscenza sono incorporate nella macchina, l’arte scompare.

Così Marx, in alcuni passaggi sorprendenti dei Grundrisse parla del modo in cui le nuove tecnologie e conoscenze si incorporano nella macchina: non sono più nel cervello del lavoratore e il lavoratore viene spinto da una parte per diventare un’appendice della macchina, un semplice addetto. Tutta l’intelligenza e tutta la conoscenza che appartenevano ai lavoratori e che conferivano loro un certo potere monopolistico nei confronti del capitale scompaiono.

Il capitalista che una volta aveva bisogno delle abilità del lavoratore è ora libero da quel vincolo e l’abilità si incarna nella macchina. La conoscenza prodotta attraverso la scienza e la tecnologia fluisce nella macchina e la macchina diventa «l’anima» del dinamismo capitalista. Questa è la situazione che Marx sta descrivendo.

Emancipazione del lavoro

Il dinamismo di una società capitalista diventa fondamentalmente dipendente da innovazioni perpetue, guidate dalla mobilitazione della scienza e della tecnologia. Marx ai suoi tempi lo comprese chiaramente. Stava scrivendo di tutto questo nel 1858! Adesso, ovviamente, ci troviamo in una situazione in cui questo problema è diventato critico e cruciale.

La questione dell’intelligenza artificiale (Ai) è la versione contemporanea di ciò di cui parlava Marx. Ora dobbiamo sapere fino a che punto l’intelligenza artificiale viene sviluppata attraverso la scienza e la tecnologia e fino a che punto viene applicata (o probabilmente applicata) nella produzione. L’ovvio effetto sarebbe quello di spostare il lavoratore, e di fatto disarmare e svalutare ulteriormente il lavoratore, in termini di capacità del lavoratore di applicare immaginazione, abilità ed esperienza all’interno del processo di produzione.

Da qui nei Grundrisse Marx arriva al seguente commento. Lasciate che lo citi, perché penso sia davvero, davvero affascinante:
La trasformazione del processo di produzione dal processo lavorativo semplice al processo scientifico che sottomette le forze naturali al suo servizio e le fa operare al servizio dei bisogni umani, si presenta come carattere proprio del capitale fisso di fronte al lavoro vivo... Così tutte le forze del lavoro vengono trasposte in forze del capitale.
La conoscenza e la competenza scientifica ora si trovano all’interno della macchina sotto il comando del capitalista. Il potere produttivo del lavoro viene trasferito nel capitale fisso, qualcosa che è esterno al lavoro. Il lavoratore viene spinto da una parte. Quindi il capitale fisso diventa portatore della nostra conoscenza e intelligenza collettiva quando si tratta di produzione e consumo.

Più avanti, Marx sostiene ciò che è in collasso con l’ordine borghese in rovina che potrebbe ridursi a beneficio del lavoro. Ed è questo: il capitale «abbastanza involontariamente, riduce il lavoro umano, il dispendio di energia al minimo. Ciòa ndrà a favore del lavoro emancipato ed è la condizione della sua emancipazione». Secondo Marx, l’ascesa di qualcosa come l’automazione o l’intelligenza artificiale crea condizioni e possibilità per l’emancipazione del lavoro.

Sviluppo libero

Nel passaggio che ho citato dall’opuscolo di Marx sulla Comune di Parigi, la questione dell’auto-emancipazione del lavoro e del lavoratore è centrale. Questa condizione è qualcosa che deve essere afferrata. Ma che cosa rende questa condizione così potenzialmente liberatoria?

La risposta è semplice. Tutta questa scienza e tecnologia sta aumentando la produttività sociale del lavoro. Un lavoratore, che si prende cura di tutte quelle macchine, può produrre un vasto numero di merci in un tempo molto breve. Ecco di nuovo Marx nei Grundrisse:
Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questa loro powerfull effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione… La ricchezza reale si manifesta invece – e questo è il segno della grande industria – nella enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto.
Ma poi – e qui Marx cita uno dei socialisti ricardiani che scrivono a quel tempo – aggiunge quanto segue: «Una nazione è davvero ricca quando la giornata lavorativa è di 6 anziché 12 ore. La ricchezza non è comando sul surplus di tempo di lavoro... ma piuttosto tempo disponibile al di fuori di quello necessario per la produzione diretta, per ogni individuo e per l’intera società».

