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31/05/2023

Black cat (1981) di Lucio Fulci - Minirece

Liceo Albertelli: una visione alta di scuola pubblica

Intervengo, per vari motivi, sul caso del liceo romano “Pilo Albertelli”, il cui Consiglio di Istituto ha rifiutato i circa trecentomila euro che il PNRR metteva a disposizione della scuola. Il primo motivo è che, sebbene, la notizia sia ormai “vecchia” di alcuni giorni, non mi pare che tutti i temi messi in campo dalle dichiarazioni pubbliche sull’argomento siano stati sufficientemente illuminati.

I fatti sono noti: il 4 maggio scorso il dirigente scolastico presenta al Consiglio d’Istituto due progetti legati all’accesso ai fondi del PNRR.

Tali progetti vengono respinti con 7 voti contrari (4 docenti, 1 studente, 2 genitori), 2 favorevoli (dirigente scolastico e 1 genitore) e 4 astenuti (3 studenti, 1 personale ATA).

La notizia riscuote interesse ed è fatta oggetto di parecchi commenti ed interventi. Spicca tra questi l’articolo apparso su La Repubblica il 15 maggio scorso, firmato da Valentina Lupia. Merita di essere di nuovo tirato in ballo poiché usa metodi discutibili per fare informazione, a partire dal titolo: “Ai ragazzi non serve la tecnologia”: al Liceo Albertelli di Roma battaglia contro i soldi del Pnrr.

Il messaggio è chiaro: al Liceo “Pilo Albertelli” ci sono alcuni retrogradi imbecilli che prendono la parola e decidono per tutti. La giornalista, evidentemente, ha estrapolato poche parole da un discorso molto più articolato. Infatti, sui documenti prodotti dai “rivoltosi” dell’Albertelli, le cose stanno diversamente: i due genitori del consigli di Istituto che hanno sottoscritto la prima dichiarazione sul tema, sottolineano che la scuola dispone di 41 smart TV, 7 proiettori, 49 PC Notebook, 41 PC Desktop ed è “irrazionale ed antieconomico sobbarcarsi collettivamente un debito di circa 150.000 euro per ulteriori attrezzature multimediali che hanno una vita media brevissima…”.

Questo soprattutto se l’abbondanza di materiale tecnologico è sgradevolmente contrappuntata da carenze strutturali, “assenza di manutenzione e sicurezza, classi sovraffollate, precarietà permanente di docenti e personale ATA”.

Come dar loro torto? Come dimenticare il materiale tecnologico obsoleto che intasa i magazzini delle scuole? Le LIM acquistate con un mucchio di soldi pubblici (compresi i costi dei corsi fatti per i docenti affinché fossero in grado di usarle) sono state sostanzialmente rottamate quest’anno, dopo aver spesso adornato le pareti di aule fatiscenti.

Chi ha scritto i progetti respinti? Il dirigente scolastico!

“Apprendiamo inoltre, da un articolo del 16 maggio scorso, sempre apparso su La Repubblica, che i progetti “bocciati” sono stati scritti dal dirigente scolastico! Ha accolto, sì, alcuni suggerimenti, ma nessuno lo ha aiutato nel lavoro di stesura; tali progetti sono stati presentati il ”24 e 25/02/2023 ma portati a conoscenza dei consiglieri di istituto solo il 28/04/2023 senza essere stati sottoposti né al collegio dei docenti e neppure alla competente commissione nominata dallo stesso collegio”.

Ecco un altro punto dolente: lungi dall’essere frutto di una discussione collettiva, i due progetti erano stati “creati” dal dirigente. Come mai nessun altro è intervenuto? Come mai il Collegio docenti non è stato convocato, una volta concluso il lavoro di progettazione? Perché tanta mancanza di partecipazione e così scarso rispetto dei compiti e del parere del Collegio?

