Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

30/06/2021

Turista per caso (1988) di Lawrence Kasdan - Minirece

Biden e i guai a sinistra

La pazienza della sinistra del Partito Democratico americano nei confronti di Joe Biden rischia di esaurirsi già dopo pochi mesi dall’inizio del suo mandato alla Casa Bianca. Le recenti complicazioni del percorso legislativo di alcune delle promesse elettorali più importanti del presidente hanno messo in allarme gli ambienti progressisti americani, soprattutto per la tendenza di Biden e della leadership democratica al Congresso a cercare la collaborazione con il Partito Repubblicano. Il veloce ripiego verso destra del presidente non rappresenta una sorpresa, ma è l’inevitabile conseguenza sia delle sue attitudini, ben note dopo mezzo secolo di carriera politica, sia della natura di un sistema bloccato ed espressione di interessi ben precisi, irriducibilmente ostili a qualsiasi scintilla di riforma sociale.

L’agenzia di stampa Bloomberg ha pubblicato qualche giorno fa un lungo articolo che racconta di come la luna di miele tra Biden e l’ala “liberal” del Partito Democratico sia ormai quasi al capolinea. I rappresentanti di questa fazione sembrano essersi resi conto che il presidente non sarà in grado di risolvere le emergenze degli Stati Uniti implementando l’agenda progressista proposta in campagna elettorale e che aveva contribuito alla mobilitazione dei votanti per punire Donald Trump.

Le preoccupazioni si sono moltiplicate in concomitanza con le trattative tra democratici e repubblicani per la definizione di una legge sull’ammodernamento delle infrastrutture americane. Biden portava in dote una proposta da ben 1.200 miliardi di dollari da destinare al ripristino di ponti, strade e molto altro, spesso in stato di estremo degrado negli Stati Uniti. Una volta appurata l’impossibilità di trovare una maggioranza al Congresso su questo pacchetto, il presidente ha aperto al Partito Repubblicano e a possibili modifiche.

Ciò che ne è uscito è un compromesso da 579 miliardi, capace di intercettare il voto favorevole di una decina di senatori repubblicani. Al Senato, infatti, i democratici detengono una maggioranza di 51 a 50 solo grazie al voto della vice-presidente Kamala Harris e, oltretutto, secondo le regole della camera alta del Congresso è necessaria una super-maggioranza di 60 voti per approvare qualsiasi proposta di legge che non abbia a che fare con questioni di bilancio.

Oltre a ridurre drasticamente la portata della legge sulle infrastrutture, Biden ha accettato anche di mettere da parte la proposta parallela, quella relativa alle “infrastrutture umane” (“American Families Plan”), cioè una serie di misure a sostegno dei servizi pubblici e per la riduzione delle disuguaglianze sociali. Questa seconda iniziativa dovrebbe in teoria seguire un percorso separato e approdare in aula attraverso un escamotage tecnico che consente l’approvazione con una maggioranza semplice, collegando appunto la legge in questione a un provvedimento con una qualche rilevanza per il bilancio federale.

A fare infuriare la sinistra del Partito Democratico e le organizzazioni progressiste della società civile è stato in particolare il voltafaccia pubblico di Biden sulla sorte attuale della sua agenda legislativa. Giovedì scorso, il presidente aveva prospettato di mettere il veto alla legge sulle infrastrutture negoziata con i repubblicani se, contestualmente, non fosse stato approvato dal Congresso anche il cosiddetto “American Families Plan”.

La presa di posizione di Biden aveva sollevato un polverone, con i repubblicani che avevano accusato il presidente di volere affondare le trattative in corso. Anche i democratici “moderati” e i giornali teoricamente “liberal” come il New York Times e il Washington Post si sono uniti alle critiche contro Biden, fino a che, due giorni più tardi, il presidente ha fatto marcia indietro, assicurando che le sue parole non implicavano la minaccia di veto e che, quindi, il pacchetto di interventi per sostenere la spesa sociale sarebbe stato abbandonato al suo destino.

La vicenda ha chiarito quali siano le priorità dell’amministrazione Biden e, allo stesso tempo, ha messo in una situazione imbarazzante gli esponenti dell’ala progressista del Partito Democratico. Questi ultimi si ritrovano a dover scegliere tra il sostegno alle scelte della Casa Bianca, col rischio di alienarsi ulteriormente l’elettorato di sinistra, e una rottura o quasi con il presidente. In tutti i casi, se mai fosse stato necessario, gli ultimi sviluppi politici a Washington hanno dimostrato come la scelta del “male minore” attraverso l’appoggio al Partito Democratico rappresenti per l’elettorato di sinistra un vero e proprio vicolo cieco.

Le misure promesse da Biden per ingraziarsi gli americani “liberal” e che hanno ora misere prospettive di andare in porto sono numerose. Uno dei piani più ambiziosi della Casa Bianca e della leadership democratica riguarda la riforma elettorale. Il partito del presidente ha predisposto una proposta di legge che dovrebbe neutralizzare le regole anti-democratiche introdotte in molti stati dai repubblicani sostanzialmente per ostacolare l’accesso alle urne degli elettori appartenenti a minoranze etniche o che vivono in comunità svantaggiate, generalmente più orientati a votare per il Partito Democratico.

La legge era stata lanciata da una campagna imponente su giornali come il Times, ma l’entusiasmo si è a poco a poco sgonfiato quando le probabilità di venire approvata sono crollate. L’ostacolo iniziale era l’indisponibilità anche solo di una parte dei repubblicani ad appoggiare la legge. In seguito è emersa poi la contrarietà anche di alcuni senatori democratici “moderati”, a cominciare da quello del West Virginia, Joe Manchin.

Il provvedimento sul diritto al voto è ora in un limbo. L’importanza che gli viene attribuita ha però innescato un dibattito interno al Partito Democratico sull’opportunità di liquidare la norma ricordata in precedenza che al Senato impone una maggioranza di 60 senatori per approvare praticamente tutte le leggi in discussione. Ciò sarebbe possibile con un voto a maggioranza semplice, ma ci sono molti scrupoli a muoversi in questo senso soprattutto tra i democratici “moderati”.

Per le stesse ragioni che stanno bloccando le misure appena descritte, nel pantano legislativo restano anche altre proposte in cima alla lista delle priorità della galassia progressista americana. Dalla riforma dell’immigrazione a quella delle forze di polizia fino alla lotta al cambiamento climatico, le aspettative erano e restano molto alte, ma le prospettive non appaiono promettenti. Tutto ciò che Biden può offrire finora ai “liberal” del suo partito è l’approvazione, a inizio del suo mandato, del pacchetto anti-Covid da quasi duemila miliardi, la nomina di svariati membri della nuova amministrazione appartenenti a minoranze etniche e poco altro.

La fedeltà al presidente di questa parte del partito non è di per sé comunque in discussione. Il vero problema è la frustrazione degli elettori di sinistra che il prossimo anno potrebbero voltare le spalle ai democratici nel voto di “metà mandato”, tradizionalmente già sfavorevole al partito del presidente in carica.

Fonte

Un appello per la liberazione di Leonard Peltier, prigioniero politico negli Usa

Insieme a un gran numero di cittadine e cittadini anche personalità della cultura, delle istituzioni, dell’impegno morale e civile, della solidarietà, hanno scritto in questi giorni al Presidente del Parlamento Europeo, on. David Sassoli, per un’iniziativa europea per la liberazione di Leonard Peltier, l’illustre attivista per i diritti umani dei nativi americani, vittima di una spietata persecuzione politica, dal 1977 ingiustamente detenuto dopo un processo-farsa in cui gli sono stati attribuiti delitti che non ha commesso.

Tra le personalità che hanno avuto importati incarichi istituzionali che per prime hanno aderito ed espresso sostegno all’iniziativa segnaliamo in particolare: Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento Europeo; Giancarla Codrignani, già deputata nel Parlamento italiano; Giovanni Russo Spena, già deputato e senatore.

Tra le personalità della cultura e dell’impegno civile segnaliamo in particolare: Daniele Barbieri, giornalista e saggista; Francesco Domenico Capizzi, presidente dell’organizzazione di volontariato “Scienza Medicina Istituzioni Politica Società”; Mario Di Marco, referente Servizio Civile della Caritas diocesana di Viterbo; Luigi Fasce, presidente del Circolo Giustizia e libertà “Guido Calogero e Aldo Capitini” di Genova; Carlo Sansonetti, presidente dell’associazione “Sulla strada” che ha progetti di promozione per popolazioni native in Guatemala.

Invitiamo ogni persona di buona volontà ed ogni associazione democratica a scrivere al Presidente del Parlamento Europeo.

Qui di seguito un possibile canovaccio di lettera, con alcuni indirizzi di posta elettronica utili per l’invio:

Al Presidente del Parlamento Europeo, on. David Sassoli

e-mail personale: president@ep.europa.eu

Informazioni sulla storia di Leonard Peltier

Leonard Peltier è nato a Grand Forks, nel North Dakota, il 12 settembre 1944; attivista dell’American Indian Movement che si batte per i diritti umani dei nativi americani, nel 1977 fu condannato a due ergastoli in un processo-farsa sulla base di presunte prove e presunte testimonianze successivamente dimostratesi artefatte, inattendibili, revocate e ritrattate dagli stessi ostensori. Da allora è ancora detenuto, sebbene la sua innocenza sia ormai palesemente riconosciuta. Di seguito riportiamo una breve nota di presentazione di un suo libro edito in Italia nel 2005: “Accusato ingiustamente dal governo americano – ricorrendo a strumenti legali, paralegali e illegali – dell’omicidio di due agenti dell’FBI nel 1975 (un breve resoconto tecnico della farsa giudiziaria è affidato all’ex ministro della giustizia degli Stati Uniti Ramsley Clark, autore della prefazione), Peltier, al tempo uno dei leader di spicco dell’American Indian Movement (AIM), marcisce in condizioni disumane in una prigione di massima sicurezza da quasi trent’anni. 

Nonostante la sua innocenza sia ormai unanimemente sostenuta dall’opinione pubblica mondiale, nonostante una campagna internazionale in suo favore che ha coinvolto il Dalai Lama, Nelson Mandela, il subcomandante Marcos, Desmond Tutu, Rigoberta Menchu’, Robert Redford (che sulla vicenda di Peltier ha prodotto il documentario Incident at Oglala), Oliver Stone, Howard Zinn, Peter Matthiessen, il Parlamento europeo e Amnesty International, per il governo americano il caso del prigioniero 89637-132 è chiuso.

Non sorprende dunque che Peltier sia divenuto un simbolo dell’oppressione di tutti i popoli indigeni del mondo e che la sua vicenda abbia ispirato libri (Nello spirito di Cavallo Pazzo di Peter Matthiessen), film (Cuore di tuono di Michael Apted, per esempio) e canzoni (i Rage Against the Machine hanno dedicato a lui la canzone Freedom).

In parte lucidissimo manifesto politico, in parte toccante memoir, questa è la straordinaria storia della sua vita, raccontata per la prima volta da Peltier in persona. Una meravigliosa testimonianza spirituale e filosofica che rivela un modo di concepire la vita, ma soprattutto la politica, che trascende la dialettica tradizionale occidentale e i suoi schemi (amico-nemico, destra-sinistra e così via): i nativi la chiamano la danza del sole”. (dalla scheda di presentazione del libro di Leonard Peltier, La mia danza del sole. Scritti dalla prigione, Fazi, 2005, nel sito della casa editrice: fazieditore.it).

Opere di Leonard Peltier: La mia danza del sole. Scritti dalla prigione, Fazi, 2005.

Opere su Leonard Peltier: Peter Matthiessen, Nello spirito di Cavallo Pazzo, Frassinelli, 1994; Edda Scozza, Il coraggio d’essere indiano, Erre Emme, 1996.

Fonte

Il Capitalismo distrugge il mondo, una sfida per i Comunisti del XXI° secolo

La Rete dei Comunisti si appresta a fare la propria quarta Assemblea Nazionale nel fine settimana del 2 e 3 Luglio. In realtà ogni anno la nostra organizzazione si cimenta in appuntamenti nazionali di tutti i militanti in quanto utili strumenti di confronto e di direzione in una situazione dove l’accelerazione degli eventi oggettivi e politici obbligano ad una riflessione ed ad un adeguamento in sintonia con gli sviluppi suddetti.

Quest’anno abbiamo dato una impostazione diversa all’assemblea nazionale, non congresso dati i caratteri del nostro progetto organizzato, cogliendo il salto di paradigma che le vicende pandemiche hanno permesso di far emergere, salto che era però già maturo dentro le contraddizioni del modo di produzione capitalista.

Diciamo che sono cominciati a cadere una serie di veli ideologici e di rappresentazioni che imponevano una percezione della realtà ben diversa dalle effettive dinamiche del mondo.

A questa percezione distorta hanno contribuito i mezzi di comunicazione di massa, il carattere individualizzante dei social media ma anche una sinistra che svolge sempre più una funzione deviante rispetto alla regressione delle condizioni sociali che stanno investendo milioni di persone in un Occidente in crisi.

La scelta di misurarsi con delle Tesi Politiche nel tentativo di leggere la realtà nelle sue tendenze più profonde, cercando così di estrapolare indicazioni analitiche e di organizzazione, nasce proprio dal fatto che diviene sempre più insufficiente seguire le minute vicende quotidiane se non si ha una visione quantomeno di fase.

Certamente stiamo entrando in una fase di non breve durata in quanto quella che si apre ora deve sviluppare ancora, far maturare, tutti i propri caratteri e le proprie contraddizioni come è avvenuto nel 1991 con la dissoluzione dell’URSS e nel 2007 con la crisi finanziaria globale.

