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26/04/2020

Cile - “La ribellione popolare deve approfittare di questi mesi per avanzare verso l’unità politica”

Intervista allo storico Sergio Grez. In una interessante conversazione con la Rivista De Frente, lo storico Sergio Grez riflette sulla «ribellione popolare» cilena e il suo adeguarsi alle condizioni della pandemia.

D: Come definire quanto avvenuto in Cile dal 18 ottobre dell’anno scorso: “ribellione popolare”, “esplosione sociale” "rivoluzione”?

R: Il termine “esplosione sociale” è impreciso, poiché non rende l’idea della grandezza, delle caratteristiche e contenuti di quello che sta accadendo in Cile dal 18 ottobre 2019. Al massimo lo si potrebbe utilizzare per riferirsi al momento iniziale di questo movimento perché “esplosione” ci riporta all’idea di un’esplosione inorganica di malessere sociale, uno sfogo meramente passionale, un altro “scoppio” come tanti nella storia, un movimento effimero il cui senso politico – se ce l’ha – è molto difficile o impossibile da leggere. Non è questo ciò che stiamo vivendo.

Sebbene la sua origine sia stata assolutamente spontanea (nessuno l’ha pianificata, organizzata o convocata), fin dai primi giorni era chiaro che l’insieme delle rivendicazioni sollevate dai milioni di persone, che in maniere molto distinte si esprimevano in tutto il paese, aveva come orizzonte comune il rifiuto del neoliberismo, dello Stato sussidiario, della disuguaglianza e degli abusi dei grandi imprenditori e politici professionisti, esigendo, viceversa, diritti sociali universali garantiti dallo Stato.

Il movimento in corso ha pure espresso rapidamente la propria esigenza di cambio della Costituzione mediante un’Assemblea Costituente libera e sovrana. Questi tratti di evidente politicità permettono di definire questo persistente movimento (quando è iniziato il ripiego obbligato a causa della pandemia del COVID-19 ha compiuto cinque mesi) come una ribellione popolare, non come una mera “esplosione”, e ancor meno come semplici “tumulti”. D’altro canto, la nozione di rivoluzione politica non s'addice, o ancora non s'addice, poiché non si è prodotto alcun cambiamento fondamentale nella struttura del potere, e nemmeno riforme profonde.

E non possiamo neanche utilizzare con certezza il concetto di rivoluzione sociale anche perché questo suppone una trasformazione profonda nelle relazioni sociali che possono implicare anche la presa del potere politico, cosa che suole accadere alla fine di periodi prolungati. Siccome la conclusione della grande prova di forza che si sta svolgendo in questo paese è ancora incerta, non solo mi pare inutile ma anche temerario usare concetti in maniera poco rigorosa che, più che rendere conto di una realtà accertata, sono espressione dei desideri di coloro che li coniano e li fanno circolare.

Noi sociologi, storici e analisti politici siamo sempre obbligati a “correre dietro gli avvenimenti”, è inevitabile. Per questo è meglio essere prudenti e non avanzare giudizi che non si sostengano su solide basi empiriche e teoriche poiché la realtà finisce per smentire, e persino ridicolizzare certe concettualizzazioni poco sostenibili. Ancora mi diverte ricordando che durante l’agitato 2011 numerose persone, inclusi accademici di rilievo, sostenevano, molto circospetti, che la situazione era “rivoluzionaria” o, al meno, “pre-rivoluzionaria”.

D: Che valutazione da al processo costituzionale portato avanti da Michelle Bachelet?

R: Il “processo costituente” di Bachelet non è stato altro che una raffina manovra politica destinata a impedire che si esprimesse la sovranità popolare attraverso la convocazione di un’Assemblea Costituente, consegnando la conduzione del processo alle stesse forze sociali e politiche che da un quarto di secolo stavano amministrando il sistema neoliberista.

Fin dal primo momento, abbiamo segnalato la non percorribilità di detto “processo” vista la subordinazione dell’itinerario proposto da Bachelet ai quorum super-maggioritari irraggiungibili stabiliti dalla Costituzione del dittatore per la sua riforma[1]. Ricordiamo alcuni degli assi proposti dalla ex governante.

