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23/04/2020

Lenin non è un elastico che si può tendere a piacimento. Una replica a Tariq Alì

La figura teorica e politica di Vladimir Lenin è – da sempre – al centro delle discussioni e delle diatribe di quanti si interessano alle scienze sociali. La storiografia borghese ha costantemente accreditato una descrizione di questo grande rivoluzionario accostandolo a quella dei sanguinari, dei banditi e dei despoti. La stessa Rivoluzione d’Ottobre – in tutte le sue fasi – viene descritta come un astuto push militare disconoscendo il lungo ed articolato percorso di elaborazione teorica e di azione pratica e negando, di fatto, il fondamentale ruolo di attivizzazione e di protagonismo di sterminate masse di persone schiacciate dalla miseria e dal potere dello Zar.

Esistono – poi – specie nel variegato campo della “sinistra internazionale” e nell’arzigogolato campo della cosiddetta accademia progressista tutta una serie di individui e/o “scuole di pensiero” le quali declinano il pensiero e l’opera di Lenin a piacimento delle loro convinzioni politiche contingenti.

Tale malcostume teorico spesso è una conseguenza inconsapevole di una diffusa ignoranza teorica circa lo studio serio delle opere di Lenin ma – molte volte – è una consapevole “riduzione/adattemento del pensiero di Lenin” alle scelte politiche spicciole ed al misero politicismo immediatista.

Nei giorni scorsi il quotidiano il Manifesto ha pubblicato, nell’inserto culturale Alias, una intervista di Yurii Colombo a Tariq Alì il quale ha scritto un libro “Dilemmas of Lenin” in cui ci sono i risultati di una ricerca su “aspetti poco noti della personalità di Lenin”. Questa intervista è stata ripresa – nell’ambito di una positiva attenzione al dibattito marxista ed alla discussione tra i comunisti – dal quotidiano on line Contropiano.org nella rubrica Fattore K.

Nell’impossibilità di leggere il testo nella sua interezza mi limito – sommessamente – in questa nota ad evidenziare alcuni punti di vista di Tariq Alì contenuti nell’intervista i quali, a mio giudizio, sono delle pure impressioni soggettive e delle forzature interpretative le quali, al più, possono essere ascritte all’universo delle “opinioni personali” e non a quelle di un auspicabile bilancio rigoroso del percorso di Lenin tale da meritare la stesura di un libro specifico.

Tariq Alì si spinge in una “esplorazione psicologica” che insiste sulle vicende amorose ed al più compiuto arco di contraddizioni derivanti dalle relazioni sentimentali ed umane del rivoluzionario russo. Un versante – questo in particolare – che è stato più volte “esplorato” da tanti analisti e commentatori i quali, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno avuto una modalità di indagine storiografica da “guardoni dal buco della serratura” alla ricerca di questo o quell’aspetto scandalistico.

Anzi – volendola dire tutta – questi “storici della domenica” hanno reso un cattivo servizio proprio alle donne che intendevano “tutelare” – Nadia Krupskaya e Inessa Armand – relegandole (ed anche i loro innegabili contributi politico/pratici alla lotta) ad un ruolo marginale o ad una funzione da “angeli del ciclostile” (per usare una definizione coniata dal movimento femminista degli anni '70).

Ma è nell’enucleazione del percorso politico (e delle conseguenti scelte) operate da Lenin che Tariq Alì si lancia in supposizioni le quali non tengono assolutamente conto del contesto collettivo in cui agiva Lenin riducendo tutti i passaggi operati – nel gorgo di quei tumultuosi e terribili anni – a scelte compiute sulla base di “atti soggettivi” quasi istintivi.

Le discussioni e le contraddizioni (anche profonde) che avvenivano nel partito, la dialettica, mai lineare tra Partito e Soviet, sono ridotte alle conseguenze pratiche della personalità di un Trotsky, di un Bucharin o di Stalin. Questo ultimo, poi, descritto sempre con un alone di torbido che fa il paio, non so quanto lucidamene da parte di Alì, con una narrazione storica deviante e cara agli apologeti del capitalismo. Del resto la stupefacente tesi che le personalità possono, da sole, modificare il corso della storia mi sembra lontana dal materialismo storico.

Insomma, dal racconto di Tariq Alì, sembra che i compiti politici che il Partito si trovò ad affrontare dopo l’Ottobre (la guerra civile, le sfide economiche e il varo della NEP) sono ridotti ad una sorta di “congiura di Palazzo” o ad un confronto tra “personalità forti”.