La “stella polare” che va seguita nel capire i caratteri delle contraddizioni dal nostro punto di vista è quella che da tempo abbiamo definito come competizione globale ed ora “stallo degli imperialismi”.

Lo sviluppo impetuoso delle forze produttive di segno capitalista avuto dopo la fine del campo socialista ora sta producendo i suoi effetti reali e duraturi, cioè l’emergere di nuovi soggetti competitivi per l’occidente.

La Cina ne è l’effetto più evidente ma quello che si sta profilando è il riemergere di un campo internazionale forse non socialista come storicamente abbiamo conosciuto ma sicuramente alternativo al liberismo occidentale e all’egemonia degli USA.

Lo stesso processo ha creato un equilibrio di forze, sul piano finanziario, economico e militare, che ha prodotto uno stallo tra i soggetti competitivi esistenti in cui nessuno ha la possibilità di usare strumenti decisivi, quello militare per eccellenza, per sconfiggere l’avversario.

Un effetto di questa evoluzione è quello di far ritrovare un ruolo allo strumento della NATO, in crisi da tempo, come collante dell’alleanza USA-UE contro il “resto del mondo” per tentare di mantenere un ruolo dominante, imperialista, in un tentativo probabilmente antistorico di riportare la situazione ai decenni successivi agli anni ’90.

Quegli stessi decenni di affermazione del liberismo sfrenato che ha portato in profondità i processi di privatizzazione e di devastazione sociale che oggi producono una crisi pandemica di proporzioni inaspettate dove le risposte che vengono date, soprattutto dagli alleati degli occidentali come il Brasile e l’India, sono più dannose della stessa pandemia producendo continui focolai infettivi che si ripropongono a livello mondiale.

Insomma la distruzione dello Stato Sociale perseguito con determinazione e ferocia dai centri finanziari e dalle classi dominanti oggi porta alla constatazione che questo modello di sviluppo e di crescita infinita porta a effetti dannosi per l’intera umanità.

A questo sviluppo distorto ha corrisposto un degrado delle classi dominanti e dei ceti politici di cui in Italia abbiamo un esempio diretto dove i vari partiti ed i vari esponenti, da Letta a Salvini, da Grillo a Berlusconi, si mostrano incapaci di avere progetti di lungo respiro e non strettamente legati a lobby e corruzione. Come la sopravvivenza inspiegabile di un soggetto massonico come Renzi dimostra.

Se il nostro paese è un esempio palese che abbiamo a portata di mano, la situazione non è molto diversa negli altri centri occidentali. L’esperienza di Trump è troppo recente per non averla presente e d’altra parte quella rappresentanza reazionaria non è stata affatto sconfitta e già ora si sta riproponendo alla società statunitense.

Come pure le politiche della UE, nonostante la retorica ambientalista del Recovery Fund, sono tutte a sostegno delle imprese e della finanza prospettando un futuro di regressione sociale ed economica per le classi subalterne ma anche democratica come effetto diretto delle prime.

L’insieme di questa evoluzione, nelle Tesi il tentativo è quello di fornire analisi più approfondite, sta producendo delle controtendenze che ora sono solo all’inizio ma che possono essere già percepite nei primi effetti politici.

Una riguarda direttamente i settori di classe, anche nel nostro paese, che vedono sempre meno possibilità di risoluzione delle proprie contraddizioni nella normale dialettica del conflitto sociale a “bassa intensità”, come quello che abbiamo vissuto nei momenti di crescita economica, e tende a politicizzare le proprie posizioni sviluppando un antagonismo spesso senza coscienza ma radicale.

Questo fenomeno non è recente e si è manifestato già nel passato con l’affermazione della Lega e del M5S; oggi con la crisi strategica di ambedue i soggetti si ripropone la necessità di questa politicizzazione anche se deve ancora maturare nel corpo della società ed in relazione al peggioramento delle condizioni economiche e sociali.

L’altro effetto che si afferma in modo ancora più evidente è la necessità, di fronte all’evidenza delle contraddizioni generali del capitalismo, di una alternativa sociale che possiamo dire rivoluzionaria.

Questa possibilità era stata archiviata negli anni ’90 dove si pensava a livello mondiale che non poteva esistere una alternativa al modo di produzione capitalista; oggi di fronte all’incepparsi di questa ipotesi riemergono necessità, aspettative e prospettive che invece contemplano proprio la costruzione di un altro modello sociale.

Possiamo definirlo Socialismo del XXI° secolo sapendo che questa è una prospettiva difficile ma che dentro la crisi capitalista acquisterà sempre più credibilità.

Se questo è “l’ambiente” in cui devono agire i comunisti ne consegue che il lavoro di analisi, elaborazione ed organizzazione è enorme ed impegnativo.

Ma è proprio con questo spirito che affrontiamo questo passaggio assembleare che abbiamo cercato di sintetizzare nel testo prodotto sulle tesi e che si può trovare sui siti della RdC e di Contropiano.

L’assemblea è articolata su due momenti. Uno pubblico, a cui invitiamo a partecipare, per Venerdì 2 Luglio che si terrà a Roma alle ore 15.00 presso l’hotel “The Hive” in via Torino 6, nei pressi della stazione Termini. L’altro interno per il giorno successivo Sabato 3 Luglio.

Fonte

Accordo-bidone sullo sblocco dei licenziamenti

Sullo sblocco dei licenziamenti è stato raggiunto, come prevedibile, un accordo-bidone tra governo, CgilCislUil e prenditori. L’accordo dunque c’è, ma di fatto non è vincolante per le imprese.

L’esecutivo e le “parti sociali” hanno firmato un avviso comune che impegna le aziende a utilizzare gli ammortizzatori sociali prima di procedere ai licenziamenti. All’avviso comune è stato associata anche l’istituzione di un tavolo di monitoraggio a Palazzo Chigi per governare e seguire eventuali emergenze sociali in vista del superamento del blocco dei licenziamenti in scadenza il 30 giugno. È previsto per oggi pomeriggio il Consiglio dei Ministri chiamato a dare il via libera al decreto ponte sul blocco. La proroga, secondo quanto deciso dalla cabina di regia, dovrebbe riguardare solo i settori del tessile, calzature e moda.

La realtà è che i licenziamenti vengono sbloccati comunque. C’è solo una “raccomandazione” alle aziende di fare 13 settimane di cassa pagata dallo Stato prima di licenziare. “Si impegnano a raccomandare”. “Auspicano e si impegnano”. “Principi condivisi”. Leggendo le dichiarazioni post-confronto, si ha la sensazione che quella sbandierata da CgilCislUil non sia certo una vittoria.

Al contrario la proroga del blocco dei licenziamenti per le grandi imprese scadrà dal primo luglio al 31 ottobre, tranne che per le imprese del tessile, delle calzature e degli altri comparti della moda. Altrove i licenziamenti potranno tornare liberi.

Cgil, Cisl e Uil rivendicano di aver incassato qualcosa in più rispetto a come si erano messe le cose. Le 13 settimane aggiuntive di cassa integrazione gratuita saranno concesse non solo alle imprese in crisi e su cui sono aperti i tavoli al Mise, ma anche a quelle che fanno riferimento a piccole vertenze locali. Le imprese che usufruiranno di questa tranche di cassa integrazione non potranno licenziare prima di averla utilizzata tutta.

Emergono già valutazioni severe contro l’accordo raggiunto sui licenziamenti. L’economista Marta Fana commenta così: “Si impegnano a raccomandare. Auspicano e si impegnano. Principi condivisi.” Ti stanno massacrando e tu che fai? Porgi l’altra guancia evocando principi condivisi con boia e aguzzino”.

“Ma che accordo è?” – commenta Giorgio Cremaschi, una vita nella Fiom ed ora esponente di punta di Potere al Popolo – “I licenziamenti vengono sbloccati comunque, come prevedeva la decisione del governo che non cambia. Governo, Confindustria e CgilCislUil firmano un “ avviso comune”, cioè una raccomandazione alle aziende di fare 13 settimane di cassa integrazione pagata dallo Stato prima di licenziare. E questo sarebbe un cambiamento?”.

Potere al Popolo ha dato appuntamento proprio per oggi ad una giornata di mobilitazione davanti alle sedi della Confindustria in tutte le città per protestare contro lo sblocco dei licenziamenti. Questa mattina a Milano c’è stato un blitz alla sede del Il Sole 24 Ore, il giornale della Confindustria. Manifestazioni sotto la Confindustria in corso a Roma e Bologna. Anche a Napoli è in corso una manifestazione sotto la sede della Confindustria.

Potere al Popolo ritiene inoltre necessario fornire tutti gli strumenti di resistenza contro i licenziamenti alle lavoratrici e ai lavoratori di quei settori più deboli sul piano sindacale e contrattuale.

Per questo il Telefono Rosso di Potere al Popolo (0660507819), rete nazionale di autodifesa legale sui posti di lavoro, ha preparato una scheda con le risposte ai casi più frequenti, purtroppo più probabili.

Nei giorni scorsi abbiamo già messo evidenza la “mattanza” dei e sui posti di lavoro rappresentata da questa misura adottata dal governo Draghi.

Il via libera ai licenziamenti mentre non siamo ancora fuori dalla pandemia sono una infamia del sistema, la seconda dopo le decine di migliaia di morti per Covid dovuti alla scelta di tutta la classe politica di convivere con il virus, anziché di fermarlo.

Fonte

La “normalità” della mattanza in carcere



Nel guardare il video dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere le sensazioni – in un essere umano “normale”, ossia ancora capace di distinguere e capire – sono di autentico orrore.

Non c’è infatti possibile giustificazione per tutta quella violenza arbitraria praticata da una torma di “agenti in divisa”, armati di manganelli, caschi, scudi, e singoli detenuti privi di alcuna difesa.

Non si può neanche invocare il “pericolo” – come usano fare le polizie nei propri rapporti su eventi che accadono “fuori”, nelle strade. Pensate ad Aldrovandi, Magherini, ecc., o anche agli innumerevoli omicidi di polizia negli Usa. Una singola persona, per quanto violenti possano essere stati i reati commessi in precedenza, nulla può contro dieci, venti, trenta uomini addestrati e armati.

Di sicuro non può essere invocato il “pericolo” nel caso dell’anziano in carrozzella, bastonato ripetutamente anche lui, forse con un po’ meno violenza, perché anche nel più infame balugina un attimo di incertezza sul che fare, quando – nella serialità del pestaggio di un detenuto alla volta – scopre di star “uccidendo un uomo morto”.

Nelle cronache, i giorni precedenti al pestaggio di massa, parecchie carceri erano state teatro di rivolte in seguito alla scoperta di focolai di Covid-19. Nessun agente era stato fatto prigioniero dai reclusi, nessuno era stato ferito.

Solo dopo i pestaggi, come usano fare tutte le forze di “polizia”, un po’ di agenti si erano fatti refertare – da medici della stessa amministrazione penitenziaria, inevitabilmente “compiacenti” – qualche giorno di prognosi per “contusioni”, “stress” e malori vari. Qualche giorno di ferie, in fondo, non fa mai male. È quasi un premio concesso dopo “l’eroica operazione”.

Insomma, ad una persona “normale” può sembrare assolutamente inspiegabile quella mattanza indiscriminata.

Chi nella sua vita è passato, qualche volta, tra due ali di picchiatori liberi di sfogarsi sul suo corpo, sa invece che quella è “la normalità” del carcere in Italia. Anche se, ovviamente, non solo in Italia.

Scrivo “la normalità” senza alcuna intenzione di “minimizzare”. Anzi, per il motivo esattamente opposto. Quello è il carcere di tutti i giorni, quando i detenuti provano ad alzare la testa. Come dicono i “rappresentanti sindacali” degli agenti: “abbiamo ripristinato la legalità“. Questo orrore, intendono per “legalità”.

La differenza col passato sta nei video. Ora tutti possono vedere quel che accade e giudicare, soprattutto nelle strade e solo raramente in carcere.

In tutti gli altri casi – per esempio a Modena, in quegli stessi giorni – è molto più facile per un magistrato frettoloso “prendere per buone” le relazioni degli agenti e dell’amministrazione. E quindi derubricare nove omicidi – nove, quasi una strage, anche se a termini di codice penale è un “omicidio plurimo” – a “suicidi involontari”.

Due parole sulla storia di questa “normalità” sono dunque necessarie. Quello che tutti potete vedere è quel che accade da sempre dopo una protesta, una rivolta (tecnicamente: detenuti che non tornano nelle celle, ma occupano i corridoi o i cortili, salgono sui tetti, ecc., a seconda della possibilità di farlo).

È quello che accadeva nei racconti anche di 60 anni fa, poi fatti diventare letteratura a disposizione di tutti dal lavoro di Sante Notarnicola.

È quello che è avvenuto nella caserma di Bolzaneto (non a caso “gestita” dalla polizia penitenziaria) o alla scuola Diaz, a Genova 2001. E non riguardava “detenuti pericolosi”, ma normali manifestanti, persino dell’organizzazione cattolica Mani Tese (nel senso di “dare aiuto”).

È quello che è accaduto a Trani, nel 1980, dopo la rivolta per ottenere la chiusura dell’Asinara – in combinazione con il sequestro del giudice D’Urso.

Anche lì, dopo l’intervento delle “teste di cuoio”, i carabinieri del GIS, i prigionieri furono portati sul tetto, costretti a sdraiarsi sotto la minaccia dei mitra, con le mani sul bordo mentre venivano scalciati da dietro, verso il vuoto.

Anche lì il lungo percorso – dal tetto, “terzo piano”, fino ai cortili – tra due ali di “agenti della polizia penitenziaria” che manganellavano come ossessi.