Il Congresso Nazionale in carica all’epoca, eletto in base al sistema elettorale binominale, doveva abilitare il prossimo Parlamento (che sarebbe entrato in carica a marzo del 2018) a decidere, con un quorum di 3/5 tra quattro alternative, il meccanismo di discussione del progetto che avrebbe inviato il suo governo e le forme di approvazione. Le alternative fissate dalla Bachelet, nell’ottobre del 2015, erano: una Commissione Bicamerale di senatori e deputati, una Convenzione Costituente mista di parlamentari e cittadini, la convocazione di un’Assemblea Costituente o, in mancanza delle precedenti, che il Congresso convocasse un plebiscito, affinché la cittadinanza decidesse.

Già poche ore dopo l’annuncio della allora presidente, abbiamo sostenuto che le quattro alternative proposte non erano tali, poiché l’Assemblea Costituente era stata, in realtà, scartata. La sua inclusione puramente figurativa, oltre a facilitare la gestione delle tensioni in seno alla Nueva Mayoría (con le quattro alternative tutti i suoi componenti rimanevano più o meno soddisfatti), era solo un elemento meramente ornamentale destinato a sedurre gli ingenui e permettere che l’ala “sinistra” della coalizione governativa potesse continuare a mantenere una certa legittimità presso i suoi seguaci.

Bachelet ha promesso di consegnare al Congresso Nazionale, agli inizi del secondo semestre del 2017, il progetto della nuova Costituzione affinché, una volta sancita da questo potere, fosse sottoposta a un plebiscito vincolante di ratifica da parte della cittadinanza.

Niente di tutto questo è stato fatto, sono solo stati realizzati “cabildos ciudadanos” [n.d.t.: assemblee cittadine] formattati dalla Moneda e assolutamente impotenti (visto che non erano vincolanti) ed è stato inviato al Parlamento (meno di una settimana prima che la presidente lasciasse il suo incarico!) in marzo del 2018, una bozza di nuova Costituzione elaborata dai suoi consiglieri.

In ogni momento, dal Forum per l’Assemblea Costituente, abbiamo messo in discussione pubblicamente questo iter, segnalando che non era corretto che il centro del processo fosse radicato nel Parlamento, poiché il potere costituente non risiede in questo potere costituito, ma nella cittadinanza. Ugualmente abbiamo sottolineato il carattere puramente decorativo che avevano i “cabildos” promossi dal governo, come pure l’auto-imposizione da parte della Bachelet di un quorum super-maggioritario impossibile da raggiungere.

Quest’ultimo, abbiamo detto, si spiegava con la sua volontà di consegnare alla destra classica una porzione importante del potere di decisione affinché non si producessero cambiamenti costituzionali di fondo, al fine di continuare a preservare il modello di economia e società co-amministrato dal 1990 da entrambe le parti del duopolio. Così i difensori dello status quo presenti nel campo “progressista” avrebbero avuto come pretesto, per non fare i cambiamenti tanto attesi dalla popolazione, il logoro argomento di «non poter contare sulle maggioranze parlamentari necessarie».

Cosa che sarebbe anche servita a chiamare ancora una volta gli elettori a votare per i loro candidati al fine di ottenere una maggioranza parlamentare incline alle riforme, sbandierando persino l’alternativa dell’Assemblea Costituente come argomento meramente elettorale per raccimolare voti. La conclusione di quella storia ha provato la correttezza di quest’analisi.

D: Come interpreta il rimpiazzo del termine Assemblea Costituente con quello di Convenzione Costituente fatto dall’“Accordo per la Pace Sociale e la nuova Costituzione” del 15 novembre e dalla riforma costituzionale di dicembre 2019 che ha disegnato l’iter costituente ufficiale?

R: Il termine Assemblea Costituente non è stato incluso nell’ “Accordo per la Pace Sociale e nuova Costituzione”, né nella conseguente riforma costituzionale pubblicata il 24 dicembre del 2019 perché, di fatto, i parlamentari, assessori costituzionalisti e dirigenti politici che hanno adottato l’iter costituzionale ufficiale non avevano e non hanno nei loro piani la convocazione di un’Assemblea Costituente libera e sovrana.

Lo stesso nome dell’“Accordo” del 15 novembre – annunciato letteralmente “entre gallos y medianoche” [n.d.t.: col favore delle tenebre] – indica con solare chiarezza che il primo e principale obiettivo di questa Intesa cordiale è stato la “pace sociale”, questo è la preservazione del modello di economia e società esistente (con più o meno riforme, secondo la lettura dell’uno o dell’altro).

È stata una manovra disperata della casta politica destinata a smobilitare i milioni di persone che dal 18 ottobre persistevano – malgrado la dura repressione – nell’esprimere in piazza la loro protesta e rivendicazioni. La promessa di un processo costituente è stato l’elemento chiave per cercare di conseguire questo obiettivo.