È questo che porta il capitalismo a produrre la possibilità del «libero sviluppo delle individualità», compresa quella dei lavoratori. E, a proposito, l’ho già detto prima, ma lo dirò di nuovo: Marx lo fa sempre, sottolineando sempre che il libero sviluppo dell’individuo è il risultato dell’azione collettiva. Questa idea comune secondo cui Marx si occupa solo dell’azione collettiva e della soppressione dell’individualismo è sbagliata.

È il contrario. Marx è favorevole alla mobilitazione dell’azione collettiva al fine di ottenere la libertà individuale. Torneremo su questo concetto tra un momento. Ma è il potenziale per il libero sviluppo delle individualità che è l’obiettivo cruciale.

Lavoro necessario e non necessario

Tutto si basa sulla «riduzione generale del lavoro necessario», cioè sulla quantità di lavoro necessaria per riprodurre la vita quotidiana della società. L’aumento della produttività del lavoro implica che i bisogni di base della società possano essere gestiti molto facilmente. Ciò consentirà quindi di liberare tempo a sufficienza per il potenziale sviluppo artistico e scientifico delle persone.

Inizialmente, ciò avverrà soltanto per pochi privilegiati, ma alla fine creerà tempo a disposizione gratuito per tutti. Vale a dire, lasciare gli individui liberi di fare ciò che vogliono è fondamentale, perché puoi prenderti cura delle necessità di base usando una tecnologia sofisticata.

Il problema, afferma Marx, è che il capitale stesso è «contraddizione all’opera». «Spinge per ridurre al minimo il tempo di lavoro mentre dall’altra parte pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte di ricchezza». Quindi riduce il tempo di lavoro nella forma necessaria – cioè ciò che è veramente necessario – per aumentarlo nella forma superflua.

Ora, la forma superflua è ciò che Marx chiama plusvalore. La domanda è: chi catturerà il surplus? Il problema che Marx identifica non è che l’eccedenza non è disponibile, ma che non è disponibile per il lavoro. Mentre la tendenza è «da una parte quella di creare tempo a disposizione», dall’altra è «convertirlo in lavoro in eccesso» a beneficio della classe capitalista.

In realtà l’eccedenza non viene usata per l’emancipazione del lavoratore quando potrebbe esserla. Viene destinata alla bambagia dei nidi della borghesia, e quindi all’accumulo di ricchezza attraverso mezzi tradizionali all’interno della borghesia.

Ecco la contraddizione centrale. «Davvero – dice Marx – la ricchezza di una nazione. Come lo capiamo? Mettendo in relazione la massa di denaro e tutto il resto che qualcuno comanda». Ma per Marx, come abbiamo visto, «una nazione veramente ricca è quella in cui la giornata lavorativa è di sei anziché di dodici ore. La ricchezza non è il controllo del tempo di lavoro in eccesso, ma piuttosto del tempo disponibile al di fuori di quello necessario nella produzione diretta per ogni individuo nell’intera società».

Cioè: la ricchezza di una società verrà misurata da quanto tempo libero disponibile avremo tutti, per fare qualunque cosa ci piaccia senza alcun vincolo, perché i nostri bisogni di base sono soddisfatti. E l’argomento di Marx è questo: deve esserci un movimento collettivo per assicurare che quel tipo di società possa essere costruita. Ma l’ostacolo è, ovviamente, la relazione della classe dominante e l’esercizio del potere della classe capitalista.

Lockdown

Ora, tutto ciò risuona in modo interessante nella situazione attuale di blocco e collasso economico in conseguenza del Coronavirus. Molti di noi si trovano in una situazione in cui, individualmente, hanno molto tempo a disposizione. Molti di noi sono bloccati a casa.

Non possiamo andare a lavorare; non possiamo fare cose che normalmente facciamo. Cosa possiamo fare con il nostro tempo? Se abbiamo figli, ovviamente, abbiamo un bel po’ da fare. Ma siamo arrivati ​​a questa situazione in cui abbiamo molto tempo a disposizione.