Quel che c’è di differente, rispetto ad allora, sono i rapporti di forza, politici e sociali, certo, ma anche militari. Le mattanze nelle carceri provocavano vasta indignazione sociale, e non solo nei settori “di movimento” più sensibili al tema.

Esistevano ancora gli “ambienti democratici” (al contrario di oggi), vasti aggregati di opinione pubblica che pretendevano dallo Stato un comportamento corrispondete al dettato costituzionale. Si potevano contare decine di parlamentari pronti a fare interrogazioni, chiedere dimissioni, ottenere interviste. Decine di cantanti, intellettuali, persino qualche giornalista, che prendevano parola e alzavano la voce. De Andrè, ma non solo lui... (inutile ricordarlo a Fabio Fazio, lo censurerebbe...)

Ed anche sul piano militare, le cose stavano in modo tale che anche i più fanatici tra gli addetti alla repressione preferivano centellinare quelle esibizioni di violenza cieca. La morte del generale Galvaligi, per esempio, a 48 ore dalla violenta repressione della rivolta di Trani, di cui era stato guida operativa, era un episodio dentro una dinamica di scontro effettivo, se non proprio di guerra.

La “normalità” di quelle mattanze tornò più tardi, dopo la fine della lotta armata comunista. A rapporti di forza ristabiliti, ovviamente a favore del potere, non ci furono più limiti.

Fu istituito il GOM (Gruppo operativo mobile), composto di agenti specializzati nei pestaggi (non tutti sono disponibili, bisogna ricordare), selezionati in vari carceri e pronti all’uso là dove serve.

Una “pensata” del generale Ragosa – il primo ufficiale delle guardie penitenziarie ad ottenere quel grado – approvata e fatta sua da Oliverio Diliberto, forse l’espressione peggiore dei presunti “comunisti” che si erano “fatti Stato”.

Quel gruppo inaugurava – per così dire – ogni nuovo carcere, speciale e non, dopo la costruzione o una ristrutturazione. E stabiliva l’imprinting nel rapporto tra guardi e detenuti. Pestaggi sistematici, perquisizioni continue, telecamere nelle celle, arbitrio totale e copertura integrale da parte del governo.

E dunque anche dei media.

Quella “normalità”, per essere capita, va confrontata con la “banalità del male”. Con quel percorso di disumanizzazione che va oltre il rapporto di guerra – tra combattenti ci si ferisce uccide, ovviamente – e diventa “atteggiamento impiegatizio”. Come nei lager, gli aguzzini si sentono pienamente nel giusto, legittimati dall’”ordine superiore”, moralmente deresponsabilizzati dall’”obbedire”.

Con in più – nel caso delle carceri italiane – quel tanto di “privatizzazione del comportamento repressivo” che si alimenta di spirito corporativo, lamentazioni da “usciere ministeriale”, vittimismo paraculo, fancazzismo prepotente.

La normalità dell’orrore quotidiano dice su questo paese più di quel che si può descrivere nel più perfetto dei saggi. Guardate e almeno immaginate l’audio. Capirete meglio.

Fonte

Lo spauracchio dell’inflazione sulla “prossima crisi globale”

L’inflazione dei prezzi di beni e servizi è una buona o cattiva notizia a seconda del vostro rapporto con i mezzi di produzione. Per il lavoro, che non possiede i mezzi di produzione e si guadagna da vivere solo vendendo la sua forza lavoro, l’inflazione non è una buona notizia, perché divora i redditi reali aumentando i prezzi dei beni di prima necessità.

Attualmente, mentre le maggiori economie si affacciano fuori dal crollo pandemico, i datori di lavoro sempre più si lamentano di non riuscire a far tornare i lavoratori ai loro posti mal pagati, soprattutto nei servizi. Sono costretti ad alzare i salari per attirare persone in posti di lavoro poco soddisfacenti, senza sindacati, senza indennità di malattia, o ferie, etc.

La prospettiva di salari più alti suona come una buona notizia per le fasce di lavoratori che in precedenza godevano un salario minimo, o addirittura inferiore. Ma i salari più alti sono un’illusione monetaria se allo stesso tempo i prezzi del cibo e di altri beni di prima necessità cominciano a salire bruscamente.

E questo sta succedendo. Il tasso ufficiale d’inflazione degli Stati Uniti ha raggiunto il 5% anno su anno a maggio. Questa è il dato più alto dall’agosto del 2008. Stessa storia nel Regno Unito e in Europa. Anche se il livello di inflazione è solo del 2% circa all’anno, lì questo tasso è comunque il più alto da oltre sette anni.

Il tasso è in parte il risultato di “effetti base”, cioè il tasso è sceso bruscamente durante il crollo della pandemia e i prezzi sono rimbalzati solo negli ultimi mesi. Ma è anche il risultato di forti aumenti dei prezzi delle materie prime (prodotti agricoli, metalli ed energia) guidati da un lento ritorno alla produzione dei beni a livello globale e anche da una parziale rottura della catena di approvvigionamento internazionale, causata da lconfinamenti e restrizioni alla circolazione. In effetti, ci sono “colli di bottiglia” nell’offerta che rendono difficile soddisfare la crescente domanda dei consumatori e dei produttori. Questo fa salire il tasso d’inflazione dei prezzi.

L’inflazione può essere una cattiva notizia per il lavoro, ma un’inflazione “moderata” non è una cattiva notizia per il capitale. Alle aziende piace un po’ di inflazione perché dà loro un certo margine di manovra per aumentare i prezzi per sostenere la redditività nella competizione con le altre aziende. Ma ciò che non piace al capitale è l’accelerazione dell’inflazione.

Questo comporta una serie di problemi. I prezzi delle materie prime diventano incontrollabili, i dipendenti cominciano a chiedere salari più alti e c’è il serio rischio che i tassi d’interesse comincino a salire, rendendo i prestiti più onerosi. Quindi, l’inflazione dei prezzi in quanto tale non è un problema per i capitalisti, ciò che odiano sono due cose che potrebbero derivare dall’accelerazione dell’inflazione: l’aumento dei salari e l’aumento dei tassi di interesse. Il primo erode direttamente i profitti alla base, il secondo fa salire i costi di prestito e quindi taglia i profitti dall’alto.

Ora, i keynesiani sostengono che gli aumenti salariali sono una buona notizia per tutti, lavoratori e capitalisti, in quanto i salari più alti aumenteranno la “domanda aggregata” e faranno andare avanti le economie. Ma suggeriscono anche che i capitalisti non hanno bisogno di preoccuparsi di salari più alti perché, se segue un’inflazione “spinta dai salari” (cioè i capitalisti aumentano i loro prezzi in risposta agli aumenti salariali), i lavoratori alla fine perderanno con una mano in termini reali quello che guadagnano con l’altra e la redditività per il capitale sarà preservata.

Questa argomentazione permette alla teoria keynesiana di sostenere che gli aumenti salariali sono buoni e non danneggeranno i capitalisti, ma alla fine del circuito dell’argomentazione troviamo che è il lavoro a perdere, o almeno a non guadagnare nulla.

Tuttavia, come Marx spiegò nel suo famoso dibattito con il sindacalista Thomas Weston sul fatto che gli aumenti salari causeranno quello dei prezzi, questo argomento è davvero antioperaio e i lavoratori non dovrebbero cascarci. Inoltre, gli aumenti salariali significano profitti più bassi, a parità di altre condizioni, non prezzi più alti. Ecco perché i capitalisti si oppongono ad oltranza agli aumenti salariali, nonostante gli appelli keynesiani.

In realtà, è la redditività che decide gli investimenti e la produzione, non la “domanda aggregata”. Come diceva Marx, i salari sono la variabile dipendente, non il fattore determinante nella produzione capitalista: “il tasso di accumulazione è la variabile indipendente, non quella dipendente; il tasso dei salari la variabile dipendente, non quella indipendente”, e “l’aumento dei salari (...) è confinato entro limiti che non solo lasciano intatte le basi del sistema capitalistico, ma assicurano anche la sua riproduzione su scala progressiva”.

In altre parole, l’aumento dei salari non può arrivare al punto di minacciare seriamente i profitti. Se lo fanno, i governi interverranno con le cosiddette “politiche dei redditi” per controllare i salari e imporre tasse per ridurre i guadagni di reddito – politiche che in passato sono state sostenute dai keynesiani per controllare l’inflazione spinta dai salari.

I dati attuali sui salari negli Stati Uniti sono distorti perché coloro che sono diventati disoccupati durante la pandemia erano generalmente i meno pagati e i settori professionali e manifatturieri sono stati in grado di aumentare un po’ i salari. Le cifre attuali riflettono questa base ristretta per gli aumenti salariali.

Ma nel complesso, finora, i costi del lavoro per i capitalisti non stanno aumentando a un ritmo più veloce di prima della pandemia (negli States, circa il 3% all’anno). Dato che l’inflazione è ora del 4-5%, negli Stati Uniti i salari reali medi stanno effettivamente decrescendo (anche se i lavoratori più pagati stanno migliorando le proprie condizioni).

Finora, i mercati finanziari non sono troppo preoccupati per l’aumento dell’inflazione. Ciò che conta per loro è se le banche centrali cominceranno ad alzare il tasso d’interesse a breve termine, il quale stabilisce la base per tutti i tassi applicati per prendere in prestito denaro per investire, produrre o speculare. Finora, i mercati finanziari sono stati rassicurati da banche come la Fed, la Bce e la Banca d’Inghilterra che non ci sarà un loro aumento.

Così, il mercato azionario statunitense ha raggiunto un altro massimo storico la scorsa settimana e i rendimenti delle obbligazioni a lungo termine (il principale tasso d’interesse per le società), dopo essere stati per un po’ sopra il tasso d’inflazione, sono scesi di nuovo dopo che la Fed ha affermato che l’attuale spostamento dell’inflazione è “transitorio” e che alla fine si stabilizzerà di nuovo ai livelli pre-pandemici, vicino all’obiettivo della Fed stessa del 2% annuo.

Tuttavia, sembra che la Fed non sia così sicura di questo futuro transitorio. Alla sua ultima riunione sui tassi di interesse, i funzionari erano divisi sulle rispettive previsioni per l’inflazione nei prossimi anni. L'opinione condivisa (consensus) era che il tasso di “inflazione di base” (core, ossia senza il cibo e l’energia – voci tutt’altro che irrilevanti per i lavoratori!) sarebbe salito al 3% quest’anno, ma poi sarebbe sceso al 2,1% nel 2022 e 2023, anche se l’economia avesse raggiunto la piena occupazione e la massima capacità produttiva. Così il consenso, espresso dal presidente della Fed Powell, era che per la Fed non ci sarebbe stato bisogno di aumentare il policy rate fino al 2023.

Tuttavia, diversi presidenti regionali della Fed sembravano meno sicuri che i tassi d’inflazione sarebbero scesi di nuovo e, dati i “colli di bottiglia” dell’offerta e la “sugar-rush” (impennata iniziale seguita da un decremento altrettanto importante) nella domanda dei consumatori, hanno parlato di una mossa anticipata sui tassi.

Questo è il punto. Come argomentato sopra, i capitalisti, sia nei settori produttivi che in quelli speculativi, non sono realmente preoccupati dall’inflazione perché li riguarda poco. Ciò che preoccupa loro e le decisioni se investire nei settori produttivi o continuare a speculare in attività finanziarie, sono i tassi d’interesse che influenzano il costo dei prestiti rispetto alla redditività nell’economia “reale” e ai prezzi di azioni e obbligazioni.

Infatti, come ho sostenuto in precedenza, l’inflazione nei beni e nei servizi tende in realtà a rallentare o addirittura a scomparire nelle economie capitaliste dove la produzione di nuovo valore aggiunto rallenta la crescita e porta a un rallentamento della domanda da parte dei capitalisti e dei lavoratori.

Questa è la tendenza degli ultimi 40 anni, per esempio, nelle principali economie, poiché la crescita della produttività del lavoro è diminuita e la redditività media del capitale è scesa. Il tasso d’inflazione è sceso e gli sforzi delle banche centrali per raggiungere un’inflazione “moderata”, diciamo il 2% all’anno, sono falliti negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone.

I tassi d’interesse a breve termine, generalmente influenzati dalle banche centrali, sono scesi verso lo zero mentre i tassi a lungo termine, determinati in modo più endogeno dalle forze di mercato, sono anch’essi scesi a minimi storici che non si vedevano dagli anni ‘30 del secolo scorso.

Sono i tassi d’interesse che contano perché il debito aziendale è a livelli record nella maggior parte delle principali economie, mentre i mercati azionari viaggiano su un flusso di denaro preso in prestito.

Quindi qualsiasi salto nel costo dei prestiti potrebbe essere devastante per molte aziende e innescare un crollo del mercato azionario e obbligazionario. Ho discusso in precedenza il fatto che tra il 15-20% delle aziende nelle principali economie stanno a malapena coprendo i costi del servizio del debito con i profitti che stanno facendo.

Secondo Bloomberg, negli Stati Uniti, dall’inizio della pandemia, quasi 200 grandi aziende si sono unite alla schiera delle cosiddette aziende zombie, e ora rappresentano il 20% delle prime 3.000 maggiori società quotate in borsa. Con debiti per 1,36 trilioni di dollari. Cioè, 527 delle 3.000 aziende non hanno guadagnato abbastanza per coprire il pagamento degli interessi sul debito!

I costi del servizio sul debito in media sono diminuiti, anche se il debito in sé si sta accumulando. Questo è dovuto al forte calo del costo dei prestiti. Se questo scenario dovesse iniziare ad invertirsi, allora la possibilità di fallimenti aziendali e di un crollo finanziario diventerebbe una probabilità.

