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27/04/2020

Una “riapertura” da pazzi scriteriati

Il governo Conte ha varato ieri sera il decreto per la “ripartenza” delle attività economiche. Tutte, con un calendario ancora molto in discussione, ma senza eccezioni. Il tutto mentre il contagio ha – sì – rallentato un po’ la sua corsa, ma permane a livelli altissimi.

Una decisione schizofrenica, come da due mesi a questa parte, perché da un lato riguarda tutto il territorio nazionale senza alcuna distinzione tra aree ad alto rischio e territori sostanzialmente “sicuri”, dall’altra colpevolizza preventivamente i singoli cittadini per l’eventuale – prevedibilmente certa – risalita della “curva” dei contagi.

Ancora una volta sembrano aver prevalso le pressioni di Confindustria e Confcommercio. Anche perché, in assenza di una qualsiasi politica europea coordinata, ogni paese del Vecchio Continente è spinto a “ripartire” per proprio conto, cercando di non perdere troppo terreno rispetto ai “competitori” – più che partner – dell’Unione.

Un agire scomposto e dissennato di fronte alla pandemia, che sarà certamente aggravato (a livello nazionale) dall’accavallarsi di “delibere regionali” che introdurranno eccezioni, rallentamenti o accelerazioni motivate più dalla necessità di “distinguersi” che da quelle sanitarie.

Del resto era stato lo stesso epidemiologo Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto superiore di Sanità, a spiegare che “Per noi della sanità il rischio accettabile è zero, per gli economisti è 10”. Il prof, politicamente accorto, ha detto “economisti”, ma la definizione investe ovviamente gli imprenditori, che del rischio altrui sistematicamente se ne fregano (a parte eccezioni lodevoli quanto rare).

Il governo, con il decreto che qui potete consultare (DPCM e allegato del 26 aprile 2020.pdf), ha scelto “un rischio 9,5”, potenzialmente catastrofico, ma con responsabilità rovesciata sui cittadini. Come se “gli assembramenti” sui mezzi pubblici o nei luoghi di lavoro (per una impresa che modifica la propria organizzazione del lavoro ce ne sono dieci che non possono o non vogliono farlo) fossero una passeggiata di salute, mentre solo quelli “ludici” pericolosi.

Abbiamo spiegato più volte, fino alla noia, che anche noi avremmo riaperto diverse attività produttive, ma su una base territoriale attenta alla diffusione del virus e in seguito a uno screening di massa affidabile (con i tamponi, insomma, non con i soli “esami sierologici”). Quindi anche prima, nelle zone a basso rischio.

Per spiegare di cosa stiamo parlando rinviamo – qui di seguito – all’intervista fatta da Business Insider al prof. Andrea Crisanti, “il virologo che ha salvato il Veneto” convincendo persino uno come Zaia (quello che protestava, la sera dell’8 marzo, perché si mettevano in “zona arancione” tre province venete) ad adottare i tamponi a tappeto.

Infine, segnaliamo il commento politico di Giorgio Cremaschi, portavoce di Potere al Popolo, che sintetizza da par suo la “logica” sottostante il discorsetto di Conte, ieri sera.

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Dio e mascherina

Giorgio Cremaschi Potere al Popolo!

“Dobbiamo CONVIVERE col coronavirus “. Questo è il concetto di fondo e la prima frase di Conte nella sua conferenza stampa. I provvedimenti che annuncia sono tutti di conseguenza a questo.

Il paese riparte con aree ancora in piena epidemia adottando quel modello eguale per tutti che è alla base della strage di 26000 morti. Avrebbero dovuto chiudere tutto davvero nelle province del Nord dove si diffondeva il contagio e mantenere misure di contenimento altrove. Invece, per obbedire a Confindustria, governo e regioni non hanno mai dichiarato zone rosse definite, ma trasformato tutta l’Italia in una zona arancione.

