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20/04/2020

Massacro Lombardia: errori e orrori di un “modello” infame

«Nella regione più ricca del paese, il potere economico non ha ceduto. Le fabbriche sono rimaste aperte, con tutta la complicità dei politici; mentre i corpi riempivano i camion militari. La devastazione della Sanità pubblica ha presentato il conto. Ora, tocca alla rivolta» [1]

Certo, la madre di tutte le guerre è quella riforma del titolo V della Costituzione italiana che, agli articoli 116 e 117, regola la suddivisione della potestà legislativa per materia tra Stato e Regioni, che indica espressamente su quali materie lo Stato ha competenza e su quali, invece, ha competenza concorrente con le Regioni.

La sanità è appunta la principale materia concorrente, in termini di bilancio e dunque di potere reale.

L’emergenza coronavirus ha riacceso i riflettori sui ‘limiti’ del Titolo V e rimesso al centro la necessità di una gestione della salute omogenea su tutto il territorio ed evitare, quindi, che una Regione decida autonomamente e in difformità rispetto alle altre.

In questi giorni il dibattito politico è tornato a rispolverare l’antica questione delle materie concorrenti, riproponendo la necessità di intervenire sulla Carta per fornire, quanto meno, una “clausola di supremazia”.

Tuttavia, il parere di alcuni costituzionalisti, tra cui Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale, è che, nella Costituzione, sia già previsto una sorta di clausola di supremazia, contenuta nel secondo comma dell’articolo 120, che recita: ”Il Governo può sostituire un organo delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel Caso di mancato rispetto di Norme e Trattati Internazionali o della Normativa comunitaria oppure di Pericolo per l’incolumità e la Sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione.“

Qualche sera fa, Massimo Galli, illustre virologo, direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Sacco di Milano, nel corso di un suo intervento durante la trasmissione de La7 ”Ottoemezzo”, ha dichiarato: ”Nei 3 anni in cui sono stato direttore generale del Ministero della Sanità ho cercato di far approvare il Piano Sanitario Nazionale, ma non c’è niente di niente. Ogni Regione va per conto suo e non vengono minimamente assicurati i Lea (Livelli Essenziali di Assistenza) determinando una situazione di ineguaglianza dei cittadini sul piano del diritto alla salute“.

Qualche sera prima nel corso dell’intervista concessa a Diego Bianchi, a Propaganda Live, sempre su La7, Gino Strada ha portato un duro attacco al tanto decantato quanto disastroso “modello Lombardia”: «Il primo errore – ha dichiarato Strada – è stato quello di non proteggere gli ospedali. Se un ospedale si infetta non è più in grado di curare i pazienti, in assoluto. I cardiopatici, i diabetici, chi ne ha bisogno, non solo i malati di Covid.

Questa è la gente che ha devastato la sanità pubblica italiana, altro che modello Lombardia [… ] – ha aggiunto – Quando si assiste a un fenomeno come quello dell’ospedale di Alzano Lombardo, non ci si può esimere da una riflessione su chi ha gestito la sanità in Lombardia negli ultimi 20 anni. Questi anziani sono stati lasciati morire nelle case di riposo senza nessuna umanità, senza nessuna pietà. Tutto questo è moralmente, prima che giuridicamente, un crimine. La Lombardia ha fatto con gli ospedali ciò che persino la camorra ha avuto difficoltà a fare in questo modo così esteso e puntuale. È più facile aprire una cardiochirurgia in Sudan che un posto letto in Italia”.

La mattina del 16 aprile scorso la Guardia di Finanza si è recata presso il Pio Albergo Trivulzio e nella sede della Regione Lombardia. Cercavano documenti e cartelle cliniche, non soldi in contanti.

Un’inchiesta che tecnicamente è molto più semplice perché non si cercano giri di mazzette sulla base di qualche “pentimento” per cui serve un lungo e laborioso lavoro sui bilanci societari e delle amministrazioni pubbliche oltre che sui conti correnti.

No, qui hanno sequestrato delibere regionali – atti ufficiali votati, firmati e protocolli – che “chiedono” alle Rsa lombarde (le “case di riposo”) di ricevere un po' di contagiosi da coronavirus poco gravi, in modo decongestionare gli ambienti ospedalieri nel momento più drammatico dell’emergenza.

Fontana e Gallera, per tentare di difendersi, si arrampicano sugli specchi dichiarando che non si tratta di un ordine ma di una semplice “richiesta”, precisando che “In caso di accoglimento, ci andavano i contagiati che poi riguardavano gli ospitati in reparti separati, con personale “riservato”.

È un modo per dissimulare una verità semplicissima: nel lodatissimo modello lombardo comandano gli accordi, ovvero, i politici di turno; e, poiché ti finanziano con una suoneria di miliardi, per continuare a mantenere il potere e il consenso, si circondano di dirigenti “fedeli”.

Gli amministratori mediocri dispensano ordini e – in caso di errori, fallimenti o illeciti – scaricano le colpe sui “dirigenti fedeli” alla velocità della luce: è il lodatissimo “modello lombardo”.