Il debt servicing ratio aziendale (costi del debito rispetto al reddito) negli Stati Uniti è balzato a un massimo di 20 anni nella pandemia. E se i fallimenti aziendali (attualmente molto bassi) cominciassero ad emergere, il sistema bancario potrebbe andare sotto pressione.

Recentemente, la Fed ha condotto uno “stress-test finanziario” sulle banche statunitensi. Ha scoperto che quasi tutte erano in buona salute, con un sacco di capitale di riserva per coprire eventuali perdite sui prestiti, soprattutto se confrontato a prima del crollo finanziario globale del 2008-9. Erano così in forma che potevano pianificare di pagare agli azionisti un aumento dei dividendi e riacquistare azioni per aumentarne i prezzi.

Tuttavia, mentre le grandi banche al dettaglio (retail) sembravano stare bene, non era così per le enormi banche d’investimento che forniscono fondi per la speculazione in attività finanziarie, e speculano esse stesse. Esse sono tenute ad avere coefficienti di capitale più alti (capitale rispetto ai prestiti e alle attività finanziarie) e il divario tra il requisito minimo e i loro coefficienti è molto minore.

L’accelerazione dell’inflazione può essere un problema in questo momento negli Stati Uniti e in altre economie capitaliste in ripresa, e certamente morde qualsiasi ripresa dei redditi da lavoro; ma per il capitalismo, la redditività è il vero punto di riferimento, e questo può essere colpito dall’aumento dei salari da un lato e dall’aumento degli interessi dall’altro. Se così fosse, questa sarebbe la base per un nuovo crollo.

Fonte

Tra varianti e complotti: servono davvero i vaccini?

Ormai il racconto della pandemia ha preso essenzialmente una sola piega: il vaccino e i mille suggerimenti dei virologici di turno, le eventuali controindicazioni, le percentuali dei vaccinati, le dosi che mancano, Pfizer o AstraZeneca, le terribili varianti che sembrano profilarsi all’orizzonte e le percentuali di efficacia dei vari vaccini rispetto alle nuove deviazioni del virus.

Al di là di questa narrazione variegata, costituita da allarmismi, controllo sociale, fake news, radiografie e biografie da gossip delle morti per vaccino, untori vari e giovani egoisti è possibile tracciare alcune linee di lettura di questo interminabile racconto pandemico.

L’informazione digitale

Nel 2021 distinguere il ruolo dell’informazione dei giornali e della tv da quella dei motori di ricerca e dei social è ormai impossibile: Google propone, tramite i suoi algoritmi, le news del momento dove è possibile unire, in una stessa pagina e in uno stesso giornale, notizie allarmiste sulle morti dei giovani per AstraZeneca accanto all’obbligo vaccinale come unico e indiscutibile scudo alla pandemia (significative in questo senso le posizioni di Repubblica e Corriere della Sera).

Inutile commentare i titoli gossip provocatori e fuorvianti di Libero e Il Giornale.

Addirittura Facebook può oscurare un post, se non una pagina, per alcune parole che sembrano “deviare” dalla lotta al Coronavirus.

Ma la domanda da porsi in termini reali di fronte a questo caos di notizie, di post e di articoli del nulla è cosa possiamo fare di fronte a questo racconto confezionato, a questo dominio totale in termini di mezzi finanziari e a questo capitalismo digitale che pervade, controlla e produce ogni forma di vita umana? “Quella di una vita sociale al di fuori dei social media rimane una necessità primaria. Nel frattempo, è palese che milioni di persone stanno lottando per sopravvivere. C’è bisogno di alloggi adeguati, cibo e acqua in quantità sufficienti, assistenza sanitaria, e politiche che non siano né razziste né algoritmiche. Serve un cambiamento materiale, non simbolico...” (Jacob S. Boeskov)

Il complottismo

In questo dilagare di notizie incontrollate e di account falsi, di Fondazioni che finanziano progetti e linee d’informazione digitale è diventato difficile distinguere quel confine ibrido che divide una notizia vera da una bufala creata ad arte. Gli stessi articoli scientifici o post di virologi e epidemiologi sono, a volte, considerati strumenti per tirare la volata a NoVax o complottisti vari.

Ma cosa è un complotto? A chi serve? Al capitale e alla destra naturalmente. Sempre, sia quello vero per rovesciare un regime politico scomodo (modello stati Africani) sia quello per spiare il nemico (modello Watergate) oppure quelli falsi come quelli famosi dei Protocolli dei Savi di Sion o il piano Kalergi. In realtà il complottismo nasconde i conflitti: “la neutralità predicata dal neoliberismo cerca di eliminare la riflessione sulla storia, sull’arte e sulle ideologie, che un tempo permettevano di esprimere tali inquietudini e di decifrare la realtà, creando così un vuoto culturale su cui le teorie di complotto proliferano; il diffuso cospirazionismo dei nostri tempi, frutto della crescente crisi della politica, si rivela utile alle destre per offrire una spiegazione al malessere sociale e a chi detiene il potere per patologizzare qualsiasi pensiero critico”. (Tobia Savoca)

Che cos’è la scienza?

Per Immanuel Wallerstein sul finire del diciottesimo secolo avviene un divorzio decisivo tra la filosofia e la scienza; a partire da quel momento le scienze negarono agli studi umanistici la capacità di cogliere la verità. In questo senso si sviluppò il credo incondizionato nella infallibilità della scienza, nell’inarrestabile progresso scientifico per il bene dell’umanità, nella fiducia illimitata negli scienziati e nei tecnici. Ma quella scienza e quella tecnica furono anche parte integrante di quella ricerca sperimentale che ha prodotto armi di distruzione di massa come la bomba atomica, riducendo l’uomo ad un essere inutile che non può che vergognarsi di fronte a questa scienza illimitata e onnipotente. La lezione di Anders sul ruolo della tecnica nel ventesimo secolo nel suo “L’uomo è antiquato” è esemplare.

Inoltre come negare il ruolo del capitale nelle ricerche scientifiche e nel “costruire” scuole ed università a suo unico vantaggio. La Big Pharma non ha creato il virus, ma era pronta da tempo a sfruttare ogni malattia o pandemia a suo vantaggio, come ogni creatura controllata dal capitale, come Google, Facebook, Apple e Amazon erano già pronte per una società del controllo e dell’emergenza sanitaria da almeno 10 anni.

Inoltre la storia del sapere umano è segnata da teorie, ipotesi, ricerche, spazi e tempi d’azione che richiedono differenze, discussioni, confronti e condivisioni sociali e culturali e che costituiscono fonte di innovazione, creatività e progettualità di vita futura.

Ecco perché è necessario riprendersi la scienza, la tecnologia, la medicina e ripoliticizzare fino in fondo ogni forma del sapere, attuale e futuro.

La sinistra che non c’è

In questo periodo indefinito di gestione dell’emergenza Coronavirus nella sinistra in generale, per quello che ancora può esprimere questa parola e per quello che ne rimane, nei movimenti e nelle periferie dell’occidente, le posizioni rispetto alla gestione dell’emergenza sono state molteplici, a favore dei vari governi e Comitati Tecnici Scientifici, a volte timidamente contrariate, a volte Sovraniste, qualche volta perfino vicine alle paludi della destra e del complottismo. Negli ultimi mesi nel blog Sinistra in rete l’articolo più letto è stato “Sono così necessari i vaccini?” della dott.ssa Loretta Bolkan, come a significare che la questione dei vaccini sia, nell’immaginario collettivo e simbolico del pensiero attuale, una battaglia decisiva in termini di politica, società e informazione. Ma stanno veramente così le cose?

La realtà è che la sinistra, italiana e occidentale in generale, non c’è più; negli ultimi decenni di racconto pervasivo e di dominio assoluto, strutturale, finanziario e digitale del capitale essa non ha mai inciso sui reali rapporti di forza esistenti, si è divisa su tutto, come molteplici sette che pensano, vivono e immaginano le società come qualcosa di chiuso, unilaterale, occidentale, patriarcale e dove soltanto i propri fedeli possono comprendere e condividere l’esistenza.

Mai come ora e anche dopo questa pandemia, sarà necessario cercare di riprendersi la sanità dove ospedali, unità territoriali, cure domiciliari, personale sanitario e gestione dei vaccini costituiscono soltanto una parte di un insieme economico, sociale, culturale da sovvertire. Il diritto alla salute rappresenta una delle battaglie fondamentali insieme a quelle intorno al lavoro, alla casa e alla scuola, tenendo conto che il racconto e il dominio di questi anni, compresa la narrazione della pandemia, parlano soltanto la lingua del capitale. Come diceva Braudel: “possiamo anche spingere il capitale fuori dalla porta, ma questo poi rientrerà dalla finestra.”

Eppure questo particolare momento storico sociale rappresenta un’occasione unica per capire che non siamo di fronte solo a una pandemia ma ad una sindemia, intesa come un insieme di malattie, condizioni sociali, culturali ed economiche che colpisce pesantemente quasi sempre persone con altre patologie e generalmente svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse. Come scrive l’epidemiologa Sara Gandini in un suo post del 27 giugno 2021: “Non siamo davanti ad una pandemia ma ad una Sindemia e le differenze socio-economiche contano grandemente. Con questa pandemia sono emerse nella loro potenza impressionante.

Secondo le analisi di questo studio la diminuzione dell’aspettativa di vita negli Stati Uniti è stata 8,5 volte la perdita media vista in 16 nazioni di pari livello ad alto reddito, e ha riguardato prevalentemente le popolazioni di colore e ispaniche.

Sei paesi (tra cui Danimarca, Finlandia e Norvegia) hanno avuto un aumento dell’aspettativa di vita tra il 2018 e il 2020. Tra gli altri 10 paesi le diminuzioni dell’aspettativa di vita variavano da 0,12 anni in Svezia a 1,09 anni in Spagna, ma nessuno si è avvicinato alla perdita di 1,87 anni vista negli Stati Uniti. La diminuzione dell’aspettativa di vita che è stata stimata e l’eccesso di decessi riflettono gli effetti combinati dei decessi attribuiti al Covid-19 ma anche la gestione della pandemia, l’assistenza sanitaria, il sistema economico in generale e derivante dalla gestione della pandemia (disoccupazione, insicurezza alimentare e mancanza di una casa).

Come scrivono gli autori queste politiche abbracciano l’assistenza sanitaria, la salute pubblica, l’occupazione, l’istruzione e i sistemi di protezione sociale.”

Piani e campi d’azione che ogni forma di sinistra esistente dovrebbe mettere al centro della propria agenda politica.

Vaccini, sogni e futuro.

In questa società pandemica costituita da emergenze sanitarie, economiche e sociali, in questo caos di morti reali e di allarmismi confezionati, di vaccini obbligatori o super consigliati per qualsiasi fascia d’età, di varianti impazzite che potrebbero riportarci ad un autunno di chiusure e di silenzio dimentichiamo troppo spesso le persone reali.

Gli anziani, soprattutto nelle fasce più povere della popolazione, che non ci sono più o quelli che non ce la fanno più e la cui memoria esigerebbe un continuo ripensamento del nostro modo di pensare, vivere e progettare una società.

I giovani, spesso indicati come untori del virus per il loro egoismo e la loro voglia sfrenata di infrangere le regole, hanno pagato duramente la pandemia nella scuola, nel lavoro, nelle relazioni, amore, politica, sport, musica e altro ancora, soprattutto nel vivere, rischiare e sognare insieme un periodo fondamentale della propria esistenza.

La scrittrice Francesca Capelli ci ricorda giustamente: ”Non abbandoniamo il desiderio di vivere insieme, affrontando con intelligenza e lungimiranza i numerosi rischi dell’esistenza. È questo che mi auguro, per me e per il genere umano (se non suona troppo pretenzioso), in questo 2021 iniziato da pochi mesi".

Oppure l’antropologo David Graeber, scomparso il 2 settembre del 2020: “Perché, invece, una volta superata l’emergenza in corso, non tenere a mente quello che abbiamo imparato: che se «economia» significa qualcosa, è il modo in cui ci forniamo a vicenda ciò di cui abbiamo bisogno per essere vivi (in tutti i sensi del termine); che quello che chiamiamo «il mercato» è in gran parte solo un modo di catalogare i desideri aggregati dei ricchi, la maggior parte dei quali sono leggermente patologici, e i più potenti dei quali stavano già completando i progetti per i bunker nei quali pianificano di rifugiarsi se continuiamo a essere abbastanza sciocchi da credere alle lezioni dei loro tirapiedi per cui eravamo tutti, collettivamente, troppo privi di buon senso, per fare qualcosa contro le catastrofi in arrivo. Questa volta, possiamo semplicemente ignorarli? La maggior parte del lavoro che stiamo facendo adesso è il lavoro dei sogni. Esiste solo per sé stesso, o per far sentire bene i ricchi con loro stessi, o per far sentire male i poveri con loro stessi. E se ci fermassimo semplicemente, sarebbe possibile scambiarci una serie di promesse molto più ragionevoli: per esempio, creare un’economia che ci consenta di prenderci effettivamente cura delle persone che si prendono cura di noi.”

I vaccini servono sicuramente per arginare questa epidemia, ma serviranno a poco senza una reale prospettiva di una società della cura, del noi, dei sogni e del futuro che manca da troppo tempo ormai.

Fonte

29/06/2021

Gli Argonauti (1963) di Don Chaffey - Minirece

Palestina - Prosegue la mobitazione per la morte di Nizar Banat

Anche ieri sono continuate le manifestazioni contro l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania dopo la morte durante l’arresto di uno degli attivisti più critici verso l’ANP.