Però non si tratterebbe di un processo costituente in cui si faciliti il libero dispiegarsi del potere costituente originario, bensì di un processo definito, formattato e delimitato dal Parlamento mediante l’imposizione di un quorum dei 2/3 per l’approvazione di mozioni sul futuro organo incaricato di redigere il progetto di nuova Costituzione, e che stabilisce dei temi tabù che non potranno essere affrontati da detto organo (come i trattati internazionali firmati dal Cile).

In questo modo, persino l’alternativa più “progressista” che è prevista per il plebiscito del 25 ottobre – la Convenzione Costituzionale – sarà ben lontana dall’essere un’Assemblea Costituente libera e sovrana. A meno che una maggioranza effettivamente progressista di quelli che risultino eletti in quell’opportunità abbia la chiaroveggenza e il coraggio politico per farlo al momento della sua conformazione.

D: È possibile un cambiamento costituzionale senza l’accordo delle élite politiche e imprenditoriali? Cosa indica l’esperienza storica nazionale? In particolare, ci piacerebbe che si riferisse al fallito tentativo di promuovere un’Assemblea Costituente durante il primo governo de Arturo Alessandri Palma.

R: Il comportamento delle élite economiche e politiche cilene è stato, fondamentalmente, lo stesso su questo piano durante più di due secoli di storia repubblicana. Mai hanno permesso che la sovranità sia esercitata dal vero titolare, la cittadinanza. Si sono sempre arrogata la sovranità mediante distinti stratagemmi: voto per censo, interventi elettorali, corruzione, processi costituenti manovrati, pressione più o meno diretta della forza militare, ecc.

Nel 1925 non furono solo le elite economiche e politiche (i “vecchi del Senato” come li apostrofava il presidente della repubblica), fu lo stesso Alessandri Palma che, dimenticando la sua promessa di convocare un’Assemblea Costituente, da solo, scelse nominativamente due commissioni, delle quali una sola funzionò, presieduta da lui stesso, e che si trasformò di fatto in una pseudo costituente che seguiva i punti di vista del Capo dello Stato e dei suoi consiglieri.

E come se non bastasse, il presidente ha portato l’Ispettore generale dell’Esercito (Comandante in Capo dell’epoca) a fare pressione sui membri della commissione a spianare la strada per dare corso all’iter e ai contenuti del progetto di Costituzione adottato da Alessandri Palma. In questo modo, la Costituzione Politica del 1925 fu approvata in un plebiscito convocato con solo un mese di anticipo, sotto la pressione dell’Esercito e con la partecipazione di appena il 42,18% del ridotto corpo elettorale dell’epoca (votavano solo gli uomini alfabetizzati maggiori di 21 anni).

Anche se questa è stata la nota dominante nei processi costituzionali durante tutta la nostra storia, è evidente che dal 18 ottobre del 2019 si è generata una situazione inedita nella quale per la prima volta esiste una possibilità reale che la maggioranza cittadina riesca a imporre un processo costituente democratico, creando le condizioni in cui questo sia possibile mediante mobilitazioni continue e un’adeguata strategia politica.

D: Molte persone in campo popolare intendono una nuova Costituzione come un “confine” che dovrebbe porre fine o, almeno, limitare gli eccessivi privilegi delle élite dominante in Cile, avanzando in questo modo verso il superamento del modello neoliberista. Condivide questa visione del processo costituente?

R: Tutte le costituzioni sono espressione di determinati rapporti di forza sociali e politici, incluse quelle disposizioni che apparentemente provocano consenso generalizzato, poiché le interpretazioni che distinti attori danno di uno stesso testo di solito sono differenti.

Di qui il fatto che la Costituzione, come pure la legislazione in generale, sia un campo permanente di disputa. Una nuova Costituzione in Cile – quale che sia il suo contenuto – sarebbe l’espressione di un rapporto di forze, della capacità degli uni e degli altri di far ruotare intorno ai propri interessi e postulati la maggior quantità possibile di volontà e appoggi.

Com’è logico supporre, nessun blocco sarà in condizione d’imporre la totalità del suo programma, premesse e principi, e questo consente di presagire che il nuovo testo costituzionale (se si arriva a plasmarlo) sarà un nuovo “confine” all’interno del quale si svolgerà una parte significativa delle future lotte sociali e politiche. E questo ci permette di percepire l’importanza della disputa per i contenuti di una nuova Costituzione.