Immaginiamo che la splendida solitudine del preside, abbandonato persino dalla commissione nominata all’uopo, sia più il frutto di un clima già conflittuale che non una testimonianza di fiducia verso il dirigente stesso, il quale, adesso, non esita a parlare dello spettro del “commissariamento”, che deciderà comunque come tutti quei soldi debbano essere spesi.

I fondi destinati alla “scuola 4.0” debbono essere spesi per forza

Perché, il punto è questo, i soldi del PNRR DEBBONO essere spesi. Qualcuno obietterà che quei soldi non ce li hanno regalati e che dovranno essere restituiti; qualcun altro, più “ideologico” tirerà fuori dalla naftalina la “libertà di insegnamento”; qualcun altro, un po’ più moderno, farà appello all’autonomia scolastica.

Ma, come si è visto, la maggioranza, davvero “post-ideologica”, sarà pronta a fare la cosa giusta: dare uno entusiasta assenso alla spesa, dimentichi di tutta quella serie di buone ragioni che i genitori del liceo “Pilo Albertelli” mettono in campo.

Il documento è accessibile qui; raramente ho letto un testo così preciso nell’individuare responsabilità che riguardano il governo della scuola, nell’indicare le conseguenze negative di fatti apparentemente positivi, nel prospettare soluzioni diverse da quelle che vanno per la maggiore.

Al polo opposto, quanto a precisione, capacità critica, conoscenza dei problemi materiali della scuola e attenzione al delicato processo educativo, si collocano i due articoli di Repubblica citati in precedenza. Nel primo si facevano passare per retrogradi e ridicoli nemici del “progresso” coloro che avevano bocciato in Consiglio d’Istituto i due progetti presentati dal dirigente Antonio Volpe.

A leggere con minima attenzione l’articolo del giorno successivo, il dirigente stesso non è che presenti bene i “suoi” progetti; dichiara che, almeno uno dei due “è un’iniziativa molto più standard, il progetto chiedeva di modernizzare con strumentazioni tecnologiche almeno il 50% delle aule. E così ho proposto: 20 aule”. Perfetto, molto originale, tagliato come un abito sartoriale sui bisogni della comunità educante di cui il professor Volpe è a capo.

E il primo progetto non è più brillante: con esso il preside ha “cercato di valorizzare quel che già c’è, dalla biblioteca agli spazi museali, aree da rendere moderne e multimediali e dove fare laboratori. Stessa cosa con ‘Le mie competenze’, visto che già ci occupiamo di certificazioni. Un modo anche per rendere la scuola più interessante dopo il calo d’iscrizioni”.

Insomma, per chi mastichi un po’ il burocratese di basso livello che costituisce quasi sempre il registro linguistico dei millanta “progetti” che hanno inquinato le acque delle scuole italiane, qui c’è una sintesi di logori luoghi comuni, dalla certificazione delle “competenze” all’idea che il liceo “Albertelli” debba rendere la propria offerta “più interessante” per contrastare il calo di iscrizioni.

Scuola 4.0: tanti fondi, spesi male

In ogni caso che centinaia di migliaia di euro vengano spesi in interventi inessenziali laddove l’essenziale manca è di per sé criticabile; spiace che su 8.230 istituti italiani totali ben 8.170 abbiano trovato buone ragioni per dire di sì a questo flusso di denaro. E spiace ancor di più che, nel momento in cui una scuola, in tutte le sue componenti, dimostra sensibilità civile, prende sul serio lo scaricare sulla collettività un debito ingente che si sospetta non porterà un cambiamento in meglio nella didattica e rifiuta tale spesa, venga presa di mira e criticata con argomenti ingiusti.

I due progetti respinti non sono frutto di un lavoro meditato e collettivo, ma piuttosto l’adempimento burocratico di una richiesta dall’alto da parte del capo di Istituto; ci si dovrebbe chiedere piuttosto a chi serve che le scuole abbiano a disposizione queste somme ingenti da investire in materiale tecnologico. La risposta è banale: serve a chi produce e commercia questo materiale.