Diverse centinaia di persone sono scese ieri per le strade di Ramallah, Hebron e Betlemme per il quinto giorno consecutivo per protestare contro il trattamento riservato a Nizar Banat, l’ attivista morto durante l’arresto da parte delle forze dell’ANP a Hebron il 24 giugno scorso.

Nelle manifestazioni sventolavano bandiere palestinesi, foto di Banat e la richiesta della fine dei 16 anni di governo di Abu Mazen, In diversi casi le manifestazioni sono state caricate duramente sia dalle forze di sicurezza palestinesi che da uomini in borghese.

Secondo il sindacato dei giornalisti palestinesi, bastoni, barre di metallo, gas lacrimogeni sono stati usati per interrompere le manifestazioni e impedire ai giornalisti di documentare gli eventi. Non ci sono però dati ufficiali sul numero delle persone ferite o arrestate.

Secondo il corrispondente del The Guardian, i numeri delle manifestazioni di ieri erano inferiori alle migliaia di persone che hanno partecipato alle manifestazioni dei giorni precedenti, ma sono state rinnovate le richieste di uno sciopero generale in tutta la Cisgiordania.

Secondo la famiglia di Nizar Banat, l’attivista è stato duramente picchiato prima di essere trascinato via.

L’annuncio delle autorità palestinese che ci sarebbe stata un’indagine sulla sua morte è stato respinto da diversi gruppi palestinesi e internazionali per i diritti umani, che hanno invece chiesto un’inchiesta indipendente.

Dal canto suo, secondo l’agenzia palestinese Wafa, l’Autorità Nazionale Palestinese, attraverso il primo ministro Muhammad Shtayyeh, ha dichiarato oggi che il comitato formato per indagare sulla morte di Nizar Banat sta svolgendo il proprio lavoro con professionalità e trasparenza al fine di rivelare la verità, e che coloro che hanno dimostrato di avere una relazione con l’uccisione di Banat durante il suo arresto a Hebron giovedì mattina saranno ritenuti responsabili dalle autorità giudiziarie competenti.

Su un’altra questione, il Primo Ministro ha affermato: “Stiamo lavorando per assicurare l’adesione della Palestina al Protocollo Opzionale contro la Tortura senza alcuna riserva, e stiamo lavorando per diffondere una cultura del pluralismo, dello stato di diritto, e per ricorrere alle regole stipulate negli accordi internazionali firmati dalla Palestina”.

Dal canto suo Hamas ha affermato di ritenere il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, pienamente responsabile per l’omicidio dell’attivista ed avversario politico Nizar Banat.

“Il movimento della resistenza islamica, Hamas, condanna fermamente l’omicidio da parte delle forze di sicurezza di Abbas dell’attivista ed oppositore politico, Nizar Banat, vice-capo della ‘Lista della Libertà e della Dignità’ alle elezioni legislative”, si legge in una nota.

E aggiunge che “questo crimine orchestrato e premeditato riflette le intenzioni ed il comportamento dell’autorità di Abbas e dei suoi servizi di sicurezza nei confronti del nostro popolo, degli attivisti dell’opposizione e degli oppositori politici”.

L’uccisione di Banat è diventata così il catalizzatore finale di un nuovo ciclo di proteste di piazza contro quella che molti palestinesi vedono come una classe dirigente corrotta, repressiva e inefficace contro l’occupazione israeliana.

Un cahier de doleance alimentato anche dalla cancellazione delle prime elezioni in 15 anni, a causa del divieto israeliano di celebrarle anche a Gerusalemme, e dalla escalation del mese scorso a Gaza.

“Penso che questa volta le proteste siano diverse a causa degli estremi pericoli che i palestinesi stanno affrontando” – ha affermato Mariam Barghouti, scrittrice e ricercatrice di Ramallah – “La risposta violenta è un chiaro messaggio che chiunque osi sfidare le ingiustizie dell’Autorità Palestinese, o eserciti il proprio diritto di chiedere altre politiche, rappresentanti e pratiche saranno attaccate, persino uccise, impunemente”.

Nonostante abbia visto diminuire drasticamente i consensi nella società palestinese, il presidente Abbas ha ancora un forte sostegno dei paesi occidentali, che vedono l’ANP come un’opzione migliore di Hamas e temono un vuoto di potere, se viene destabilizzata la Cisgiordania.

Fonte

Assange e il testimone dell'FBI

Il caso di Julian Assange potrebbe essere arrivato a una svolta dopo le dichiarazioni rilasciate da uno dei testimoni chiave utilizzati dal governo americano per costruire il castello di accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Visto il carattere persecutorio e illegale del procedimento di incriminazione ai danni del giornalista australiano, è più che probabile che la sorte di quest’ultimo rimarrà precaria, ma gli ultimi sviluppi confermano clamorosamente come il dipartimento di Giustizia di Washington abbia basato il proprio impianto accusatorio sulle menzogne di un testimone ultra-screditato in cambio dell’immunità garantitagli dallo stesso governo USA.

Il testimone in questione è il cittadino islandese Sigudur “Siggi” Ingi Thordarson, il quale in un’intervista alla rivista Stundin ha ammesso di avere fabbricato le accuse rivolte contro Jualian Assange. La sua testimonianza costituisce il fulcro del capo d’accusa aggiuntivo contestato dalla giustizia americana ad Assange nel giugno del 2020, sostanzialmente allo scopo di rafforzare la posizione di Washington nel processo di estradizione tuttora in corso a Londra.

Alla luce delle implicazioni per la libertà di stampa derivanti dall’incriminazione di un giornalista ed editore come Assange in base al dettato del cosiddetto “Espionage Act” del 1917, l’allora amministrazione Trump si era mossa per rendere più grave la sua posizione, accusandolo di avere favorito l’hackeraggio di sistemi informatici governativi al fine di ottenere informazioni classificate. Prendendo forse spunto da una dichiarazione pubblica di Joe Biden nel 2010, il dipartimento di Giustizia di Trump aveva cioè cercato di dipingere Assange non come un giornalista, ma come un vero e proprio “hacker”.

Biden aveva spiegato in quell’occasione che se si fosse dimostrato un eventuale “complotto con membri delle forze armate USA per ottenere documenti riservati”, il caso contro Assange sarebbe stato molto più solido rispetto a una situazione nella quale a un giornalista viene semplicemente consegnato del materiale segreto da pubblicare. Grazie alla falsa testimonianza di Thordarson, dunque, il governo americano aveva cercato di rendere più solida l’accusa, mai provata, della “cospirazione” tra Assange e Chelsea Manning per penetrare nei computer del Dipartimento della Difesa e, parallelamente, per dimostrare un’iniziativa simile ai danni di una banca islandese e di personalità politiche di questo paese.

Secondo quanto sostenuto dal dipartimento di Giustizia americano, all’inizio del 2010 Assange aveva chiesto a Thordarson, indicato semplicemente come “Teenager” per via della sua giovane età, di entrare in possesso di comunicazioni telefoniche ed elettroniche di funzionari di alto livello dell’Islanda, definita come “paese NATO 1”, inclusi membri del parlamento di Reykjavik. Thordarson ha invece smentito questa versione nella sua intervista al giornale islandese Stundin. Egli stesso ammette che Assange “non gli ha mai chiesto di hackerare i telefoni dei parlamentari” islandesi. Al contrario, Thordarson ha ricevuto il materiale in questione da una fonte terza che sosteneva di avere registrato le comunicazioni dei membri del parlamento e desiderava condividerle con WikiLeaks senza conoscerne il contenuto.

Identico discorso vale per le informazioni riservate provenienti dall’interno della banca islandese Landsbanki, andata in crisi nell’autunno del 2008 assieme a praticamente tutte le altre istituzioni bancarie islandesi, precipitando il paese in una gravissima crisi economica. Anche per questo materiale non ci sono evidenze che esso fu “sottratto” alla banca, ma venne piuttosto “distribuito” da fonti interne all’istituto e, già nell’estate del 2010, condiviso da molti in rete.

La terza smentita di Thordarson riguarda la tesi sostenuta dal dipartimento di Giustizia USA in merito al presunto accesso non autorizzato di Assange ad un sito web governativo islandese utilizzato per il tracciamento dei veicoli della polizia e del primo soccorso. Thordarson ha rivelato che fu lui a penetrare questo sito grazie alle credenziali che aveva come volontario di primo soccorso, mentre Assange non gli avrebbe mai chiesto nulla in proposito.

Importantissimo infine è il chiarimento fornito circa le comunicazioni avvenute tra Thordarson e alcuni gruppi di “hacker” a cui venivano sollecitati attacchi informatici in Islanda. Stundin è in grado di confermare, grazie all’esame delle chat di Thordarson, che né Assange né altri all’interno di WikiLeaks gli avevano dato istruzioni per agire in questo modo né di ciò erano in qualche modo al corrente. WikiLeaks, oltretutto, non aveva alcun interesse a colpire l’Islanda, anche perché era in corso allora una collaborazione con alcuni parlamentari per l’approvazione di una legge sulla libertà di stampa.

Thordarson, va aggiunto, non ha mai fatto parte di WikiLeaks, ma si era insinuato nell’organizzazione giornalistica nel 2010 svolgendo tutt’al più l’attività di volontario. Il suo comportamento era apparso da subito sospetto, visto che in più di un’occasione si era presentato a giornalisti e “hacker” come un membro di spicco di WikiLeaks senza averne l’autorizzazione. Nell’estate del 2011, poi, WikiLeaks denunciò Thordarson per l’appropriazione di 50 mila dollari provenienti dalle donazioni dei sostenitori e dalla vendita di “merchandising”.

Il precipitare dei rapporti con WikiLeaks spinse Thordarson a rivolgersi al governo americano per offrire i propri servizi all’FBI, probabilmente anche in seguito ai contatti intrattenuti con un altro “hacker”, Hector Xavier Monsegur, anch’egli diventato informatore del “Bureau” dopo essere stato arrestato per una serie di attacchi informatici, alcuni dei quali contro istituzioni islandesi.

Nella stessa estate del 2011, funzionari del governo USA arrivarono a Reykjavik, ufficialmente per informare l’Islanda delle minacce alla propria sicurezza informatica. In realtà, si trattava di un pretesto per incontrare Thordarson, che sarebbe stato infatti trasferito negli Stati Uniti di lì a poco, e per mettere le mani sui documenti in suo possesso. Thordarson sarebbe stato in ogni caso condannato nel 2013 e nel 2014 per vari reati, dall’appropriazione indebita di fondi di WikiLeaks alle molestie su minori.

Dopo l’arresto illegale di Assange nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra nell’aprile del 2019, Thordarson fu di nuovo riciclato dal governo americano. In cambio dell’immunità negli USA, sottoscrisse un accordo con il dipartimento di Giustizia per gettare fango su Assange e permettere appunto a Washington di provare a costruire un’accusa più solida nel procedimento di estradizione in corso nel Regno Unito.

L’intervista pubblicata da Stundin conferma così le manovre illegali del governo degli Stati Uniti per incriminare Assange e mettere il bavaglio non solo a WikiLeaks, ma anche a qualsiasi giornalista che intenda far luce sui crimini di Washington. In questa vera e propria cospirazione sono coinvolti almeno anche i governi di Regno Unito, Ecuador, Australia e Svezia, dove Assange è stato a lungo al centro di una farsa giudiziaria derivante da accuse ultra-manipolate di stupro.

Il ricorso alla testimonianza di un criminale con varie condanne sulle spalle come Sigudur Thordarson non è ad ogni modo l’unica operazione sporca a cui ha fatto ricorso il governo americano. Tra le altre, basti pensare alle operazioni di sorveglianza condotte ai danni di Assange e dei suoi visitatori durante la permanenza forzata nell’edificio che ospita l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Alcuni dei particolari di questa vicenda erano emersi in concomitanza con l’apertura di un procedimento legale in Spagna contro la società a cui la CIA aveva assegnato il compito di controllare le attività e le comunicazioni di Assange.

Le irregolarità e le violazioni della legge da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati nella persecuzione di Julian Assange sono tante e tali da determinare, in una situazione normale, un’archiviazione immediata del suo caso. Il numero di uno di WikiLeaks, alla soglia del suo 50esimo compleanno, continua invece da un decennio a essere vittima di un colossale complotto che lo priva ingiustamente della libertà e lo espone tuttora al rischio, se estradato negli USA, di una condanna fino a 175 anni di carcere, se non addirittura a morte. È quindi tutt’altro che scontato che le parole del testimone del governo americano Thordarson possano giocare a favore di Assange, nonostante la portata oggettivamente esplosiva e le implicazioni dirette sul suo caso.

Lo scorso gennaio, la giudice britannica che presiede alla vicenda giudiziaria, Vanessa Baraitser, aveva deliberato contro l’estradizione per via del rischio di suicidio a cui potrebbe andare incontro Assange se finisse nella rete del sistema carcerario americano. La stessa giudice aveva tuttavia appoggiato in pieno le tesi del dipartimento di Giustizia USA e disposto la permanenza di Assange nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh in attesa della sentenza di appello.

In un sistema realmente democratico, dove la libertà di stampa non ha vincoli né limiti, anche senza considerare il contesto o i precedenti, le recenti ammissioni di Sigudur Thordarson dovrebbero far giungere alla conclusione a cui è arrivato Edward Snowden. In un tweet postato nel fine settimana, l’ex “contractor” della CIA ha scritto che la pubblicazione dell’intervista a Thordarson dovrebbe rappresentare semplicemente “la fine del procedimento contro Julian Assange”.