Quel modello che ha commercializzato la salute e la malattia dei cittadini, creando intorno a se un sistema di corruzione su ampia scala, fin dai tempi dell’ex governatore Roberto Formigoni (per tre mandati dal 1995 al 2013), membro di spicco del “partito” di Comunione e Liberazione.

Sempre in Forza Italia, ma solido alleato di quella Lega che ha ereditato il “sistema” da quando Formigoni è stato costretto alle dimissioni, inquisito e condannato per corruzione. Il suo successore, Roberto Maroni, nel 2017 ha abbondantemente tagliato il servizio sul territorio, quasi abolendo i medici di famiglia sostituti da «manager».

E così può succedere di mettere il contagiato da coronavirus “in prossimità” di anziani non autosufficienti, quando già era noto che questa era la fascia di età “privilegiata” dal virus, causando 300 morti soltanto alla “Baggina” e al Don Gnocchi.

Un massacro che mette sotto l’accusa proprio il “modello” della sanità lombarda. Non solo per quanto riguarda lo squilibrato rapporto tra pubblico e privato, ma soprattutto la “logica” del “sistema” in quanto tale.

Ranieri Guerra (OMS) lo ha messo, in questi giorni, nero su bianco: “Bisogna pensare alla riorganizzazione territoriale del sistema sanitario. Quello che non ha funzionato in Lombardia e invece ha funzionato in Veneto”.

Sotto esame sono 30 anni di governo della destra, a tutto vantaggio dei privati, ai quali sono stati regalati miliardi di fondi pubblici puntando tutto sull’assistenza ospedaliera (la cura della malattia), anziché su quella territoriale (la prevenzione): “La Lombardia ‘eccellenza ospedaliera’, una bandiera in tutto il mondo, è stata quasi totalmente sguarnita dal punto di vista dell’assistenza sul territorio. E se può sostenere il sistema che regge sul fronte della cura, non può fare altrettanto sul fronte della prevenzione”.

Ed è vero: una rete capillare di medici di base sul territorio, in grado di “fare filtro” e registrare per tempo la diffusione di patologie inconsuete nella popolazione, è stata quasi del tutto smantellata.

E viene persino rivendicato! Nell’estate del 2019 il leghista “moderato” Giorgetti (n. 2 di Salvini) al Meeting di Comunione e Liberazione, dichiarò bellamente: “Nei prossimi cinque anni mancheranno 45mila medici di base. È vero; ma chi va più dal medico di base, senza offesa per i professionisti qui presenti? Nel mio piccolo paese vanno a farsi la ricetta medica, ma chi ha meno di cinquant’anni va su Internet e cerca lo specialista. Il mondo in cui è presente il medico di famiglia è finito”.

Ma ancor prima che Giorgetti pronunciasse quelle parole, il sorpasso del privato sanitario sul pubblico era già avvenuto, e da un pezzo. Nella diagnostica (Tac, ecografie, risonanze, endoscopie, ecc.), già nel 2015 il valore delle prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato equivaleva al 52% sul valore totale delle prestazioni. [2]

Secondo uno studio della Bocconi (!), tra il 1997 e il 2006, la Lombardia ha registrato un record di crescita degli ospedali privati. Da 55 che erano nel 1997, sono diventati 73 nel 2006 (+18). Ciò, mentre nel resto del paese, nello stesso periodo, si è avuta una netta contrazione.

Inoltre, secondo il ministero della Salute (anno 2016), in Lombardia su 1.931 euro di spesa sanitaria pro capite totale, quasi il 30% finanzia le strutture private (ospedali, ambulatori, laboratori). Nessun’altra regione è come la Lombardia.

Lo sbilanciamento lombardo a favore del privato è evidente anche sul piano dei ricoveri relativi: nel 2017, su 1.441.657 ricoveri totali, il privato ne ha eseguiti 494.501, il 35%, per i quali la Regione Lombardia ha versato ai privati, a titolo di rimborso, circa 2,1 miliardi, cioè il 40% dei 5,4 miliardi stanziati a bilancio.

Ma qui incontriamo un dato cruciale che spiega, in un sol colpo, il cuore del tanto decantato “modello lombardo”: come mai se le strutture private hanno completato il 35% dei ricoveri, hanno poi incassato il 40% dei fondi destinati alla sanità?

Semplice: i servizi offerti dai privati ​​costano di più rispetto alle prestazioni del pubblico.

Stesso discorso vale per visite ambulatoriali ed esami. Nel campo della diagnostica strumentale e per immagini, il sorpasso del privato sul pubblico era già presente nel 2015. Se poi consideriamo il valore delle prestazioni erogate ambulatorialmente dal privato sul valore totale delle prestazioni pubbliche e private nello stesso ambito, il privato incide per il 52%. [3]

Solo a Milano e provincia sono presenti 57 strutture di ricovero ordinario e day hospital. 26 sono pubbliche, 31 a gestione privata (54,4%).

