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23/06/2021

Cina - Il codice civile e Diliberto

 

La Cina è vicina per Oliviero Diliberto, che da qualche anno oltre a insegnare Diritto Romano alla Sapienza ha anche una cattedra all’Università Zhongnan of Economics and Law di Wuhan. Proprio lì: “Sarei dovuto partire proprio a febbraio del 2020, ma c’era il Capodanno cinese, altrimenti sarei rimasto lì. Ma ho fatto lezioni a distanza”. Entri nella sua casa-studio nel quartiere Prati e hai la sensazione di un salto nel tempo e nel mondo. Libri ovunque, classificati con cura, nemmeno uno poggiato lì per caso, sul tavolino o su un bracciolo della poltrona. Solo una parete libera dedicata alla foto con Sergio Mattarella e a quella con Xi Jinping, i due “presidenti”.

Ecco, la Cina. Esercita sempre un certo fascino sui comunisti (e per fortuna se ne trovano ancora in giro di non pentiti): “Il Covid lo hanno sconfitto con la disciplina orientale. Li avresti dovuti vedere migliaia di studenti, chiuse nelle stanzette senza mai uscire, con l’organizzazione che portava loro da mangiare tre volte al giorno”. L’immancabile toscano acceso, vecchio vezzo e vecchio vizio, l’occasione della chiacchierata è un “cambiamento epocale”. E cioè l’entrata in vigore del primo codice civile in Cina, impresa, di cui l’ex segretario dei Comunisti italiani, ex guardasigilli del ministro D’Alema, è stato protagonista: sette libri, oltre 1200 articoli, per normare una materia vasta, successioni, contratti, diritti individuali, privacy. E ora è appena stata pubblicata la traduzione (Edizioni Pacini Giuridica, di Pisa, 24 euro), curata da una sua allieva cinese, la professoressa Huang Meiling: “In realtà – dice – il codice se lo sono scritto da soli, noi abbiamo contribuito a formare una classe di giuristi per redigere questo lavoro, e io sono orgoglioso di aver contribuito a formare giuristi che oggi sono tra i migliori in Cina”.

Come è iniziato questo lavoro?

È iniziato nel 1988, per una serie di casualità. Il decano dei giuristi cinesi Jiang Ping, preside della facoltà giuridica di Pechino, viene a Roma per un convegno invitato un collega, adesso in pensione, che insegnava diritto romano, Sandro Schipani. Jiang ha studiato in Russia, quindi ha studiato il diritto romano. E i due hanno l’intuizione geniale. Siamo nell’88: il muro di Berlino non era ancora caduto ed è prima di Tienanmen. L’idea è: poiché la Cina è avviata sulla via delle riforme economiche, serve un codice civile. E si mettono d’accordo per tradurre in cinese i testi del diritto romano e in particolare il Corpus Iuris di Giustiniano, la fonte di tutto. Per tutti gli anni Novanta vengono tradotte le fonti giuridiche romane. Per cui alla fine degli anni Novanta, quando il gruppo dirigente cinese decide quale modello giuridico adottare, se Common Law o Civil Law, ha la possibilità di accedere linguisticamente al diritto romano, perché è in cinese. 

E sceglie il diritto romano.   

Sì ma la discussione su quale modello è aspra. Hanno discusso a lungo. E alla fine scelgono di adottare il diritto romano. E qui c’è la seconda casualità. Chi è il ministro della Giustizia in Italia in quel momento (1998)? Dicono: è pure docente di diritto romano e comunista! Perfetto. E inizia lì un percorso. Sono venuti a studiare in Sapienza decine di giovani studiosi cinesi. In tre anni di dottorato, imparano l’italiano, il latino e il diritto romano.

Una marcia in più, dice lei.

Oggettivamente. E quando tornano sono quella che si chiama una “classe dirigente”. 

Torniamo a come matura la svolta: Xi Jinping ha molto insistito sul tema della certezza del diritto. È un modo anche per garantire i cittadini dagli abusi?

Dopo la seconda guerra mondiale, chi voleva studiare diritto veniva spedito a Mosca, poi la Cina rompe con l’Urss e inizia la rivoluzione culturale nella quale il diritto viene considerato una sovrastruttura borghese e il cosiddetto periodo del nichilismo giuridico. Dopo che Deng lancia le quattro modernizzazioni, in sostanza l’apertura al mercato, il problema del diritto privato si pone.

Cioè: quando un paese, anche comunista, si apre al mercato e anche alla sfida della globalizzazione, il tema diventa ineludibile. 

Sì, anche se non è automatico. Ci sono paesi di economia di mercato dove la legge non esiste. C’è l’emiro, ad esempio. La Cina ha una cultura millenaria più antica di quella occidentale fondata sul confucianesimo che è una cultura di regole morali. Il primato della morale sulla politica è il contrario di Machiavelli, per intenderci. Nasce da lì l’esigenza di una legge certa e giusta. E, a mio giudizio, Xi è il più importante leader cinese per quel che riguarda l’equilibrio interno della nazione. Mao è il grande rivoluzionario, Deng ha creato le grandi riforme, ma secondo me Xi è il più lungimirante in una fase difficilissima del mondo. 