Fonte

Io sto coi diritti e non sto coi poliziotti

Avevamo ragione. Nelle carceri italiane ci sono violenza e tortura di stato. E l’anno scorso, durante le proteste dei detenuti per le condizioni vergognose con cui erano esposti al Covid, c’è stata una vera e propria mattanza.

Una strage impunita a Modena, una macelleria come venti anni fa alla Diaz, a Santa Maria Capua Vetere.

Qui almeno la magistratura è ora intervenuta e ben 52 dirigenti, agenti, addetti al sistema carcerario sono stati arrestati con accuse gravissime. Non è un caso isolato, ma un pezzo di un intero sistema.

La violenza contro i detenuti è parte delle tante sopraffazioni compiute oggi dalle cosiddette “forze dell’ordine”, che sempre di più si sentono autorizzate a tutto nel nome della “legalità”.

Carcerati, migranti, poveri, manifestanti, chiunque sia in condizioni di debolezza rispetto al potere o provi a lottare contro di esso, oggi rischia la brutalità di stato.

Forse non ci siamo ancora, ma sempre di più somigliamo agli Stati Uniti, dove la polizia ha licenza di uccidere afroamericani, emarginati, esclusi.

Dal carcere di Santa Maria Capua Vetere a quello di Modena, dalla caserma dei carabinieri di Piacenza a quella di Aulla, dall’assassinio di Stefano Cucchi a quello di Federico Aldrovandi, dai pestaggi contro scioperanti e occupanti di case a quelli del G8 di Genova, è una lunga catena di brutalità poliziesche.

La destra fascista, in tutte le sue versioni, come sempre fa sue e sostiene queste brutalità, con lo slogan “io sto coi poliziotti”; e come sempre di fronte ad uno scontro vero la “sinistra” ufficiale e di palazzo o sta con la destra, o scompare.

Per questo ben venga anche da noi un movimento come quello di Black Lives Matter, che metta sotto accusa il regime di impunità per le violenze poliziesche, che chieda di rivedere i finanziamenti alle forze dell’ordine, privilegiando la spesa per i diritti, compresi quelli dei detenuti.

E che soprattutto combatta la dominante narrazione reazionaria su sicurezza, “legge e ordine”, che ha intossicato le nostre società e compromesso la nostra democrazia.

Io sto coi diritti e non sto coi poliziotti, diciamolo forte e senza paura.

Fonte

Germania - Crescono le spese militari

Mentre la Germania sperimenta sul campo le conseguenze della sua spedizione militare in Mali, con diversi soldati rimasti feriti in un attacco, le spese militari tedesche nel 2022 saliranno fino a 53 miliardi di euro, ben 3,4 miliardi in più rispetto a quest’anno. Supera così per la prima volta la soglia simbolica dei 50 miliardi, secondo la proposta approvata dal governo federale. A riferirlo è il sito specializzato Analisi Difesa.it

La notizia dell’aumento delle spese militari della Germania era già annunciato a febbraio di quest’anno, quando il giornale Der Spiegel aveva pubblicato il “Finanzbedarfsanalyse 2022” (Analisi finanziaria dei fabbisogni), secondo cui le forze armate tedesche continuano ad essere sotto-finanziate.

“Numerosi progetti di armamenti necessari per raggiungere gli obiettivi di pianificazione della NATO” non potranno partire con l’attuale piano di investimenti.

Secondo diversi analisti e gli standard che gli Usa pretendono nella Nato, l’aumento delle spese militari tedesche per quanto consistente viene ritenuto anche dal ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer insufficiente per “ridare slancio ed efficienza alla Bundeswehr”, quindi è solo un “mezzo successo”. A riferirne è il quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung.

Il 23 giugno scorso la commissione Bilancio del Bundestag ha approvato 27 programmi per la Difesa, per un totale di circa 20 miliardi di euro, dei quali ben 4,5 assorbiti dai costi di ricerca e sviluppo fino al 2027 del nuovo caccia franco-tedesco-spagnolo FCAS/SCAF.

Tali fondi copriranno i costi di sviluppo fino alla messa a punto dei primi dimostratori tecnologici del nuovo caccia.

Tra i tanti programmi nell’elenco non risulta esserci però quello del carro armato franco-tedesco (Main Ground Combat System) il cui sviluppo è messo in forse dai profondi dissidi tra Berlino e Parigi ma che Berlino vorrebbe allargare anche ad altri partner europei, Italia in testa.

Nella lista dei progetti approvati figurano anche l’ammodernamento dei sensori delle fregate F-124 e dei cacciamine, dei blindati Puma, l’acquisizione di veicoli medi per le forze speciali, la realizzazione di sottomarini aggiornati U-212CD, sistemi di guerra elettronica e comunicazione satellitare per elicotteri NH-90, l’acquisizione di 5 aerei da pattugliamento marittimo Boeing P-8A Poseidon per sostituire i P-3 Orion al costo di 1,8 miliardi di euro.

Sul piano politico colpisce che una delle forze politiche più convinte di un maggiore protagonismo della Germania sul piano della sicurezza e della difesa siano diventati proprio i Verdi, per i quali qualcuno pronostica anche un posto nella cancelleria post Merkel. Secondo alcuni commentatori sono diventati più filo-atlantici della stessa CDU.

I vergognosi scheletri nell’armadio accumulati dai Verdi tedeschi nell’aggressione alla Jugoslavia negli anni '90, tornano così a farsi vivi.

Fonte

Licenziamenti liberi, Draghi dà il via alla mattanza

Brunetta, Orlando, Giorgetti, Speranza, Bonetti, Franco, Patuanelli. Insieme a Mario Draghi costituiscono la “cabina di regia” che ieri ha deciso lo sblocco dei licenziamenti, dando così via libera alle aziende che da giovedì potranno cominciare a “liberarsi” dei lavoratori dipendenti.

Una decisione fortemente voluta da Confindustria e fiaccamente osteggiata dai sindacati “complici”, che oggi incontreranno “il boss” per farsi comunicare i dettagli, ma che neanche fanno finta di minacciare una qualche mobilitazione.

L’unico comparto per cui il blocco resta attivo è, genericamente, quello del “tessile e settori collegati” (con il calzaturiero e la moda), nonché le “imprese in difficoltà” (definizione altamente vaga e soggetta a forzature di ogni tipo).

Qui resterà perciò in vigore la cassa integrazione straordinaria totalmente a carico dello Stato e senza alcun onere per le aziende.

La “cabina di regia”, naturalmente, ha solo stilato il testo che dovrà domani essere portato in consiglio dei ministri, sotto forma di decreto legge “ponte”

Il nodo è comunque sciolto e si tratta del più duro attacco alla condizione del lavoro in Italia dopo l’abolizione dell’art.18 da parte di Matteo Renzi.

Difficile prevedere esattamente la dimensione dei licenziamenti che saranno effettivamente messi in atto. Confindustria parla di 70.000 persone, i sindacati di almeno 600.000. E va da sé che anche i 70.000 sarebbero un’enormità, dopo il milione di posti già persi dall’inizio della pandemia (soprattutto precari e donne, alla faccia delle dichiarazioni sull’importanza della “parità”).

Il quadro delle posizioni aziendali è troppo ampio. C’è chi si vuol liberare di lavoratori anziani, con contratti “semi-blindati” e stipendi dignitosi, ma ha difficoltà a trovare sostituti all’altezza (l’esperienza, in numerose mansioni, è più produttiva della pura energia fisica). E c’è chi sogna una manodopera totalmente “liquida”, senza diritti, orario, ferie, “a chiamata”.

Ovvio che molto dipende dall’organizzazione della produzione, dalle competenze necessarie. E meno ne servono, più facile sarà trovare “forza lavoro” a basso prezzo.

Ma proprio questo sblocco, fatto per accontentare il basso livello tecnologico della maggior parte delle aziende italiane, conferma la volontà di mantenere un modello economico fondato su bassi salari e produzione orientata all’esportazione. Ovvero quel modello che ha portato tutta Europa nella fogna della crescita zero e della deflazione, non solo salariale.

Sulle contorsioni della “classe politica”, tutta compatta a favore delle imprese (e l’”oppositrice” Meloni è forse la più feroce sostenitrice di questo sblocco), lasciamo volentieri la parola a Giorgio Cremaschi.

*****

I licenziatori e i loro complici

Mentre Grillo e Conte imperversano sui mass media con diarchie, garanti, visioni, comandi politici, il governo Draghi, che entrambi sostengono e si vantano di sostenere, ha dato il via libera ai licenziamenti di massa.

Queste giornate sono un riassunto del degrado della classe politica, della sua subalternità assoluta al mondo degli affari e del profitto, della cialtroneria dei suoi conflitti, che nascondono la sostanziale unanimità nelle scelte vere.

Torniamo al mercato ha festeggiato Brunetta, mentre decine di migliaia di operai si preparano a finire sulla strada. E da Meloni a Speranza, da Salvini a Letta, da Berlusconi a Renzi, tutti convengono che le povere imprese non potevano aspettare ancora a licenziare, soprattutto quelle che vanno bene e che nella pandemia hanno guadagnato tanto.

Del resto tutti costoro hanno eliminato l’articolo 18. Perché ora dovrebbero impedire agli imprenditori di licenziare i lavoratori più costosi e sostituirli con precari sottopagati?

Non bisogna forse dare una lezione ai fannulloni del reddito di cittadinanza? Sarebbe stata una così insopportabile violazione dei diritti civili dei padroni, pretendere da loro un po’ di sensibilità sociale e non licenziare? Magari aspettando quella estensione degli ammortizzatori sociali che sarebbe il primo dovere di un sistema un poco meno ingiusto?

Ma oggi la società italiana è una brutale società di classe, dove i ricchi comandano e i politici li adulano e festeggiano.

I cinquestelle sono arrivati a oltre il trenta per cento dei voti perché hanno raccolto la protesta contro la classe politica, ed ora ne fanno parte nel modo più opportunista e ridicolo.

Draghi, la Confindustria, le multinazionali, le banche, i poteri economici italiani ed europei, tutti questi sono il governo reale del paese, quelli che vanno in televisione a fare scena come leader politici sono solo burattini. Che il sistema inventa, usa e getta.

Ieri era benedetto dal successo Renzi, poi è toccato a Di Maio, poi a Salvini, ora è il momento di Meloni. Tranquilli, la postfascista sarà consumata come i suoi predecessori, come Marine Le Pen già insegna.

Ciò che non cambia è il governo dei ricchi per i ricchi, il resto è scena per convincere i poveri che tutto si fa per i loro interessi.

I licenziamenti mentre non siamo ancora fuori dalla pandemia sono una infamia del sistema, la seconda dopo i tanti morti per Covid dovuti alla scelta di tutta la classe politica di convivere con il virus, anziché di provare a fermarlo.

Ora dobbiamo solo lottare con tutta l’indignazione la determinazione che abbiamo, contro i licenziamenti, i licenziatori e tutti i loro servi e complici.

Fonte

Le ginocchia fragili del nazionalismo calcistico italiano

Pre-partita

Non nego che a principio la questione avesse avuto anche per me un vago retrogusto di banalità: il fatto che la tematica antirazzista fosse portata, con spirito spudoratamente pedagogico, sui campi di calcio, da parte di atleti che nella maggior parte dei casi non esprimono di certo il meglio di sé nell’ambito dell’opinione e della lotta politica, sembrava in qualche modo sottolineare la natura cosmetica, artificiosa e formale dell’iniziativa.

E poi di fatto sull’antirazzismo non c’è molto da discutere: è ovvio che siamo tutti d’accordo.

Non è così ovvio evidentemente, come dimostrato dalla recente presa di posizione della nazionale italiana, che richiamandosi al dogma insormontabile dell’unità della squadra ed a uno dei più abusati discorsi degli ultimi anni, quello della “libertà di espressione”, ha deciso con modalità che li consegnerebbero, senza bisogno di play-off, al girone degli ignavi, di non inginocchiarsi, come voluto dal rituale di protesta contro il razzismo diffusosi in seguito all’assassinio di George Floyd negli USA ed al dilagare del movimento BLM su scala globale.

Le acrobazie retoriche degli opinionisti ed influencer di destra avevano già da tempo lavorato nel sobillare, attraverso curiose inversioni dialettiche, l’idea che il non sottomettersi a questa pratica politically correct fosse un impavido “atto di resistenza” nei confronti di forze manipolatrici e conformanti.

È oramai un’argomentazione comune ed efficace quella che ribalta ed estremizza i discorsi relativi alla tutela delle minoranze, e ci spiega come queste retoriche siano degenerazioni mentali di un’élite politica globalista che mira a costruire una forma di cittadinanza plasmata in funzione delle sue oscure strategie.

Seducente, ma di fatto, più che costruire un punto di vista nuovo, le critiche quasi sempre si arenano regressivamente su posizioni conservatrici e reazionarie, per quanto spesso sostenute da persone che faticano a vedere nelle nuove espressioni della “sinistra” globale una critica radicale al capitalismo, specie alle sue evoluzioni in simbiosi con il fenomeno pandemico.

Le lotte per i diritti civili sarebbero, in questa prospettiva, controcultura costruita ad hoc, la vera nemica di altre possibili forme di resistenza più vere, spesso non ben identificabili se non a partire da vaporose teorie del complotto.

In questo quadro discorsivo il calcio, (e lo sport in generale) deve quindi essere libero da inferenze ideologiche, nella fattispecie rispetto alle preconfezionate questioni citate e alla fantomatica “dittatura del politically correct,” intorno alla quale è sicuramente necessario approfondire il dibattito, ma che è ultimamente diventata una categoria che magnetizza negativamente una costellazione di fenomeni troppo ampia per essere ricondotta e semplificata ad un’espressione votata ad attrarre strategicamente antipatie più da sinistra che da destra.