La seconda cosa è che, ovviamente, stiamo vivendo una disoccupazione di massa. Gli ultimi dati suggeriscono che, negli Stati Uniti, qualcosa come 26 milioni di persone hanno già perso il lavoro. Ora, normalmente si direbbe che questa è una catastrofe e, naturalmente, è una catastrofe, perché quando perdi il lavoro, perdi la capacità di riprodurre la tua forza lavoro andando al supermercato, perché non hai soldi.

Molte persone hanno perso la loro assicurazione sanitaria e molte altre hanno difficoltà ad accedere alle indennità di disoccupazione. Il diritto alla casa è a rischio a causa della scadenza degli affitti o dei pagamenti dei mutui. Gran parte della popolazione statunitense – forse fino al 50% di tutte le famiglie – non dispone di più di 400 dollari in banca per far fronte a piccole emergenze, per non parlare di una vera e propria crisi del tipo in cui ci troviamo ora.

Una nuova classe lavoratrice

È probabile che queste persone scendano in strada molto presto, con la fame che li attanaglia, loro e i loro bambini. Ma analizziamo la situazione più da vicino.

La forza lavoro che dovrebbe occuparsi del numero crescente di malati, o di fornire i servizi minimi che consentono la riproduzione della vita quotidiana è, di norma, fortemente legata al genere e razzializzata. Questa è la «nuova classe operaia» in prima linea nel capitalismo contemporaneo. Sui suoi membri gravano due pesi: allo stesso tempo, sono i lavoratori più esposti a contrarre il virus per la loro attività e sono quelli più a rischio di essere licenziati senza risorse finanziarie a causa della ristrutturazione imposta dal virus.

La classe operaia contemporanea negli Stati Uniti – composta prevalentemente da afroamericani, latinoamericani e donne – si trova davanti a una scelta orribile: da una parte la sofferenza della contaminazione durante il lavoro di cura delle persone e il mantenimento di forme di approvvigionamento chiave (come i negozi di alimentari), dall’altra la disoccupazione senza tutele (come un’adeguata assistenza sanitaria).

I membri di questa forza lavoro sono stati a lungo ammaestrati al fine di comportarsi come buoni soggetti neoliberisti, il che significa incolpare sé stessi o Dio se qualcosa va storto ma non pensare mai che il problema potrebbe essere il capitalismo. Tuttavia, anche buoni soggetti neoliberisti possono vedere che c’è qualcosa di sbagliato nella risposta a questa pandemia, e nell’onere sproporzionato che loro stessi devono mettersi sulle spalle per sostenere la riproduzione dell’ordine sociale.

Qualcosa di nuovo

Sono necessarie forme di azione collettiva per farci uscire da questa grave crisi e nell’affrontare il Covid-19. Abbiamo bisogno di azioni collettive per controllarne la diffusione: blocchi e distanziamento sociale, questo tipo di misure. Questa azione collettiva è necessaria per liberarci alla fine come individui per vivere come vogliamo, perché in questo momento non possiamo fare ciò che ci piace.

Siamo davanti a una buona metafora per capire cos’è il capitale. Significa costruire una società in cui la maggior parte di noi non è libera di fare ciò che vuole, perché siamo effettivamente coinvolti nella produzione di ricchezza per la classe capitalista.

Ciò che Marx potrebbe dire è, be’, può darsi che quei 26 milioni di disoccupati, se riuscissero davvero a trovare un modo per ottenere abbastanza soldi per sostenersi, acquistare le merci di cui hanno bisogno per sopravvivere e affittare la casa in cui devono vivere, perché non dovrebbero perseguire l’emancipazione di massa dal lavoro alienante?

In altre parole, vogliamo uscire da questa crisi semplicemente dicendo che ci sono 26 milioni di persone che hanno bisogno di tornare al lavoro, in alcuni di quei lavori piuttosto terribili che avrebbero potuto fare prima? È così che vogliamo uscirne? Oppure vogliamo chiedere: c’è un modo per organizzare la produzione di beni e servizi di base in modo che tutti abbiano qualcosa da mangiare, ognuno abbia un posto decente in cui vivere e possiamo mettere una moratoria sugli sfratti e tutti possono vivere liberi dall’affitto? Non è forse questo il momento in cui pensare seriamente alla creazione di una società alternativa?

