Sono una docente di scuola superiore.
E la prima cosa che mi viene da urlare in questi giorni è “non sono la tua tata”.
Lo so, è una reazione di pancia, ma credetemi è sfiancante leggere i tanti commenti e i tanti articoli che chiedono la riapertura immediata delle scuole
dopo la chiusura a causa dell’emergenza coronavirus, perché altrimenti
“le mamme dovranno lasciare il lavoro”, “le famiglie non sapranno come
fare”.
La funzione principale della scuola, però, non è quella di badare ai
figli degli altri mentre i genitori sono a lavoro, ma è quella di
educare e formare le cittadine e i cittadini del futuro, nella
conoscenza e nel rispetto della nostra Costituzione.
Siamo professioniste e professionisti che devono garantire il diritto all’istruzione e alla formazione delle persone, non siamo una forma di welfare per le famiglie (anche se spesso, impropriamente, svolgiamo anche questa funzione).
Io amo il mio lavoro.
Dal giorno uno della chiusura, io e migliaia di altre/i docenti ci
siamo arrangiati in tutti i modi e coi nostri mezzi per continuare il
percorso educativo delle e degli studenti, spesso lavorando ben oltre le
36 ore settimanali, rimanendo reperibili in qualsiasi orario, cercando
strategie nuove, preoccupandoci di raggiungere anche gli studenti in
maggior difficoltà. Ci hanno gettato addosso la didattica a distanza e la maggior parte (la grande maggioranza) di noi ha fatto e continua a fare del suo meglio.
E credo che tutte e tutti non vediamo l’ora, allo stesso tempo, di
tornare in classe, di ricominciare un rapporto in presenza, perché
sappiamo bene che la didattica a distanza non può essere un nuovo modo di fare scuola
(può al massimo affiancarla), sappiamo che aumenta le differenze di
classe e che va a detrimento delle e degli studenti più in difficoltà.
Sappiamo che attraverso uno schermo parte del nostro lavoro, quello che
consiste nel creare una comunità di apprendimento, non è realizzabile.
Proprio per tutto questo, vedere ridotta la nostra funzione a quella di mero babysitteraggio di Stato è svilente.
Intendiamoci, capisco la preoccupazione, la
disperazione e la rabbia di molte famiglie. Anche se figli non ne ho,
questo non mi impedisce (come invece qualcuno sembrerebbe pensare) di
essere empatica. Capisco che, non solo la mancanza di una prospettiva da
parte dello Stato per maggio e giugno sia spaventosa, ma il fatto che
non vi siano certezze, che non vi sia un piano d’azione concreto per
settembre, sia drammatico.
Lo è per studenti e famiglie, ma lo è anche per noi che a scuola lavoriamo (lo è ancora di più per chi è precario).
Per questo dico ai genitori e a chi ne fa le veci che state sbagliando obiettivo.
Riaprire la scuola come se nulla fosse può essere il boomerang che riaccende l’epidemia. Si scrive che le persone giovani sono quasi immuni
(ne siamo sicuri? Non è che in Italia si sono salvati perché
diligentemente, e questo fa loro molto onore, sono state le prime
persone a starsene in casa?), ma non significa che non possano
contribuire a diffondere il virus, a riportarlo nelle case, ad
attaccarlo alle persone adulte che nelle scuole ci lavorano. Significa
costringere molte e molti studenti a prendere i mezzi pubblici, a stare
in aule dove le distanze di sicurezza minime sono pura fantascienza.
Si fa un gran parlare di quello che fanno all’estero, dove, però, (penso alla Danimarca) la situazione della scuola è radicalmente diversa. Siamo uno dei paesi che investe meno nella scuola. Il che significa meno personale, edifici spesso fatiscenti e inadeguati, una cronica mancanza di spazio (le famigerate classi pollaio), strutture senza neppure un cortile o una palestra adeguata, dotazioni tecnologiche non sufficienti se non inesistenti.
Quello che dobbiamo chiedere, tutte e tutti, è un piano serio per
tornare in tutta sicurezza a settembre, anche se il virus non fosse
sparito. È la certezza che si faccia di tutto per garantire il diritto allo studio.
Che si investa nell’edilizia scolastica, nell’assunzione di personale,
nella dotazione didattica e tecnologia delle scuole (di tutte le scuole,
in tutti i territori dello Stato).
Che ci dotino di spazi adeguati per rispettare il distanziamento sociale
(anche con la turnazione), magari ci permetta di utilizzare spazi
all’aperto almeno per alcune ore al giorno. Che si assuma il personale
che manca, per garantire lo studio in gruppi più piccoli e più
funzionali a un reale coinvolgimento di tutte e tutti
nell’apprendimento, che possa aiutare anche le e gli studenti con
bisogni educativi speciali. Che possa permettere alla scuola di
diminuire, se non azzerare, le differenze tra le figlie e i figlie di
chi ha tanto e di chi ha poco o niente.
E che nel frattempo sia lo Stato a prendersi carico dei disagi delle famiglie,
che a parole dice di porre sempre al centro della propria politica. Non
bastano 600 euro una tantum e un congedo parentale di quindici giorni
con stipendio ridotto. Si permetta ai genitori di lavorare da casa, si
permetta a quelli che non possono di usufruire di un congedo parentale
con retribuzione al 100% equamente diviso tra i genitori, un congedo che non sia un modo per tenere fuori dal lavoro le donne.
Dicono che la chiusura delle scuole è una misura “antifemminista”.
Io penso che si indichi la Luna e si guardi il dito: se il peso del lavoro di cura ricade sulle donne, non è certo colpa della scuola (composta anche questa, in maggioranza, da donne, a riprova del fatto che è considerata più un’appendice del lavoro materno che un’istituzione volta a garantire un diritto), ma di una società patriarcale che non ha mai veramente cambiato mentalità.
Smettiamola con la logica della guerra tra poveri, tra genitori e
personale scolastico, e cominciamo a pretendere che sia chi governa a
dare risposte adeguate alle cittadine e ai cittadini.
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