La crisi economica e sanitaria legata
alla pandemia Covid-19 pone l’Italia di fronte alla più grave perdita di
prodotto e occupazione che si sia mai registrata negli ultimi decenni,
sommandosi agli effetti già disastrosi della doppia caduta del 2008-2009
e del 2011-2012. Le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale
prevedono una perdita in termini di Pil di 9,1 punti percentuali su
base annua, mentre altre superano la doppia cifra, come nel caso di Goldman Sachs (-12%) e di Unicredit (-15%).
La gestione di questa crisi dipenderà
molto dalla reazione che sarà messa in campo dal governo italiano
all’interno del quantomai problematico contesto europeo. L’andamento del
Pil è infatti fortemente dipendente dalla politica di bilancio: una
maggiore spesa pubblica in deficit implica direttamente un aumento del
reddito, a cui si somma il reddito generato dalle ulteriori spese
permesse dall’iniezione iniziale di potere d’acquisto. È il principio
del moltiplicatore fiscale: per ogni euro di spesa pubblica,
nell’economia si crea più di un euro di reddito complessivo. Questi
effetti benefici sull’attività economica sono particolarmente intensi
nelle fasi recessive, caratterizzate da moltiplicatori fiscali più
elevati. Serve, in poche parole, uno shock fiscale di dimensione adeguata nel più rapido tempo possibile.
Nonostante il governo si appresti a varare misure di portata superiore a quella del decreto Cura Italia,
l’intervento non è ancora sufficiente. Possiamo farci una idea della
scala di intervento necessaria osservando il panorama internazionale.
Tra i Paesi europei, la Germania ha stanziato 156 miliardi di euro (4,5% di deficit aggiuntivo a quello previsto)
di misure fiscali di varia natura, che possono arrivare a 200 (5,7%) in
caso di necessità. Gli Stati Uniti stanno implementando un piano da
2.200 miliardi di dollari, il Giappone un equivalente di circa 920 miliardi di euro.
L’espansione necessaria è quindi ben più marcata di quella al momento
in discussione in relazione al cd Decreto Aprile e alle prospettive
ventilate all’Eurogruppo del 7 Aprile.
Oggi anche i più strenui difensori dell’austerità si fanno promotori di politiche fiscali espansive e di un robusto intervento pubblico. Perché gli economisti mainstream – persino i sostenitori dell’austerità espansiva – si riscoprono improvvisamente “keynesiani”? Se ci pensiamo bene, non dovrebbe sorprendere più di tanto: poiché la crisi minaccia i profitti d’impresa, e dunque il sistema stesso,
le risorse finanziarie necessarie per mantenerlo in piedi vanno trovate
ad ogni costo. Le politiche keynesiane di breve periodo a seguito di
una crisi sono sempre piaciute ai padroni, in quanto utili a salvare i
profitti mentre i lavoratori vengono disciplinati dall’aumento della
disoccupazione; niente di nuovo sin qui. Ciò che farà la differenza sarà
il modo in cui si troveranno tali risorse e le specifiche voci di
spesa finanziate. Se in tempi di crisi c’è un consenso generalizzato
sulla necessità di aumentare la spesa,
è la composizione della spesa pubblica aggiuntiva messa in campo ad
essere cruciale rispetto al conflitto distributivo – chi pagherà
maggiormente la crisi? – e all’organizzazione produttiva nel suo
complesso, che dovrebbe essere ripensata.
Nel breve periodo, pare fuori discussione
la necessità di garantire continuità di reddito a famiglie e
lavoratori, che hanno perso il lavoro o subìto un ridimensionamento
serio delle proprie entrate. La platea di coloro che rischiano di non
avere i soldi per fare la spesa rischia di allargarsi in modo
inverosimile, mettendo a rischio la stessa coesione sociale del Paese.
Da questo punto di vista, sembra logico implementare un ‘reddito di emergenza’
in un contesto in cui la creazione diretta di lavoro da parte dello
Stato sarà gioco forza limitata dalle iniziali esigenze di
distanziamento sociale dettate dalla pandemia. Nel medio periodo,
tuttavia, si dovrà fare molta attenzione rispetto al tema del lavoro,
dei salari e dei licenziamenti: il pericolo è quello di una tutela
dell’occupazione limitata nel tempo. Ciò che per ora abbiamo avuto è
però il solito cedimento alle ultime richieste della classe
imprenditoriale. Volevano liquidità – subito e in dosi massicce – e l’hanno ottenuta con il Decreto Liquidità
per un totale di 400 miliardi di euro, nonostante la liquidità
immediata e differita a disposizione delle imprese con più di 50
dipendenti ammonti complessivamente a più di 500 miliardi di euro.
Questa crisi investe a livello internazionale anche il lato dell’offerta, che dava segnali di rallentamento significativi già
prima della diffusione del virus. L’intensa interconnessione economica
internazionale che ha caratterizzato la globalizzazione neoliberista si è
tradotta finora in filiere produttive lunghe, ma già da qualche anno il sistema è in via di trasformazione e
la crisi accelera questo processo. In altre parole,
l’organizzazione produttiva e la divisione internazionale del lavoro
subiranno un processo di trasformazione e abbiamo bisogno di rimettere al centro la programmazione pubblica e la politica industriale
per governare tale processo e non subirlo passivamente. Si pone
innanzitutto la necessità di accorciare – finanche ridurre a livello
nazionale – la filiera nei settori fondamentali, ossia quelli che
forniscono beni di prima necessità (agroalimentare, biomedicale,
distribuzione, infrastrutture essenziali). L’autosufficienza sui beni
essenziali dovrebbe essere uno dei pilastri di una nuova politica
industriale, utile a riequilibrare un modello di sviluppo eccessivamente
basato sulle esportazioni. Persino alcuni dirigenti dell’FMI
hanno riconosciuto che, per garantire il funzionamento dei settori
essenziali, l’intervento pubblico potrebbe comportare la conversione di
interi blocchi industriali e nazionalizzazioni selettive.