Le grandi maggioranze, i settori popolari e progressisti in generale, sono obiettivamente interessati a conquistare contenuti della nuova Costituzione che stabiliscano la maggior quantità di diritti sociali garantiti dallo Stato, come pure il maggior ampliamento possibile della democrazia.

D: Come interpreta l’ondivago comportamento di Piñera, la sue provocazioni gratuite, per esempio le sue dichiarazioni di “guerra” o la sua comparsa in Plaza de la Dignidad nel bel mezzo della quarantena imposta nei comuni che sono intorno a quel sito divenuto un’icona?

R: Non sono psicologo né psichiatra, perciò preferisco riferirmi solo ai condizionamenti economici, sociali, culturali e politici che possono permetterci di spiegare il suo comportamento.

In questo senso, l’appartenenza di Piñera allo 0,1% più ricco del paese serve come parametro principale per spiegare la sua serrata difesa dello status quo, pure a costo di una repressione che lo situasse nella storia nazionale come uno dei personaggi più esecrabili, superato solo da pochissimi.

La sua appartenenza al microscopico settore di ultra privilegiati – i “padroni del Cile” – e alla sua espressione politica per eccellenza – la destra “classica” – è il principale elemento che spiega la sua “cecità politica”. Ricordiamo che non solo Piñera ma tutto il suo settore, e anche oltre quelle frontiere, la maggioranza della casta politica è stata sorpresa dall’“esplosione sociale” perché credevano di poterlo prevederlo.

In contrasto con numerosi leader sociali e intellettuali critici che da molto tempo – pur senza sapere il momento preciso né la forma che avrebbe assunto – sostenevano (sostenevamo) che prima o poi ci sarebbe stata un grande “scoppio social”. “Scoppio” o esplosione che, in questo caso è stato più di questo poiché ha dato luogo a una sostenuta ribellione popolare. La élite economica e politica, rinchiusa nel suo mondo di ricchezza, privilegi e potere, credendo di vivere nell’“oasi dell’America Latina”, non ha visto arrivare quello che era in incubazione nella base della società. Non potevano né volevano vederlo.

Piñera è l’espressione più adeguata di quel fenomeno, un altro esempio di come determinati interessi sociali e ideologie possono agire come veli o false coscienze che impediscono di avere visioni più o meno lucide della realtà. I tratti della sua personalità psicopatica e il narcisismo esacerbato hanno fatto il resto.

D: Che succederà ora prendendo in considerazione il violento cambiamento occorso da metà marzo e il posticipo del plebiscito costituzionale?

R: La situazione politica nazionale è imprevedibile poiché siamo di fronte a uno scenario instabile, fluido e molto complesso che, probabilmente, si manterrà tale per molto tempo. A partire dal 18 ottobre del 2019, il Cile è entrato in un periodo prolungato di convulsione sociale e instabilità politica, almeno due o tre anni. La conclusione di questa storia sarà strettamente legata al corso che assumerà il processo costituente.

Se questo abortisce come uno dei risultati possibili del plebiscito del 25 ottobre (trionfo dell’opzione “Rifiuto”), è probabile che gli atti di protesta continuino, però come combattimenti di retroguardia, in ritirata, con meno gente nelle strade di quella che c’era fino a metà marzo di quest’anno, e questo permetterebbe alle forze repressive e ai loro mandanti di agire con accresciuta brutalità poiché il campo della contestazione attiva tenderebbe a ridursi, a frammentarsi e disperdersi.

Se, come è altamente probabile, trionfa l’opzione “Approvo” accompagnata dalla formula “Convenzione Costituzionale”, nulla sarà risolto, però si manterranno vigenti diverse alternative, tra le quali quella di un’Assemblea Costituente libera e sovrana, mediante una rottura democratica che superi i confini stretti e truffaldini fissati dall’“Accordo” e dalla riforma costituzionale che ha fissato le norme del processo costituente ufficiale. In entrambi gli scenari di base, proteste sociali e forte repressione statale, saranno elementi che marcheranno i tratti fondamentali della situazione cilena.

Su questa base minima si dovrebbero considerare altri elementi che rendono ancora più complessa questa situazione, come la posizione delle Forze Armate e della grande impresa. Fino a quando saranno disposti a sostenere Piñera e il suo governo? Continueranno ad avere fiducia nella sua capacità di contenere la ribellione popolare a botte di discorsi terrorizzanti e repressione brutale? O, al contrario, arrivati a un certo momento stimeranno che il logoramento e gli errori del personaggio rendono consigliabile la sua uscita al fine del mantenimento dello status quo?