Se siamo abbastanza forti e sofisticati da far fronte a questo virus, allora perché non affrontare il capitale allo stesso tempo? Invece di dire che vogliamo tornare al lavoro e riavere quei lavori e ripristinare tutto com’era prima dell’inizio di questa crisi, forse dovremmo dire: perché non uscire da questa crisi creando un ordine sociale totalmente diverso?

Perché non prendiamo quegli elementi che la società borghese sull’orlo del tracollo tiene in grembo – la sua sorprendente scienza e tecnologia e capacità produttiva – e li liberiamo, facendo uso dell’intelligenza artificiale e del cambiamento tecnologico e delle forme organizzative in modo da poter effettivamente creare qualcosa di radicalmente diverso?

Scorci di alternativa

Dopotutto, nel mezzo di questa emergenza, stiamo già sperimentando sistemi alternativi di ogni tipo, dalla fornitura gratuita di alimenti di base a quartieri e gruppi poveri, a trattamenti medici gratuiti, strutture di accesso alternative attraverso Internet e così via. In effetti, i lineamenti di una nuova società socialista sono già stati messi a nudo, motivo per cui l’ala destra e la classe capitalista sono così ansiosi di riportarci allo status quo ante.

Questo momento è un’opportunità per pensare a come potrebbe essere l’alternativa. Questo è il momento in cui esiste effettivamente la possibilità di un’alternativa. Invece di reagire in modo istintivo e dire: «Oh, dobbiamo recuperare immediatamente quei 26 milioni di posti di lavoro», forse dovremmo cercare di ampliare alcune cose che stanno già accadendo, come l’organizzazione dei bisogni collettivi.

Sta già accadendo nel campo dell’assistenza sanitaria, ma sta anche iniziando a verificarsi attraverso la socializzazione dell’offerta alimentare e persino dei pasti. A New York in questo momento, diversi sistemi di ristorazione sono rimasti aperti e, grazie alle donazioni, stanno effettivamente fornendo pasti gratuiti alla massa della popolazione che ha perso il lavoro e non può muoversi.

Invece di dire: «Bene, va bene, questo è proprio quello che facciamo in caso di emergenza», perché non diciamo, questo è il momento in cui possiamo iniziare a dire a quei ristoranti, la tua missione è nutrire la popolazione, in modo che tutti abbiano un pasto decente almeno una o due volte al giorno.

Immaginazione socialista

Abbiamo già elementi di quella società: molte scuole forniscono pasti scolastici, per esempio. Quindi continuiamo così, o almeno impariamo la lezione di cosa potrebbe essere possibile se ci tenessimo. Non è questo un momento in cui possiamo usare questa immaginazione socialista per costruire una società alternativa?

Tutto ciò non è utopico. Ci sta dicendo, va bene, guarda tutti quei ristoranti nell’Upper West Side che hanno chiuso e che ora sono lì, quasi dormienti. Rimettiamo le persone a lavorare: possono iniziare a cucinare e nutrire la popolazione per le strade e nelle case e possono farlo per gli anziani. Abbiamo bisogno di quel tipo di azione collettiva affinché ognuno di noi si liberi individualmente.

Se i 26 milioni di persone ora disoccupate devono tornare al lavoro, forse dovrebbe essere per sei anziché dodici ore al giorno, quindi possiamo celebrare l’ascesa di un modo diverso di intendere cosa significhi vivere nel paese più ricco del mondo. Forse questo è ciò che potrebbe rendere l’America davvero grande (lasciando il «di nuovo» a marcire nella pattumiera della storia).

Questo è il punto che Marx ripete ancora e ancora e ancora: che la radice del vero individualismo, della libertà e dell’emancipazione, in contrapposizione a quella falsa che viene costantemente predicata nell’ideologia borghese, è una situazione in cui tutti i nostri bisogni sono curati attraverso un’azione collettiva, in modo che dobbiamo lavorare solo sei ore al giorno e possiamo usare il resto del tempo esattamente come vogliamo.

In conclusione, non è forse questo un momento propizio per pensare davvero al dinamismo e alle possibilità di costruzione di una società alternativa? Ma per intraprendere un percorso così avanzato, dobbiamo prima emancipare noi stessi in modo da comprendere che un nuovo immaginario è possibile insieme a una realtà nuova.