Il modello cinese non è MAI STATO APPLICATO, il lockdown non c’è stato soprattutto in Lombardia e Piemonte, dove, come dimostra l’INPS, le fabbriche aperte hanno aumentato i contagiati di almeno il 25%. Oggi si dovrebbero trattare diversamente Umbria e Lombardia, Potenza e Milano.

Siccome però i padroni spingono si fa esattamente ciò che chiedeva Fontana: riaprire tutto il 4 maggio. Poi ce la si prenderà con chi non mette le mascherine ai nipoti che vanno a trovare i nonni e con chi non tiene la distanza di sicurezza in casa, mentre su fabbriche e trasporti si chiuderanno occhi bocca e orecchie.

Siamo di fronte al colossale fallimento di tutta la classe dirigente e di tutto il sistema Italia, che riparte senza dati certi e senza misure vere di sicurezza, con un bilancio di vittime inferiore solo a quello degli Stati Uniti.

E questa catastrofe viene presentata come una vittoria, mentre la propaganda del “andrà tutto bene”, ripresa in pubblicità da Toyota, Barilla, Mediaset tutti, colpisce quei nemici della patria che sollevano obiezioni.

Ora si riapre, “basta con gli spiriti antindustriali” ha detto Conte; e che Dio e mascherine ci proteggano.

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Crisanti, il virologo che ha ‘salvato’ il Veneto: “Non mancano i tamponi, ma la volontà di farli. Sbagliato riaprire tutti il 4 maggio”

Gea Scancarello – Business Insider

Andrea Crisanti è un cervello di ritorno: professore di parassitologia molecolare all’Imperial college di Londra, è rientrato in Italia come direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell’Università (e azienda ospedaliera) di Padova, portando competenze preziose. In questi giorni è infatti noto soprattutto per essere l’uomo che ha guidato il Veneto fuori dall’emergenza coronavirus, risparmiando alla regione uno scenario catastrofico come quello lombardo e che è stato indicato da Ernesto Burgio come uno dei pochi se non l’unico vero esperto italiano.

In controtendenza netta e isolata con le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), Crisanti ha insistito per fare i tamponi a tutti i contatti dei presunti infetti, riuscendo a bloccare l’epidemia sul territorio prima che dilagasse negli ospedali.

Eppure, dice, che ancora oggi “questa decisione strategica non è stata fatta propria da altre regioni”. Gli abbiamo chiesto allora di spiegarci il mistero dei tamponi che non si fanno e il nuovo fiorire di test sierologici (“Non servono assolutamente a nulla”).

Ci aiuta a capire una volta per tutte perché ancora ci sono malati o persone che chiamano con sintomi a cui non vengono fatti tamponi? Mancano i materiali? Non c’è la volontà?

È un insieme di cose. All’inizio sicuramente i reagenti sono mancati, ma non credo che adesso siano più un grandissimo problema: penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli ai contatti e a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione. Se non si capisce l’importanza di questa strategia di fatto rimarremo sempre con queste polemiche...

La strategia in Veneto ha funzionato, possibile che ancora gli altri non abbiano capito?

Possibile, sì. In altre regioni si pensa che il tampone serva solo a fare la diagnosi. In realtà, se arriva una persona che sta male, da sette-otto giorni, con tutta la sintomatologia canonica e il quadro radiologico, il tampone non c’è nemmeno bisogno di farlo: dovrebbero farlo invece tutte le persone con cui la persona è entrata in contatto. È, insomma, essenzialmente una questione di decisioni strategiche.

Se non si cambiano queste decisioni strategiche corriamo dei rischi il 4 maggio, alla riapertura?

I rischi esistono perché c’è ancora tantissima trasmissione: tremila casi al giorno sono ancora molti, mica pochi.

Vengono raccontati però come fossero un successo.

Certo, perché eravamo abituati ad altri numeri.

Dove ci si contagia oggi, quali sono i focolai presumibili?

Principalmente a casa e nelle istituzioni, cioè nelle Residenze sanitarie per anziane (Rsa). E poi, ovviamente, nelle fabbriche o in altri ambienti di lavoro: ci sono anche tantissime attività produttive o commerciali che sono attive.