Altra alternativa – concordata tra la destra classica, la vecchia Concertación e i firmatari dell’“Accordo” del 15 novembre in generale – potrebbe essere il mantenimento di Piñera fino al termine del suo mandato, anche se ridotto a un ruolo meramente decorativo o di coordinatore di un governo di “unità nazionale” con l’obiettivo di ottenere la “pace sociale” e la stabilizzazione. In questo modo, ciascuno dei componenti di quel nuovo patto potrebbe sperar in una ipotetica ricomposizione e di ottenere dei buoni dividendi elettorali in una situazione politica “normalizzata”.

Tutto quanto sopra senza considerare gli effetti che immancabilmente produrrà il prolungato periodo di emergenza sanitaria provocata dal COVID-19 (possibilmente tutto l’autunno e l’inverno di quest’anno) [n.d.t.:da aprile a ottobre].

La sottomissione di significativi segmenti della popolazione a quarantena totale o parziale, il coprifuoco, le disgrazie che sta producendo e che continuerà a produrre il virus durante i prossimi mesi, il rafforzamento di controlli sociali col pretesto di combattere la pandemia, l’eliminazione di numerosi posti di lavoro, l’aumento galoppante della disoccupazione e precarietà economica nei settori popolari e medi, il conseguente aumento della povertà e la frustrazione sociale, i problemi di salute mentale provocati dalla prolungata reclusione e dalle restrizioni alla libera circolazione delle persone, saranno elementi addizionali che configureranno un panorama ancora più esplosivo di quello della fine dell’anno scorso.

In un scenario tanto complesso e cangiante, con potenti forze che mirano e si accordano per il mantenimento del modello attuale – con più o meno riforme – e di fronte alla carenza di un’organizzazione minima delle forze popolari con capacità di dare conduzione politica (Unidad Social non è riuscita a svolgere debitamente questo ruolo), l’orizzonte non è promettente per gli interessi delle grandi maggioranze.

Però la storia futura non è scritta, è un libro aperto le cui prossime pagine le scriveranno in relazione dialettica tutti gli attori di questo dramma. Riconoscendo il pericolo di degradazione psicologica, politica, morale e culturale che la pandemia e la crisi economica possono generare, speriamo che le forze della ribellione popolare riescano a mettere in gioco tutta la propria capacità di mobilitazione, creatività e intelligenza politica per provocare una conclusione più favorevole possibile ai loro interessi, sogni e aspirazioni.

Speriamo e facciamo il necessario affinché, come ha sostenuto recentemente il filosofo italiano Franco “Bifo” Berardi, il virus sia “la condizione di un salto mentale che nessuna predicazione politica avrebbe potuto produrre” di modo che l’eguaglianza torni al centro della scena e questo sia “il punto di partenza per il tempo che verrà.” [2]. Per ora, la cosa più importante è preservare la vita, la salute e le condizioni di esistenza della popolazione, specialmente dei settori popolari e medi, la cui fragilità si fa più evidente nel contesto di pandemia che stiamo soffrendo.

La ribellione popolare deve trovare la maniera di mantenersi in essere, almeno latente, approfittare di questi mesi per avanzare verso una base più solida di unità politica, affinare le sue proposte e il coordinamento al fine di prepararsi per il nuovo flusso di lotta sociale che prevedibilmente si inizierà in primavera, poco prima della data prevista per la realizzazione del plebiscito.

Note:

[1] Sergio Grez analizza l’annuncio presidenziale su una nuova Costituzione in una intervista realizzata dal giornalista Patricio López, Santiago, Radio Universidad de Chile, 14 ottobre 2015: http://radio.uchile.cl/reproductor-en-popup?id=344557&time=0&mode=fu

[2] Franco “Bifo” Berardi, “Crónica de la psicodeflación”, in Giorgio Agamben, Slavoj Zizek et al., Sopa de Wuhan. Pensamiento contemporáneo en tiempos de pandemias, Editorial A.S.P.O. (Aislamiento Social Preventivo Obligatorio), marzo 2020, pág. 54.

(traduzione di Rosa Maria Coppolino)

*da http://revistadefrente.cl/la-rebelion-popular-debe-aprovechar-estos-meses-para-avanzar-hacia-una-base-mas-solida-de-unidad-politica-entrevista-al-historiador-sergio-grez/

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