Fonte

Brasile - Nostalgia di regime mentre Manaus agonizza


Manaus, una città allo stremo, chiede aiuto al G20

Hanno fatto scalpore in questi giorni le dichiarazioni del prefetto di Manaus, Arthur Virgílio Neto, che in aperta polemica con il governo centrale, ha detto piangendo che rivolgerà un appello ai leader del G20, dal momento che tutti sono debitori nei confronti dell’Amazzonia che mantiene il calore del pianeta con le sue foreste.

Di sicuro c’è solamente che il 90% dei casi di Covid-19 nella regione sono concentrati qua nella capitale, dove si registrano quasi 3500 contagi su un totale di circa 4000.

Esiste poi un enorme confusione, come sempre, sulle cifre dei decessi effettivi per coronavirus. Le morti ufficiali sono 320 ad ora, ma quelle sospette nelle ultime settimane a Manaus ammontano a 1250. Per mancanza di tamponi, è impossibile appurare se siano effettivamente dovute al nuovo virus o ad altre malattie che causano febbre e, anche se più raramente, complicazioni polmonari; come la dengue per esempio, che in Amazzonia imperversa a causa delle punture da parte della zanzara Aedes Aegypti.

Questa bastarda con i puntini bianchi sulla livrea (in Italia è conosciuta come zanzara-tigre) è portatrice anche del virus Zika e della febre amarela, la febbre gialla, che ogni tanto si affaccia in Sudamerica.

Ad ora, la capienza totale dei posti letto è pressoché esaurita, siamo al 98%, così come quella dei cimiteri, che allo stato attuale sono sostituiti dalle trincheiras, le fosse comuni che assomigliano a trincee di guerra dove vengono seppelliti i corpi che non trovano posto nel camposanto.

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In realtà Neto, invece di piagnucolare davanti agli schermi, avrebbe parecchie cose da spiegare sulla sua passata amministrazione: ha sostituito il 1 gennaio 2013 Amazonino Mendes, l’ex prefetto PT (Partido Trabalhadores) che aveva subìto un infarto l’anno precedente.

Mendes lasciava in eredità una città che funzionava, nonostante la storica povertà che l’ha sempre contraddistinta da quando il commercio del caucciù era decaduto nel dopoguerra, sostituito però dalla zona franca industriale decretata alla fine degli anni '60, e dallo snodo del traffico fluviale nel punto di confluenza tra Rio Negro e Rio delle Amazzoni, che favorisce anche il turismo d’élite dei brasiliani ricchi di Rio e São Paulo, i quali erano soliti partire da Manaus per inoltrarsi con dispendiose escursioni nella foresta amazzonica.

Senza dimenticare la piattaforma petrolifera della Petrobras, la compagnia parastatale, poi travolta dagli scandali di corruzione sotto lente nell’inchiesta Lava Jato.

Con Neto, la città ha subito un lento ma costante deterioramento da cui non si è più ripresa. L’inquinamento dovuto agli scarti industriali e al petrolio è aumentato, diventando un brodo di coltura ideale prima per le larve di zanzara e poi per il virus Sars-CoV-2.

Con il crollo dei prezzi delle commodities legate al greggio, anche quel poco di welfare che rimaneva è crollato, e a livello sanitario il prefetto non si è mai curato di sollecitare interventi che potessero ampliare l’obsoleto ospedale pubblico 28 de Agosto, il quale oltre alla carenza di posti letto, e alla necessità di apparecchiature tipo respiratori e quant’altro, lamenta anche frequenti black-out elettrici.

Nel 2018, si dovette muovere di sua iniziativa la SUSAM (Secretaria de Estado de Saúde) per portare da 32 a 40 i posti letto nella Unità di Terapia Intensiva, vitale per assistere i casi più gravi della pandemia. 40 posti a fronte di una popolazione di 2,1 milioni!

Se Sparta piange, Atene non ride: 50 milioni di R$, il budget federale a disposizione della sanità per produrre dispositivi di protezione, gel alcolico, ventilatori polmonari e respiratori: con il cambio 1 € = 5,7 R$ fanno 8,77 milioni di euro; un’inezia per una nazione di 210 milioni di abitanti.

Una boccata d’ossigeno potrebbe però venire da STF (Supremo Tribunale Federale) il quale ha disposto che una parte dei fondi di risarcimento alla Petrobras ricavati dai beni sequestrati ai condannati nell’inchiesta Lava Jato, siano dirottati sulla lotta contro il Covid-19. Si tratta di 1,6 miliardi di reais, circa 280 milioni di euro.