A questo proposito servirebbero informazioni più certe sul virus stesso. Molti dovranno per esempio riaprire gli studi professionali nei prossimi giorni, dovranno aprirsi al contatto col pubblico. Di cosa devono preoccuparsi, concretamente: disinfettare le superfici, mettere divisori in plexiglass o che?

Se le persone usano le mascherine le possibilità che il virus si depositi sulle superfici è di fatto limitata. Certo, il virus resiste sulle superfici in determinate condizioni di temperatura e umidità, come è stato dimostrato in diversi studi: tuttavia, le mascherine aiutano anche in questo, perché bloccando il passaggio delle goccioline danno al virus meno possibilità di depositarsi. Detto questo, certo, anche i plexiglass aiutano.

Cosa sappiamo dell’immunità e di possibili riattivazioni, come quelle denunciate in Corea?

Nulla, assolutamente nulla.

Quindi i test sierologi che ci apprestiamo a fare che valore hanno?

Nessuno, soltanto, chiamiamolo così, un valore epidemiologico, per capire dove il virus si è diffuso in maniera più estesa.

Esistono però casi di persone che erano convinte di aver fatto la malattia, anche se in forma debole, a cui i sierologici non hanno rilevato nulla...

Appunto, continuo a ripeterlo: non servono a nulla questi test.

Con queste pochissime certezze, a che estate andiamo incontro?

È difficile da dire, onestamente non lo so. Stiamo affrontando questa cosa in maniera troppo caotica: ogni regione si sta organizzando in maniera diversa mentre ci vorrebbe una risposta unitaria.

Ma il governo sta cercando di stroncare le spinte regionali e riaprire con regole condivise il 4 maggio.

Il punto è che aprire tutti il 4 maggio è sbagliato! Non tutte le regioni sono pronte, non si conosce l’incidenza della malattia per giorno, per regioni e per classi di popolazione... insomma, è un pasticcio. E d’altronde è sotto gli occhi di tutti: può la Lombardia essere paragonata alla Calabria o alla Sicilia? Sono regioni che hanno casi diversi e capacità di affrontarli diversi, e comunque né per l’una né per le altre sappiamo quali sono i contagi giornalieri. Io rimango basito. Queste sono le cose che non vanno bene: sa quante persone sono state abbandonate a se stesse in questo periodo? Non ne ha idea...

Con chi dovremmo prendercela?

Chiaramente l’epidemia era un evento in qualche modo imprevedibile, nel senso che non era successo in 80 anni: il fatto che non fossimo preparati è deprecabile ma può essere in qualche modo giustificato. Quello che non è giustificabile è riaprire essendo ancora impreparati: questo proprio non va bene.

Molti hanno seguito le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), ma si sono rivelate sbagliatissime. Perché l’Oms ha sbagliato?

Perché non prevedevano il fatto che ci fosse un grande numero di asintomatici, essenzialmente.

Si sono basati su studi cinesi e i cinesi non sono mai stati trasparenti, né sull’inizio della malattia né sul numero dei casi: parliamo di un Paese in cui la trasparenza non è un valore e tutte le informazioni che fornisce vanno prese con un certo scetticismo. Invece l’Oms le ha prese come oro colato e la ha trasmesse a tutto il mondo, con le conseguenze che stiamo vedendo.

E lei come ha fatto a decidere che l’Oms stava sbagliando?

Noi ce ne siamo accorti facendo i tamponi a Vo’: ci siamo resi conto che c’era una percentuale grandissima di persone asintomatiche ma positive.

Aver insistito sui tamponi è stato essenziale, insomma. Ma voi lo avete detto a tutti gli altri per avvertirli?

Certo. Lo abbiamo detto a tutti e si trattava inoltre di dati disponibili, forniti a tutti dal Veneto. Chi avesse voluto, avrebbe potuto vederli, capirli, usarli.

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