In Lombardia gli IRCSS privati ​​(istituto di ricovero e cura a carattere scientifico) sono circa il triplo dei pubblici (14 contro 5; fonte Ministero della Salute).

Nel 2018, in una struttura privata che non funziona con il servizio sanitario, una risonanza magnetica muscoloscheletrica costava ai cittadini circa 90 euro, ma il rimborso che la Regione Lombardia ha garantito nello stesso anno ai laboratori privati ​​convenzionati era di 169 euro: l’89% in più!

Questo è il “modello lombardo” che ogni anno può contare su circa 19 miliardi di soldi pubblici: una cifra enorme.

La stessa Corte dei conti ha stabilito che – dal 2012 al 2017 – sei Regioni del Nord hanno ottenuto un incremento medio della loro quota del Fondo Sanitario Nazionale pari al 2,36%, mentre le regioni del Sud, già beneficiarie di cifre molto più piccole, dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro quota solo del’1,75%.

Dunque, dal 2012 al 2017, le regioni più ricche (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana) hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni di euro in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.

Ecco come si spiega il progressivo divario tra nord e sud: mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più, nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono stati dati solo 685 milioni in più. Nel 2017 il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità è stato assorbito dalle Regioni del Nord, il 20% da quelle del Centro, il 23% da quelle del Sud, il 15% dalle Autonomie speciali.

Ecco perché, un attimo dopo che l’assessore al Welfare regionale Giulio Gallera, aveva dichiarato che “in Lombardia non si può fare il tampone a tutti ”, si arriva a sapere che all’ospedale San Raffaele di Milano i tamponi ci sono e che vengono fatti, ma pagando 120 euro. Così facendo, i cittadini possono sapere in breve tempo se sono positivi o meno al Coronavirus. Tamponi a pagamento, ma per Gallera non era possibile farne.

E non sarebbe il ​​solo San Raffaele ad offrire tale servizio. In altre strutture i tamponi possono essere pagati anche 240 euro.

Una notizia sconcertante, se si pensa che infermieri, medici e altro personale ospedaliero, costantemente impegnati nell’arginare la pandemia da Covid, sono stati tra gli ultimi a poter fare il tampone e non tutti sono ancora testati.

Il Gruppo San Donato (GSD) è il più grande gruppo sanitario privato d’Italia; solo a Milano e provincia possiede 7 strutture di ricovero e cura, 3 delle quali sono specializzate in sistemi di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), tra cui proprio l’Ospedale San Raffaele.

Nel 2017, solo per i ricoveri, il gruppo San Donato ha incassato il 35% del totale dei finanziamenti destinati al settore privato-convenzionato. Una magnifica torta che fa gola a molti.

Ma che c’entra Angelino Alfano? Angelino è di quelli che non si ferma e vuole sempre provare emozioni nuove. E così dal luglio del 2019 è a capo proprio del GSD, con capofila Policlinico San Donato, che controlla strutture ospedaliere come il San Raffaele e il Galeazzi, oltre ad altri 19 ospedali.

Con lui c’è anche il manager svizzero-tunisino Kamel Ghribi, vice presidente nonché numero uno della GSD Middle East, il “braccio” della holding sanitaria in Medio Oriente. La GSD holding realizza 1,7 miliardi di euro di fatturato nel 2018. Nel 2019, entra alla GSD un altro nome di peso: si tratta di Federico Ghizzoni, ex amministratore delegato di Unicredit e attuale numero uno di Rothschild Italia. Una garanzia che la priorità sia la tutela della salute...

Ora il Gruppo San Donato è alla ricerca di partner internazionali di peso e punta molto in alto: l’espansione all’estero, Medio Oriente e Emirati Arabi in primis, ma anche Russia e Africa.

E dunque Alfano, dopo aver abbandonato la carriera politica mantenendo tuttavia ottimi rapporti con Berlusconi, nel settembre 2018, entra nello studio legale Bonelli per sfruttare la rete di conoscenze maturate nel periodo in cui era ministro degli Esteri. Primo incarico, la creazione di un Focus Team in Egitto su Diritto internazionale pubblico e Diplomazia economica, insieme all’ex politico locale Ziad Bahaa-Eldin, già a capo dell’autorità finanziaria egiziana sotto Mubarak, quindi vicepremier dopo il colpo di Stato di Al Sisi.

Ecco come funziona il “modello lombardo” ed ecco chi ci guadagna.

I bombardamenti di Milano durante la seconda guerra mondiale furono tra i più pesanti tra quelli subiti da una città dell’Italia settentrionale da parte delle forze “alleate”. Nel complesso le incursioni su Milano e provincia causarono allora circa 2000 vittime. Dall’inizio dell’epidemia da Covid-19 ad oggi, in Lombardia sono morte 11.851 persone, 3 volte quelle di tutta la Cina.

È un’ecatombe di cui i responsabili non intendono rispondere.

Note:

[1] Italia: cronaca di 18.000 morti stupide, di Alba Sidera, 13/4/2020 su OutrasPalavras

[2] Fonte: Open data della Regione Lombardia

[3] Ibidem.

Fonte

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