Percepisco che lei considera il lavoro fatto come imponente. Chiedo al giurista, quali sono le peculiarità, perché la colpisce molto. 

È enorme la sistematizzazione delle norme e l’introduzione, in un Paese che non ce l’aveva, di regole su successione, proprietà, compravendita, eccetera come in tutti i Paesi del mondo. Con due particolarità intellettualmente affascinanti. La prima: tutti i codici del mondo hanno preso il diritto romano, passando attraverso la mediazione del Codice napoleonico. Quindi c’è: diritto romano, mediazione napoleonica e codice moderno. I cinesi hanno saltato la mediazione napoleonica. Quindi paradossalmente il codice cinese è più simile al diritto romano del nostro.

La seconda?

È che in tutto il mondo prima nascono i codici, poi arrivano le Costituzioni, che sono un fenomeno novecentesco, anche in Italia. In Cina accade il contrario. Questo significa che mentre da noi il codice civile italiano non risente dei diritti costituzionali, in Cina è il contrario, nasce dai principi costituzionali.

I cinesi dicono: noi ammettiamo la proprietà privata, ma è la politica che dirige l’economia e lo Stato. È sempre lo Stato che guida l’economia. Questo piace a voi comunisti italiani?

Anche nella nostra Costituzione ci sarebbe un primato dell’economia statale su quella privata. Tutti l’hanno dimenticato, ma nella nostra Carta la proprietà privata ha funzioni sociali. Ma non voglio avventurarmi nella politica di oggi, altrimenti dovrei avvalermi della facoltà di non rispondere. Dico solo che quella convinzione matura negli ambienti cattolici, da Dossetti a Fanfani, non in quelli marxisti.  

Quale è il grande insegnamento di questa storia?

Il grande insegnamento di questa vicenda è che se entri in un’economia avanzata hai bisogno di regole, e quindi garanzie. Se uno non le rispetta, vai al tribunale. 

Avanzata intende di “mercato”?

Da noi si vedono le cose più appariscenti. Il 70 per cento dell’economia cinese è ancora dello Stato e il sistema economico è pianificato, con piani quinquennali. 

I diritti arriveranno come i codici?

I diritti sono già previsti nella Costituzione, basta leggerla, compresi i diritti individuali, sono processi che maturano in modo diverso a seconda delle latitudini. Non lo so che cosa arriverà, ma certamente lo sviluppo della Cina degli ultimi trent’anni e i profondi cambiamenti sono tali che non hanno pari in nessuna parte del mondo. Saranno loro a decidere, certamente non sarà l’Occidente a decidere per la Cina.

Va bene, non si può definire una dittatura, come la Corea. Ma è un sistema autoritario, “autocratico” direbbe Draghi, in relazione alla questione dei diritti. 

È molto facile attribuire etichette, normalmente dicono che è una dittatura anche Putin, regolarmente eletto, io suggerisco di leggere il libro di tal Bell, uno studioso americano, pubblicato in Italia dalla Luiss, cioè da Confindustria, intitolato “Il modello cinese” per comprendere le regole di funzionamento del sistema che sono il contrario della dittatura. In Cina non c’è la democrazia occidentale, c’è un’altra forma di democrazia che è il potere del popolo.

Come giudica l’esito del G7?

Rientra nella normale guerra dell’egemonia. È singolare che il G7 parli dei diritti umani solo per la Cina e per esempio non si ponga il problema dell’Arabia Saudita. Il tema dei diritti umani viene agitato a seconda delle convenienze. Vede, la nostra idea occidentale di democrazia nasce nell’Atene di Pericle, si sviluppa attraverso la Magna Carta in Inghilterra e arriva alla dichiarazione dei diritti dell’uomo della rivoluzione francese e americana. Sono 2800 anni di storia. L’idea che una cultura più antica della nostra debba adattare il nostro modello è una sciocchezza, oltre che segno di una qualche prepotenza intellettuale occidentale. L’idea di una nuova Guerra Fredda sarebbe catastrofica per il mondo, oltre che autolesionistica per l’Europa dal punto di vista commerciale.

Come la mettiamo sul discorso della trasparenza in relazione alla pandemia? Non sappiamo nulla né di come è nata né di come è stata combattuta.

La mettiamo che, semplicemente, nessuno inizialmente sapeva cosa fosse quella malattia. Quando c’è stata la aviaria quindici anni fa, nessuno si pose il problema perché semplicemente la gente si muoveva di meno. E rimase lì. Anzi secondo me i cinesi si sono comportanti benissimo. Sono accuse strumentali.

Diliberto, le manca la politica?

No, per niente. Neanche un po’.

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