Manovre di regime

Durante una manifestazione pro governo, violando lui stesso l’isolamento nazionale, un Bolsonaro in T-shirt a bordo di una camionetta scoperta – stile ducetto sudamericano classico – ha arringato i sostenitori più estremisti davanti alla sede dell’esercito a Brasilia, interrompendosi poi per un attacco di tosse.

Avallando gli striscioni che ricordavano l’intervento militare del 1968 – quando con l’atto Al-5 l’esercito chiuse di forza il Congresso, ufficializzando la dittatura – ha anticipato in pratica la campagna elettorale del 2022, visto che la sua pessima gestione della pandemia in corso lo vede in netto calo nei sondaggi.

Nonostante il coro di condanna dei suoi nemici – dal presidente della Camera Rodrigo Maia, ai governatori di São Paulo e Rio João Doria e Wilson Witzel fino al ministro Barroso della Corte Suprema – egli conta sul fatto che la richiesta di impeachment già depositata, per via dei passaggi necessari per l’approvazione definitiva (prima votazione alla Camera, passaggio al Senato in caso di esito favorevole, e votazione finale sempre al Senato sotto la supervisione del presidente del Supremo Tribunale Federale) gli consenta comunque di andare avanti nel frattempo, poiché l’eventuale sospensione avverrebbe solo dopo la 2° votazione al Senato.

E se invece la richiesta fosse bocciata già alla Camera, Bolsonaro potrebbe presentarsi alla nuova candidatura, in veste di eroe agli occhi dell’opinione pubblica.

Intanto, dopo che anche il ministro di Giustizia Sérgio Moro ha dato le dimissioni non sopportando più le sue interferenze, Bozo ha già contattato i partiti di centro allettandoli con cariche e favori, ai fini di evitare tale procedimento.

Proprio lui, il paladino dell’anti-corruzione.

Lunedì 27 aprile, O Movimento Brasil Livre ha intanto protocollato alla Camera la richiesta di impeachment nei confronti di Bolsonaro, per crimini contro i diritti sociali e individuali.

Sostentamento in tempi di quarantena

Ma aldilà di queste manovre di regime, il paese reale è un altro.

La chiusura delle attività commerciali e delle fabbriche è stata prorogata fino al 4 maggio.

Il pagamento degli aiuti d’emergenza per i lavoratori fermi, R$ 600 mensili a testa per tre mesi, che possono arrivare a 1200 in caso di nucleo familiare – due coniugi o madre single con figli a carico – è iniziato in ritardo, il 17 aprile, con l’accredito della 1° tranche su un conto speciale.

Le altre due tranches saranno versate il 30 aprile e il 30 maggio. Ne hanno fatto richiesta 50 milioni di cittadini, anche a fronte dei numerosi licenziamenti già in atto.

A Bahia il governatore Rui Costa ha annunciato che lo stato concederà tre mesi di energia elettrica gratuiti, fino a un totale di 100 KW per famiglia.

Eppure in Brasile molti resteranno fuori da questi benefici, basti pensare ai venditori ambulanti o alla comida de rua, attività commerciali basilari per il sostentamento delle classi minori, sovente escluse dal welfare. La forzata inattività le impoverisce giorno dopo giorno, e molti infrangono i divieti per necessità.

Il lavoro più ingrato – sia sotto il punto di vista del compenso che del rischio contagio – ma in tempi di coronavirus pressoché indispensabile, è il rider che porta da mangiare a casa della gente, ora che ristoranti e bar sono chiusi.

Giorno e notte, sfrecciano ragazzi con il borsone termico di Uber Eat sulla schiena, quelli che possono permettersi una moto o almeno una bicicletta. Sono in genere più scuri di carnagione dei loro clienti bianchi del ceto medio-alto: questi brasiliani di serie B fanno il lavoro che da noi era svolto dei migranti neri, la cui presenza è stata ridotta dagli editti salviniani.

La questione razziale è sempre determinante nel posizionare il popolo sui gradini della piramide sociale brasiliana, secondo il censo e le tonalità di colore della pelle. Meno soldi si ha, e più sotto si sta, specie se si è pretos e pardos, neri discendenti da africani, o meticci nati da unioni tra neri e bianchi, o tra neri e indios.