Un cavallo di Troia ideologico che penetra, moltiplicandosi attraverso la circolazione di idee, il sottosuolo conversazionale delle centinaia di migliaia di commenti che incorniciano i post e gli articoli che intersecano, più o meno consapevolmente, il dominio semantico del termine.

Chi si direbbe sostenitore del politically correct? Più o meno quanti quelli che si definirebbero razzisti, negazionisti, o complottisti. Non sono certo categorie negoziali, in quanto oramai fungono da denigrazione implicita della posizione ideologica degli altri, paralizzando di fatto ogni possibilità di dialogo.

Ora però mi chiedo quanto il calcio in sé possa vantare una purezza ideologica, una verginità che ne sancisca e legittimi la posizione imparziale rispetto al fenomeno del razzismo.

Lasciamo per il momento da parte le tendenze politiche delle curve per concentrarci su quanto avviene sul campo e sulla sua funzione simbolica: il calcio, specie durante eventi come gli europei, può essere di fatto letto come la più sentita manifestazione performata delle dimensioni identitarie nazionaliste.

È imbarazzante ma realistico affermare che l’apice del nostro patriottismo si impone alle nostre viscere durante queste cicliche chiamate alle armi – TV, telecomando, pizza, birra e divano – anche esplodendo in torsioni e scatti corporei incontrollati, attraverso cui lo spirito italico si impossessa provvisoriamente della nostra volontà e nella nostra identità di fruitori, per quanto queste possano essere normalmente ricalcitranti al fenomeno.

È difficile negare che le icone più unificanti ed efficaci della storia d’Italia siano da rintracciarsi nei fotogrammi di Paolo Rossi e Fabio Grosso esultanti dopo aver segnato i gol più decisivi per la vittoria del mondiale.

Con buona pace dei partigiani da una parte e dei fascisti dall’altra, c’è qui una trasversalità ed una pervasività del nazionalismo nostrano, peraltro perfettamente innestata e visualmente percepibile nei corpi dei nostri eroi, in qualche modo inarrivabile per altri ambiti, inevitabilmente divisivi, della storia recente.

Questo senso di coesione, come in tutte le dinamiche identitarie operative, si nutre comunque di una nemesi, che possiamo dire qui sublimata nel ludico: le partite potrebbero in questo senso essere considerate delle piccole guerre in cui la conflittualità è, sì, incorporata, ma non degenera in violenza, rimanendo inscritta in una normatività ben disciplinata e giudicata.

Le stesse tensioni identitarie ritualizzate nella performance sportiva sono però slatentizzate nel pubblico, ed è emblematico il fatto che nelle fasi successive alle partite capiti che le tifoserie (non necessariamente delle nazionali, anzi, la scala campanilistica è la solida base di questo sistema segmentario) si cerchino e si scontrino quasi a voler riaprire il conflitto “giocato” in uno spazio normativo meno strutturato, in cui l’aggressività nutrita dal sentimento identitario possa cedere alla violenza come estrema soluzione con le forze dell’ordine ad arbitrare.

Lo sport, ma direi soprattutto il calcio, forse proprio per la mascolinità tossica in cui spesso è invischiato, ritualizza e sublima, ma anche libera le forze conflittuali a cui allude, reificando appartenenze altrimenti più porose, frammentate ed incerte.

C’è quindi da un lato un potenziale emancipatorio rispetto alla dimensione identitaria (pensiamo ad esempio al cortocircuito innescato dalle “naturalizzazioni” dei calciatori), ma, nell’evidenza delle coreografie e i cori da stadio, nell’atmosfera solenne che accompagna gli inni, nei contrasti e gli sciami emotivi che lo propagano oltre i 90 minuti giocati, rimane in primo luogo un’espressione di forme identitarie che rimandano ad un pensiero di destra, sicuramente lontano da internazionalismo e lotta di classe, se vogliamo con queste intendere il cuore ideologico della sinistra.

Forse più compatibile con l’universalismo antirazzista e antiomofobo ed i suoi tentativi di istituzionalizzazione, in un prospettiva relativa al potenziale più che allo stato attuale delle cose.

In questo senso l’iniziativa pedagogica dell’inginocchiamento non è strutturalmente banale se pensata all’interno del contesto specifico, all’ambiente antropologico che lo circonda ed al suo identitarianismo sistemico.

Soprattutto rimane la sensazione che il rifiuto dei calciatori di inginocchiarsi non derivi tanto dalla fantomatica “libertà di espressione” e da una spontanea ribellione alla “dittatura del politically correct”, ma più semplicemente dalla necessità di non mettere in discussione il versante divisivo di cui si nutre l’apparato calcistico come fenomeno sociale, in buona parte vincolato alla sensibilità destroide delle sue tifoserie.

Il suo senso, a mio modo di vedere, non si è rivelato tanto nella proposta in sé, nel suo imporsi dall’alto al senso comune, ma proprio nelle crepe che ha creato negli spogliatoi, e, nel caso italiano, nel cedimento, con dinamiche palesemente maggioritarie, a quelli che sono i meccanismi identitari dell’habitat culturale che lo circonda.

Non sarà mai infatti in discussione la simbologia patriottica su cui si innesta “naturalmente” la performance, né tanto meno i marchi e gli sponsor che ne decorano le scenografie, per quanto anch’essi ideologicamente connotati, questa volta al consumismo.

Per la gioia di chi deamicisianamente ritiene necessario imprimere l’etica anche ad una serata pizza-birra-TV, è in conclusione il pensiero antidivisivo e non alterizzante, come quello “banalmente” antirazzista, a costituire una minaccia al cuore dell’apparato calcistico e alle sue strutture soggiacenti, a far vacillare le tassonomie che richiama, ad attenuare eccessivamente una polarizzazione che è di per sé parte della ricezione dell’evento.

Questo ci diranno gli azzurri ogni sera, quando impettiti stoneranno fuori tempo l’Inno di Mameli: “Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, ma non aspettatevi molto altro”.

Post-partita

Era dalla famigerata estate del 1990, quando avevo 9 anni, che lo spirito del nazionalismo, con ricorrenza biennale, riusciva subdolamente ad aggirare il mio raziocinio e a possedermi, attraverso saliscendi emotivi e immedesimazione corporea rievocati da mondiali ed europei.

All’epoca dell’infausta iniziazione, lo ricordo bene, mentre Caniggia segnava per l’Argentina, io stavo leggendo Topolino, e mio padre mi aveva fatto notare, un po’ turbato dalla mia apatia, che nel frattempo “stavamo perdendo”.

Ma lasciamo perdere le derive psicanalitiche, e con queste l’idea che sia stata colpa della mia distrazione se l’Italia delle notti magiche si sia fermata alla semifinale.

Lo ammetto, ho sempre vissuto con un certo fastidio questo innesto ideologico come un corpo estraneo, mai ben integrato nel mio habitus di antropologo svisceratore di reificazioni identitarie.

Ieri (e di questo devo ringraziare anche le impacciate dichiarazioni di Chiellini sulla “lotta al nazismo” che verrà portata avanti nei prossimi mesi, probabilmente attraverso letture critiche del Mein Kampf durante l’intervallo), quasi magicamente l’esorcismo è finalmente avvenuto.

La mia pancia si è però impulsivamente orientata verso l’Austria, forse per ingenua concessione allo sterile assioma strategico “i nemici dei tuoi nemici sono tuoi amici”. Ma per il momento ci accontentiamo del compromesso dell’inversione, sostenuta dalla immancabile romantica simpatia per la parte più svantaggiata.

Per tutta la partita, che ho seguito presso un centro di accoglienza per immigrati, ho quindi intimamente tifato per la squadra avversaria. In vortice inatteso di stati d’animo, un malcelato “spaesamento” (nella declinazione etimologica e figurata del termine), avrebbe lasciato presto spazio ad un solido e necessario senso di liberazione, perfettamente contrappuntato dall’esultanza di pakistani e ghanesi sui gol di Chiesa e Pessina.

Fonte

Siria - Bombardamenti USA contro le milizie che combattono l’Isis

La NBC riferisce che gli Stati Uniti hanno effettuato domenica dei raid aerei contro le postazioni di milizie Kata’ib Hezbollah e Kata’ib Sayyid al Shuhada lungo il confine tra Iraq e Siria.

Lo ha annunciato il dipartimento della Difesa Usa: “Per ordine del presidente Biden, nelle prime ore di questa sera le forze militari statunitensi hanno condotto attacchi di precisione difensivi contro strutture utilizzate da gruppi miliziani sostenuti dall’Iran nella regione di confine tra Iraq e Siria”, si legge in una nota diffusa dal Pentagono.

Secondo il dipartimento della Difesa Usa, le incursioni aeree hanno colpito strutture operative e per lo stoccaggio di armamenti utilizzanti dalle milizie filo-iraniane Kata’ib Hezbollah e Kata’ib Sayyid al Shuhada per condurre attacchi con droni contro le forze Usa in Iraq.

“Come dimostrato dagli attacchi aerei di questa sera, il presidente Biden ha messo in chiaro di essere determinato ad agire per proteggere il personale militare Usa. Data la serie di attacchi in corso da parte di gruppi sostenuti dall’Iran contro gli interessi Usa in Iraq, il presidente ha ordinato ulteriori azioni militari di ostacolo e deterrenza a tali attacchi”, prosegue la nota del Pentagono.

Il massimo della ipocrisia è stato raggiunto quando il dipartimento della Difesa Usa ha aggiunto che gli Stati Uniti sono impegnati militarmente in Iraq per sostenere la lotta di quel Paese contro lo Stato islamico (?)

In realtà, da quando è stato eletto Biden, i raid statunitensi nella regione – come già avvenuto a febbraio – sono indirizzati esclusivamente contro coloro che stanno combattendo le milizie dell’Isis e, di conseguenza, combattono anche contro le truppe Usa installate nell’area.

Fonte

28/06/2021

Goodbye & Hello (1967) - Tim Buckley - Minirece

Lo scontro tra USA e Cina tra alleanze, finanza e nuove tecnologie

Il libro Guerre senza limiti, scritto da due colonnelli dell’aeronautica cinese, Quiao Liang e Wang Xiansui, ha più di vent’anni, essendo stato pubblicato per la prima volta nel 1999. Malgrado ciò mantiene tutta la sua attualità. Nel libro si sostiene che la globalizzazione e le nuove tecnologie hanno ampliato il concetto di armi e di guerra. Questa non si combatte più solo con le armi letali tradizionali, come aerei e carri armati. Ad esempio, l’informatica e la finanza sono armi vere e proprie quando sono usate come tali contro un avversario. Lo stesso campo di battaglia viene allargato sino ai suoi limiti estremi, coinvolgendo Internet: “Adesso, lo spazio della rete sta richiamando grande attenzione da parte dei militari”[1]. Ci sono diversi tipi di operazioni “belliche”, che rientrano nella nuova categoria di “operazioni di guerra non militari”: la guerra commerciale, finanziaria, terroristica, ecologica, psicologica, culturale, del contrabbando, degli stupefacenti, degli standard tecnologici, delle risorse, degli aiuti economici, ecc. I due colonnelli guardano non solo al mondo della fine degli anni ’90 ma anche, estendendo lo sguardo oltre il presente, al futuro, e concludono che i mezzi che non si caratterizzano per l’uso della forza degli armamenti siano altrettanto efficaci, se non addirittura di più, per raggiungere gli obiettivi della guerra, che consistono nel costringere il nemico a servire i propri interessi. Questo non vuol dire che le armi tradizionali non avranno più importanza, ma che: “Qualsiasi conflitto che scoppi domani o più avanti rientrerà in un concetto di guerra in senso ampio, ovvero un mix di guerra condotta con la forza degli armamenti e guerra condotta con altri mezzi”[2]. La guerra del futuro, concludono i due colonnelli, sarà una sommatoria di più tipologie di guerre.

Ma torniamo all’oggi e in particolare agli ultimi giorni, durante i quali si sono tenuti quattro importanti incontri internazionali. Le ultime riunioni del G7 – l’organizzazione che riunisce USA, Regno Unito, Francia, Germania, Giappone, Italia e Canada – e della Nato, il vertice USA-UE e, infine, l’incontro tra Biden e Putin dimostrano che gli Usa stanno ridefinendo la loro strategia militare e politica. La nuova strategia mette al centro del campo avversario la Cina, che era stata individuata come nemico principale già da Trump. In questo c’è continuità tra l’amministrazione Biden e quella di Trump. Dove, invece, c’è discontinuità è nelle modalità con le quali si affronta la Cina. Con Biden riprende piede il multilateralismo. Questo avviene soprattutto restituendo nuova centralità alla Nato, che Trump aveva definita “obsoleta”. In particolare, Biden cerca di portare sulla propria linea di contrasto alla Cina anche gli europei. In questo sembra essere riuscito, spostando il centro dell’attenzione della Nato dall’Europa, e quindi dal contrasto alla Russia, alla regione dell’Indo-Pacifico. Del resto, anche se la Russia rimane una potenza militare non trascurabile e da contrastare, è un nano economico e non rappresenta una sfida globale per gli USA. L’incontro di Biden con Putin mirava a riallacciare i rapporti con la Russia, anche probabilmente con lo scopo di alleggerire le tensioni sul fronte europeo per concentrare l’attenzione sulla Cina, cercando, allo stesso tempo, di isolare quest’ultima dalla Russia. È la Cina, quindi, ad essere considerata il vero avversario strategico dagli USA. La Cina, infatti, sta per soppiantare gli USA come maggiore economia mondiale e, come vedremo più avanti, sta cercando di raggiungerli e superarli in alcuni settori decisivi, la finanza e le nuove tecnologie, su cui gli USA hanno basato, fino ad oggi, la loro egemonia mondiale. Per queste ragioni, l’Italia riesaminerà il Memorandum of Understanding sulla Belt and Road Iniziative, firmato dal governo giallo-verde con la Cina, e l’accordo UE-Cina sugli investimenti (CAI) è finito su un binario morto all’Europarlamento; viceversa il Nord stream 2, il gasdotto che collegherà Russia e Germania, non è stato sanzionato per precisa volontà di Biden, che, da una parte, non voleva scontentare la Germania, e, dall’altra, voleva favorire il dialogo con Putin.