Lungi da me non riconoscere l’ampio ed articolato arco di posizioni che convivevano nel Partito Russo (ma in quale Partito Comunista degno di tale nome non esiste un appassionato ed a volte aspro dibattito?) e lungi da me non riconoscere che – spesso – questo “confronto” debordò dai canoni classici della discussione approdando a scelte “ultimatiste” che non hanno favorito lo sviluppo del processo rivoluzionario e la rottura dell’accerchiamento imperialista contro la Russia Sovietica.

Da qui, però, a riesumare (come fa Tariq Alì) lo scontro tra le “personalità” con al centro di tale disputa un Lenin ondivago e quasi libertario, secondo me, è una distorsione che non favorisce la conoscenza della rivoluzione russa, dei suoi protagonisti e – soprattutto – degli enormi snodi politici e materiali che dovette affrontare specie nel momento in cui il processo rivoluzionario fu sconfitto in Germania, in Italia ed in Ungheria e la Russia si ritrovò da sola contro le “armate controrivoluzionarie”.

Infine – ma qui, forse, è la domanda di Colombo a forzare la risposta di Tariq Alì – il parallelismo automatico (e quasi senza considerare il contesto specifico) tra la Nuova Politica Economica di Lenin e la fase della “modernizzazione cinese” avviata dopo la morte di Mao e la seconda ascesa ai vertici del PCC di Deng.

Non sono tra gli apologeti a priori dell’attuale corso del Partito Comunista Cinese ma incasellare schematicamente la (complicata) sfida che la Cina sta ingaggiando con il Modo di Produzione Capitalistico dentro una (semplice) modalità da “nuova NEP” mi sembra riduttivo e, francamente, strumentale. La stessa insistenza sulla crescita delle diseguaglianze in Cina come un prodotto di questa “nuova NEP” mi sembra una grossolana imprecisione che non tiene conto neanche delle ultime modificazioni strutturali avvenute sul terreno, dell’organizzazione sociale, dei ventagli salariali e di alcuni rapporti di proprietà nei confronti delle corporation straniere.

Nella Cina d’oggi – citando gli stessi documenti ufficiali del PCC – non è in atto una NEP (tantomeno una sua versione riveduta e corretta) ma un processo di lungo periodo e misurabile in diversi decenni, verso l’obiettivo di una “società armoniosa” che potrà (sottolineo l’utilizzo grammaticale del futuro) fondarsi sul “socialismo con caratteristiche cinesi”. Quindi ci troviamo di fronte ad una forma politica inedita, nuova nella storia del movimento comunista internazionale e non riconducibile e/o paragonabile a nessuna esperienza già consumata di forme politiche della transizione socialista verificata fino ad ora.

Stonano, quindi, gli automatici parallelismi che Tariq Alì prospetta nella sua comparazione storica con il risultato pratico di non fare un buon servizio né al pensiero di Lenin e né a quelli delle masse cinesi penalizzate – a suo dire – dai “dispositivi di diseguaglianza del regime cinese”.

Lenin – ancora oggi – nel XXI° Secolo non è un “cane morto”!

A tale proposito continuo a ritenere che dobbiamo ostacolare ogni tentativo, conscio o meno, di musealizzare la figura di Lenin e/o di renderla una icona inoffensiva.

In Italia abbiamo già pagato un costo teorico e politico sotto i colpi di questa scientifica manipolazione. Un costo consumato non solo nel cielo dell’astrazione teorica ma sul materiale piano dell’identità, della storia e dell’azione dei comunisti.

La tradizione piccista (del Partito Comunista Italiano ma anche di alcune sue derivazioni che volevano rifondare il comunismo) ha vivisezionato l’opera di Lenin per selezioni e scissioni del tutto arbitrarie: la NEP veniva contrapposta al Lenin “insurrezionalista” oppure il saggio “Stato e Rivoluzione” serviva per alimentare il feticcio immutabile della eterna vigenza della macchina statuale e, magari, la conseguente represssione poliziesca contro il movimento di classe.

Su tale versante abbiamo già dato e sarebbe paradossale oggi – in uno scorcio temporale in cui il capitalismo mostra la sua criminale irrazionalità e i limiti del suo modello sociale a scala globale – alimentare ricostruzioni “storiografiche” arbitrarie e depistanti.

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