E Salvador da Bahia ne è la prova del nove: proprio nella capitale dello stato di Bahia, dove la maggioranza preta negra e preta parda è schiacciante nei numeri – su 2.900.000 abitanti, 2.400.000 sono neri e meticci con una minoranza amerinda, che ha sangue europeo e indio. Solo poco più di mezzo milione è branco (bianco).

Ma come avviene in Sudafrica, che è il parametro più indicato per capire Salvador, sono i bianchi che possiedono praticamente tutto, e gli altri si adattano al loro servizio.

La città è divisa in due, il centro balneare nei quartieri di Ondina, Barra e Rio Vermelho, è tirato a lucido, con centri commerciali multipiano e una vita notturna spumeggiante tra bar, ristoranti e locali notturni, almeno prima del coronavirus, ma frequentata solo dal ceto medio-alto dai lineamenti europei.

Mentre sia nello storico Pelorinho, patrimonio UNESCO e cuore dell’arte baiana, così come nelle periferie vicine all’areoporto di Mar Brasil e Stella Mária, il degrado, la sporcizia e la criminalità sono esponenziali, poiché questi quartieri sono abitati dai neri e nessuno del municipio se ne cura, tantomeno gli stessi residenti, ormai abituati a vivere così da sempre, in mezzo a monnezza e latrine a cielo aperto, con l’olezzo delle urine che ammorba chi ci capita per caso.

Da anni il Pelorinho di notte è chiuso per motivi di sicurezza, togliendo così ai Baiani poveri pure quel cash-flow e quel poco di svago che restava loro. Per cui a costoro “o fechamento” delle attività sociali causa virus, ha cambiato ben poco.

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Bolsonaro ha stravinto le scorse elezioni non solo per l’appoggio della lobby evangelista radicale da sempre punto di riferimento della borghesia bianca brasiliana, e neppure per la corruzione dilagante all’interno dei partiti storici istituzionali, di sinistra come il PT (Partido Trabalhadores) e di centro con inclinazioni destrorse, quali PMDB e PSDB, socialdemocratici solo di nome.

Ce l’ha fatta innanzi tutto per la mancanza di visione dei cosiddetti progressisti: Lula aveva risollevato (dopo aver vinto le elezioni nel 2003) le sorti economiche del Brasile, sfiancato dalla cura da cavallo a base di austerity e privatizzazioni a manetta imposta da FMI, che aveva prestato al governo di FHC (Fernando Henrique Cardoso) 42 miliardi di dollari.

Era riuscito anche a diminuire il tasso di povertà che aveva raggiunto picchi di miseria insopportabile, imbastendo sui presupposti abbozzati da FHC un welfare solido, basato su una serie di programmi sociali, Bolsa Familia e Fome Zero, che avevano consentito la sopravvivenza e un tetto sulla testa a centinaia di migliaia di excluídos nelle favelas.

Non è stato certo un percorso facile, e sicuramente il ceto medio a livello imprenditoriale è quello che ha saputo approfittare meglio della ripresa economica brasiliana, grazie anche alle risorse energetiche e al costo alto allora delle commodities sul mercato internazionale.

I successori di Lula, abbagliati dal nuovo Eldorado e dalle bustarelle delle multinazionali locali e non, sono gradualmente ricaduti nell’inganno del liberismo economico che aveva già portato la nazione al collasso sotto FHC, e dal punto di vista sociale hanno tralasciato – a mio parere volutamente, facendo parte anch’essi della borghesia – la cosa più importante: adeguare i salari della classe lavoratrice all’indice in continuo crescendo del costo della vita.

Specie se si pensa che ancora oggi il salario minimo è meno di 200 €, a fronte di un costo della vita che, dopo il Cile, è uno dei più alti in Sudamerica a livello di istruzione e sanità private.

Il servizio sanitario pubblico era già ridotto ai minimi termini allora, per cui è inevitabile che adesso COVID-19 lo stia martellando, infierendo in particolare sui dipartimenti regionali più arretrati come quelli dell’Amazzonia e Mato Grosso.