Il tessuto produttivo italiano dovrà affrontare sia le conseguenze della chiusura delle attività non essenziali in loco, sancita – non senza pesanti criticità
– dal decreto del 22 marzo, sia la disintermediazione delle catene
globali del valore all’interno delle quali è inserito. La fornitura dei
beni intermedi nei diversi processi produttivi subirà necessariamente
degli sconvolgimenti, causati dai lockdown a livello
internazionale, che implicano un ripensamento complessivo delle filiere
produttive e della politica industriale. La stessa produzione dei beni
di consumo a basso valore aggiunto andrà ripensata radicalmente, per
rispondere alle esigenze del Paese in un contesto in cui il commercio
internazionale subirà una pesante battuta d’arresto.
Proposte per un nuova politica
industriale pubblica si sono sprecate negli ultimi anni, ma la crisi sta
cambiando il quadro e queste tesi potrebbero diventare la normalità. Questa possibilità è confermata dal dibattito su una “nuova IRI”.
Ricordiamo come l’IRI sia nata nel 1933 col fine di salvare il capitale
privato in crisi mediante un forte interventismo pubblico. Dopo la
Seconda Guerra Mondiale però, quell’IRI, con a sostegno l’EFIM e l’ENI
diventa regista di un sistema di pianificazione e intervento assai più
pervasivo e in grado di sottrarre tramite un sistema di partecipazioni
permanenti nelle imprese private, quote di profitto, ma soprattutto
regia decisionale agli attori privati. E lo fa al fine di tutelare (tra
le varie cose) lo sviluppo territoriale del Paese (cassa per il
mezzogiorno), l’occupazione, la produzione interna. A seguito del
progressivo esaurimento di quella fase storica, l’IRI è stato
trasformato nel 1992 in una società per azioni al fine di favorire
l’oceanica ondata di privatizzazioni italiane durante gli anni '90;
nel 2002 chiuderà definitivamente i battenti.
Uno spiraglio di dibattito per una sua rinascita ha trovato spazio addirittura in sede FMI, sul giornale della Confindustria e nelle lamentele dell’ex ministro dell’Economia Tria
circa la sottrazione del Dipartimento Programmazione dal MEF da parte
della Presidenza del Consiglio. Queste trasformazioni non sono tuttavia
scontate, né seguono necessariamente un percorso predeterminato.
Persiste una sorta di resistenza ideologica a formule ritenute
“nostalgiche”, nelle parole del presidente Conte,
come se non fosse possibile ripensare la programmazione pubblica in
termini di digitalizzazione della PA, investimento nella sanità pubblica
e nelle fatiscenti infrastrutture nazionali, innovazione. Se poi
guardiamo a Confindustria, il neopresidente designato Bonomi ha rifiutato nettamente questa impostazione
e un maggiore interventismo pubblico. Ma si sa, il capitalismo italiano
è fatto così, lo Stato serve solo quando c’è da socializzare le perdite
nei momenti di crisi o a garantire profitti d’oro con le
privatizzazioni. Se da un lato non ci sono dubbi sulla necessità di un
intervento pubblico forte nell’economia, dall’altro il dibattito sulle
modalità di implementazione non è un argomento secondario. È arrivato
infatti il momento di chiedere che i grandi monopoli naturali tornino
sotto il controllo completo dello Stato e che le aziende in difficoltà
non siano salvate con prestiti a scadenza trentennale, ma con l’ingresso
dell’attore pubblico attraverso l’acquisto di partecipazioni
significative, quantomeno per quanto riguarda le attività ritenute
strategiche. Questi interventi necessitano di un’agenzia pubblica ad
hoc: sia una nuova IRI o la CdP non è rilevante, ma che abbia la
struttura amministrativa e le risorse sufficienti a rimettere la
programmazione e un orizzonte di sviluppo almeno ventennale sul tavolo
della politica italiana.
Tuttavia, a fronte di queste sfide
epocali, il governo non ha neanche l’intenzione di accennare il primo
passo in questa direzione: sfidare l’Unione Europea.
Questo lo condanna a fare poco e niente, se non lo stretto necessario
per non far morire di fame le persone e non turbare i sonni dei padroni.
In questo contesto, ciò che ci resta è un mero tampone emergenziale,
che alla prossima crisi salterebbe. Tutto ciò non basta. Dobbiamo
puntare a un quadro nel quale si faccia spesa pubblica ingente,
accompagnandola a una estesa programmazione, utilizzando tutti gli
strumenti che ad essa sono propedeutici. Eppure, neanche questo sarebbe
sufficiente. L’obiettivo deve essere una programmazione disegnata per
socializzare gli investimenti e cambiare radicalmente la composizione
della produzione. Non quindi uno Stato forte e presente in quanto tale,
ma che metta la produzione al servizio della collettività, riducendo la
sfera del privato per erodere la dimensione dello sfruttamento.
L’alternativa a ciò è che, una volta passata un po’ la bufera, questa
improvvisa ondata di supporto per politiche fiscali espansive si
trasformi nuovamente nei soliti intollerabili richiami all’austerità,
con quel poco di Stato che ancora resta in piedi di nuovo teso a
salvaguardare solo i profitti. Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema.
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