Tuttavia, Biden non pare aver vinto del tutto. Mentre gli USA premevano per far uscire sui documenti ufficiali la definizione della Cina come avversario e concorrente dell’Occidente, gli europei si sono opposti. Dal contrasto tra alleati è scaturita una formulazione di mediazione: la Cina è “una sfida sistemica” all’ordine occidentale scaturito dalla fine della guerra fredda. Gli USA stanno così definendo i contorni di una nuova guerra “senza limiti” con la Cina. Così, infatti, si legge nel comunicato finale della Nato: “Le ambizioni della Cina e il suo comportamento assertivo sono sfide sistemiche all’ordine internazionale basato sulle regole così come alle aree rilevanti per la sicurezza dell’Alleanza”. A quanto pare a opporsi alla volontà statunitense di fare della Cina l’avversario per eccellenza sono state la Francia, abbastanza scettica sulla Nato (Macron aveva parlato di “morte cerebrale” dell’alleanza atlantica), e soprattutto la Germania, per la quale il Paese asiatico è un importantissimo mercato di esportazione di merci e di investimenti produttivi. La Merkel, infatti, ha dichiarato che non bisogna esagerare la minaccia cinese in questo frangente. Anche nel vertice tra USA e UE la Cina è stata un tema centrale. Questo si è visto soprattutto nella questione dei dazi che USA e UE avevano alzato per sanzionare gli aiuti statali alle rispettive industrie aeronautiche, in particolare a Boeing ed Airbus. Al vertice USA e UE hanno deciso di sospendere per cinque anni le tariffe che si erano imposte reciprocamente e di costituire un gruppo di lavoro dedicato all’aeronautica. L’accantonamento delle divergenze serve a unire le forze dinanzi alla Cina. Infatti, secondo Katherine Tai, la rappresentante al commercio degli USA, “la nuova collaborazione servirà a contrastare la concorrenza sleale cinese nella costruzione aeronautica”. Il concetto è stato ribadito da Valdis Dombrovskys, vicepresidente della Commissione Europea: “È più utile perseguire un equo accesso al mercato globale piuttosto che litigare tra di noi”. Mentre Biden stesso ha tenuto a precisare che l’accordo sull’industria aeronautica è “un esempio da utilizzare anche in altre sfide provocate dal modello cinese”. L’approccio europeo rimane comunque più prudente, visto che la Cina è un partner e un mercato strategico, un traino per l’economia mondiale.

Lo scontro tra USA e Cina si gioca anche su aspetti meno tangibili ma non per questo meno importanti. Non è più solo la guerra ad essere la continuazione della politica e della diplomazia con altri mezzi, come diceva von Clausewitz, ma, anche la finanza e la tecnologia: il 5G, l’intelligenza artificiale, i dati, le valute digitali, i chip o semiconduttori, la realizzazione di una nuova Internet sono i fronti sui quali si combatte la nuova guerra. L’obiettivo delle potenze in competizione è quello di rendere sicure e controllabili le catene produttive globali. Recentemente l’amministrazione USA ha pubblicato i risultati di una ricerca commissionata da Biden. L’obiettivo era quello di valutare i rischi della dipendenza degli USA da paesi stranieri nell’import di merci strategiche, semiconduttori, batterie, terre rare, farmaci e principi attivi. Il rapporto raccomanda di ridurre la dipendenza, ad esempio per le terre rare, da competitori strategici, come la Cina, cercando aree degli USA dove estrarre e processare metalli di importanza critica e di aumentare la produzione manifatturiera interna. Lo studio fa parte di una strategia più ampia, tesa a rendere gli USA più autonomi da importazioni strategiche. Il Parlamento USA sta vagliando una proposta di spesa pubblica per lo sviluppo di nuove tecnologie pari a 250 miliardi di cui ben 50 miliardi andranno ai semiconduttori. Un piano decennale per il valore di 17 miliardi di prestiti è stato pensato per lo sviluppo di una filiera nazionale per la produzione di batterie al litio, necessarie per lo sviluppo della mobilità elettrica. Per quanto riguarda i medicinali sono previste partnership pubblico-privato per la produzione di farmaci essenziali mentre per l’agricoltura verranno spesi 4 miliardi per rafforzare la catena di approvvigionamento alimentare. Un esempio di come sia importante l’autonomia su talune produzioni strategiche è quello dei magneti al neodimio, che hanno applicazioni nei motori elettrici, nei sistemi di guida dei missili e nelle turbine eoliche e per i quali il dipartimento del Commercio sta valutando la dipendenza degli USA dalla Cina che ne è il principale produttore.

Lo scontro tra USA e Cina coinvolge anche i chip o semiconduttori, che sono stati definiti il petrolio della nuova rivoluzione digitale. Il settore dei semiconduttori dal 2016 a oggi ha quintuplicato il suo fatturato, arrivando a 5 trilioni di dollari. Infatti, sono essenziali per molte produzioni, non solo di computer ma di molte merci come le automobili e gli aerei militari. Recentemente la riduzione della fornitura di chip, a seguito dell’aumento della domanda, ha rallentato e persino bloccato temporaneamente le attività di molti produttori di automobili, come quelli tedeschi. Il predominio degli USA in questo settore è ampio ma la Cina li insegue con l’obiettivo di portare la sua autonomia nella produzione di queste importanti componenti dal 20% al 70%. L’importanza dei chip è dimostrata anche dal comportamento dell’Italia, che per la prima volta ha usato i poteri del golden power per bloccare l’acquisizione da parte della Cina di una piccola e semisconosciuta azienda lombarda, la Lpe, che produce reattori epitassiali necessari alla produzione di semiconduttori e che ricava il 50% del suo fatturato dalle vendite in Cina, dove ha una filiale. I chip vengono prodotti con parti fabbricate in diverse parti del mondo, per questo la sicurezza della catena delle forniture è sempre più strategica. Per realizzare una tale sicurezza è necessario acquisire nuove aziende sparse in tutto il mondo. La pandemia ha aumentato la dipendenza dagli strumenti informatici, incrementando la domanda di chip. Non è, quindi, un caso se nel 2020, anno di inizio della pandemia, si è raggiunto un nuovo record nelle fusioni e acquisizioni nel settore dei semiconduttori: 559 operazioni per un valore di quasi 175 miliardi, contro i 76 miliardi dell’anno precedente e i 132 miliardi del 2015, l’anno che in precedenza aveva registrato le maggiori operazioni. C’è da notare, inoltre, che la metà dei semiconduttori del mondo viene prodotta a Taiwan, e non è un caso che l’isola, importante per la concentrazione di produzioni ad alta tecnologia, sia al centro dello scontro geopolitico tra USA e Cina.

Un altro fronte importante del confronto/scontro tra USA e Cina è quello valutario. Il dollaro è la moneta di scambio e soprattutto di riserva mondiale e questo permette agli USA di finanziare il proprio doppio debito, quello pubblico e quello del commercio estero, anche perché molti paesi, compresa la Cina, acquistano titoli di stato statunitensi per sostenere la propria valuta. Il dollaro è usato per effettuare il 40,33% dei pagamenti mondiali, e, soprattutto, rappresenta il 62% delle riserve mondiali. Al secondo posto come valuta di riserva c’è l’euro, con poco più del 20%. La valuta cinese, lo yuan renmimbi, rappresenta invece solo l’1,76% dei pagamenti globali e il 2,02% delle riserve valutarie globali. Ma sembra che la Cina abbia in progetto l’obiettivo di rendere lo yuan una valuta sempre più internazionale, aumentando la sua attrattività sia nel commercio e negli investimenti internazionali sia come valuta di riserva. Questo dovrebbe avvenire con il lancio dello yuan digitale, che permette di effettuare pagamenti senza contante in sicurezza e senza costi. La Cina ha già avviato una collaborazione per l’uso dello yuan digitale con le autorità monetarie di Hong Kong, con la Bank of Thailand e con la Banca centrale degli Emirati Arabi. Vale la pena ricordare che gli Emirati Arabi esportano soprattutto petrolio, la cui eventuale quotazione in yuan anziché in dollari potrebbe contribuire a mettere in discussione il ruolo di moneta di transazione internazionale del dollaro e con esso il ruolo di moneta di riserva. La difesa del ruolo internazionale del dollaro è una priorità per gli USA, che invasero l’Iraq nel 2003, tra le altre ragioni, anche perché Saddam Hussein aveva deciso di vendere il suo petrolio in euro anziché in dollari. Sulla creazione di una valuta digitale gli USA sono invece in ritardo, mentre la Banca Centrale Europea è appena al livello di studio preliminare per quanto riguarda l’euro digitale.

Le infrastrutture svolgono un ruolo importante nel confronto tra Cina e USA, non solo quelle tradizionali, come porti, ferrovie, gasdotti e oleodotti, ma anche quelle relative alle telecomunicazioni che sono sempre più importanti anche per far girare il futuro yuan digitale. Infatti, sul 5G, la quinta generazione di connessione mobile, è in atto un vero e proprio scontro diretto tra USA e Cina, perché si tratta di una tecnologia chiave nella rivoluzione digitale e nel controllo dei dati. In Africa gran parte delle infrastrutture tecnologiche sono made in China. Ma l’attivismo cinese non si ferma al 5G. Di particolare interesse è il progetto cinese di creare una nuova Internet, pianificando la posa sotto il mare di autostrade di cavi che circondino il continente africano e che permettano di dare accesso a Internet a territori che fino ad ora ne sono rimasti tagliati fuori. Se pensiamo al ruolo decisivo che svolge Internet nell’economia e nella politica mondiale, possiamo renderci conto dell’importanza di una rete internazionale sotto il controllo della Cina.

Cosa possiamo concludere da quanto abbiamo detto? In primo luogo, possiamo dire che la pandemia e la crisi hanno ridato nuova centralità allo Stato. Lo dimostrano la ripresa dell’iniziativa politica da parte dello Stato negli USA e il ruolo che lo Stato riveste in Cina, senza dimenticare che anche in Europa lo Stato riveste un ruolo che non è solo importante ma addirittura essenziale nell’accumulazione del capitale. Viene in mente quanto scriveva Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo [3] dove, sviluppando la riflessione di Marx (soprattutto nel XXIV capitolo del libro I de Il Capitale) e Braudel, diceva che il segreto della lunga durata del capitalismo sta nell’incontro tra potere territoriale e capitale, tra il possessore del potere politico e il possessore del denaro. Quella dove si incontrano questi due soggetti, sempre secondo Arrighi, è una sfera che sta al di sopra del mercato e nella quale hanno origine quei profitti enormi e costanti che hanno consentito al capitalismo di espandersi nei secoli. È, in qualche modo, quello che Lenin dice a proposito dell’imperialismo, inteso come fase suprema del capitalismo, caratterizzata dal ruolo centrale della finanza e dello Stato nell’espansione internazionale del capitale e nella creazione dei monopoli e degli oligopoli. Lo Stato entra nell’accumulazione sostenendo e proteggendo la produzione e l’approvvigionamento delle merci più importanti e strategiche, attorno alle quali ruota il ciclo di accumulazione del capitale. Nell’imperialismo classico del XIX e XX secolo queste merci erano le ferrovie e il petrolio, nell’imperialismo del XXI secolo sono le telecomunicazioni, i dati, i chip e le nuove tecnologie su cui si basa la rivoluzione informatica. Senza però dimenticare la finanza, oggi come ieri fondamentale per gli Stati e il capitale.

Molto importante in Arrighi è anche la teoria dei cicli storici del capitale. Ogni ciclo secolare si sviluppa attorno a un Paese guida, Venezia, l’Olanda, l’Inghilterra e oggi gli USA, e si articola in due fasi, la prima di egemonia nella produzione di merci e la seconda, dopo una prima crisi, di egemonia sul piano eminentemente finanziario.

Ogni ciclo si chiude con il declino della potenza egemone e una crisi mondiale che si accompagna a una fase di caos nell’ordine internazionale, da cui, di solito dopo una guerra, emerge il nuovo Stato guida, sempre più grande e più forte, che dà avvio a un nuovo ciclo d’accumulazione e a un nuovo ordine mondiale. Gli USA sono entrati da tempo nella fase di finanziarizzazione dell’economia e oggi stiamo assistendo alla crisi della loro egemonia e alla disgregazione dell’ordine mondiale. È in questo contesto di crisi degli USA che si inserisce l’emergere della Cina, l’unico concorrente che può aspirare a sostituire gli USA come Stato egemone. Per rispondere a questa sfida gli Usa non potevano fare affidamento sull’isolazionismo di Trump e stanno scegliendo la strada di una rinnovata strategia di alleanze internazionali con lo scopo di contenere e isolare la Cina.

Note

1) Quiao Liang e Wang Xiansui, Guerre senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria editrice goriziana, Gorizia 2001, pag.73.

2) Ibidem, pag. 86.

3) Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 2003.

Fonte