Anche l’alimentazione brasiliana è stata sempre oggetto del “razzismo nutrizionale”, come potremmo definirlo, fin dai tempi delle colonie portoghesi.

La carne bovina per i suoi costi, nonostante i capi di bestiame sterminati, è accessibile solo al ceto medio-alto, e ai poveri cristi non rimane che carne di porco e zampe di gallina per fare il brodo.

La sinistra istituzionale in BR, oltre a prostituirsi al liberismo economico delle multinazionali che hanno devastato l’ecosistema amazzonico – vedi gli orrori tuttora impuniti in Minas Gerais dopo il crollo delle dighe di Mariana e Brumadinho proprietà del colosso Vale, 2°produttore mondiale di ferro, che ha causato pure 300 vittime – è venuta meno al suo primo dovere: CREARE UNA COSCIENZA DI CLASSE NEL PROLETARIATO BRASILIANO.

Il quale, essendo in maggioranza meticcio e nero, avrebbe dovuto essere accompagnato dalla consapevolezza dell’orgoglio razziale che ad esempio gli indios non hanno mai perso, pur essendo stati trucidati in massa nel corso della storia del Brasile.

La vita agreste: Tibullo docet

In questi giorni di esilio volontario nell’entroterra del Paraiba, dove i numeri del contagio sono minori rispetto alle metropoli, l’unico svago che mi concedo sono le fughe nei centri rurali, a una cinquantina di km dalla città di Campina Grande.

I più conoscono la capitale João Pessoa, meta ambita dai brasileiros benestanti del Sud per via delle spiagge di Tambaú, Jacumá, Coquerinho, e Tambaba, ma il Paraiba autentico è qui in campagna.

Il termine “paraiba” in Brasile è perlopiù usato in senso dispregiativo.

Nel celebre film Cidade de Deus, che tratta delle guerre tra gang per il controllo della droga nell’omonima favela, viene citato dai “soldati” dei boss per deridere i campagnoli che emigrano dal Nord Est per andare a lavorare a Rio.

In realtà, a Lagoa Seca, Alagoa Nova, Areia, ect. si viaggia nella macchina del tempo, come se tornassimo indietro nel nostro dopoguerra degli anni '50.

Tranne Areia, che in tempi normali accoglie anche turisti che vanno a fotografare le capanne dipinte nella Comunidade De Quilombolas – i discendenti degli schiavi afro – gli altri paeselli vivono esclusivamente di quello che producono.

Le cooperative agricole e di allevamento, tutte familiari, provvedono al 50% del fabbisogno di carni, pollame, fagioli, manioca, riso, frumento, frutta e formaggio per l’intero stato. Il governo concede sovvenzioni minime, che coprono appena il 16% dei produttori. Eppure in Brasile, queste famiglie forniscono ai mercati l’80% della produzione nazionale di fagioli e manioca, 34% di riso, 21% di frumento, 55% di carne suina e frango (pollo).

Qua il virus non ha vita facile, per via dell’isolamento naturale, il clima caldo e secco, e l’assenza di inquinamento.

Mantenendo l’allevamento tradizionale, si è potuto evitare il rischio di trasmissione di malattie provenienti da animali selvatici quando i loro habitat sono invasi, come successe con la peste suina e l’influenza aviaria degli anni passati in Cina.

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La gente continua la propria vita come se niente fosse, ci sono tre negozi in paese: una cartoleria che vende quaderni e libri di scuola, una farmacia e un fornaio.

Giornali e TV accese non ne vedo, per cui panico zero.

Tibullo nei suoi tre libri di Elegie, loda la vita di campagna, maledicendo la guerra e gli amanti infedeli (ne ha tre: due donne, Delia e Nemesi, e un ragazzo, Marato, che lo cornificano alla grande, ma anche lui non scherza.) “Un altro accumuli pure oro luccicante, e possieda ettari sconfinati di terra, e Marte faccia squillare pure le sue trombe. A me è cara la povertà, che però attraverso una vita frugale, illumina il mio cuore di una luce instancabile“.

La vita nei campi è dura, ma dignitosa.

Meglio qui che lavorare sotto padrone a meno di 200 € al mese, vivendo dentro una lurida favela, per finire magari ammazzato dalla dengue o da un proiettile vagante.

Meglio la vita agreste, di una vita agra.

Fonte