L’avevamo già detto e lo ripetiamo volentieri: la gran parte delle scuole si è trovata in difficoltà nel produrre “progetti” per la scuola 4.0. Lo dimostrano in modo palese le moltissime offerte di ditte che si occupano di informatica e che “aiutano” le scuole a soddisfare le richieste della scuola 4.0, proponendo soluzioni “chiavi in mano”.

L’eccezione del liceo “Albertelli”

Questo, grosso modo, lo stato delle cose. Così facendo, continueremo a veder crescere l’analfabetismo tra i diplomandi; continueremo a proporre la tecnologia come rimedio magico per la evidente crisi educativa che affligge i nostri tempi; continueremo ad indirizzare risorse della collettività verso il profitto privato; continueremo a confondere ciò che a scuola è strutturale con ciò che è superfluo.

È giusto perciò dire grazie alla comunità dell’“Albertelli”, per una ottima ragione: ha dimostrato di avere una visione alta della scuola e dell’educazione, di aver capito che la tecnologia è un mezzo e non un fine e ha avuto il coraggio di dire “no”.

Tanti anni fa già Ivan Illich muoveva una critica profonda alla tecnocrazia: “Lo strumento è inerente al rapporto sociale […] A seconda che io lo padroneggi o che viceversa ne sia dominato, lo strumento mi collega o mi lega al corpo sociale. Nella misura in cui io padroneggio lo strumento, conferisco al mondo un mio significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la sua struttura che mi plasma e informa la rappresentazione che io ho di me stesso”.

Noi adulti chiediamoci quanto i nostri figli padroneggino gli strumenti informatici o ne siano padroneggiati; interroghiamoci sui motivi del numero crescente di certificazioni che attestano un qualche handicap negli studenti di ogni grado di scuola; chiediamoci se è meglio un ambiente smart di apprendimento o un insegnante preparato, sereno, disponibile al colloquio.

Queste ed altre domande la comunità dell’”Albertelli” se le è poste – ed ha deciso di rifiutare uno spreco di denaro pubblico, al di fuori di ogni dignitosa idea di istruzione e di educazione.

Non possiamo che incoraggiarli e sperare che sempre più docenti, studenti, genitori abbiano voglia di respingere un’idea di scuola tecnocratica, falsamente meritocratica, poco in grado di trasmettere le conoscenze di base e che senta la necessità di affermare un altro modello scolastico, più giusto, più sobrio, in grado di trasmettere cultura, in grado di far crescere cittadini capaci e desiderosi di pensare con la propria testa.

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Siria - Raid israeliano su Damasco. La Russia bombarda gli jihadisti

Venerdì scorso, per la prima volta dalla fine del 2022, bombardieri russi hanno attaccato le postazioni delle milizie jihadiste di Khayyat Tahrir al-Sham nel villaggio di Felavil, provincia di Idlib, in Siria.

Le difese aeree dell’esercito siriano domenica hanno dovuto invece affrontare un attacco missilistico israeliano alla periferia di Damasco. Non risultano vittime.

Citando una fonte militare, i media statali siriani hanno affermato che attacchi missilistici provenienti dalla direzione delle alture del Golan occupate da Israele hanno preso di mira diversi siti.

L’emittente libanese Al Mayadeen ha riferito di danni materiali ai siti militari colpiti. Secondo i media locali, due missili hanno colpito la zona di Qatana, nella campagna a ovest di Damasco, uno l’area di Al Kiswah, a sud della capitale, e un quarto le vicinanze dell’aeroporto di Damasco.

Si tratta del “secondo attacco israeliano avvenuto nel mese di maggio, il primo dopo il vertice della Lega araba. Il precedente attacco era avvenuto il 2 maggio scorso”, evidenzia Al Mayadeen.

Secondo quanto ha riferito Sohr questo è il 17esimo attacco avvenuto in territorio siriano e attribuito a Israele dall’inizio dell’anno.

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Quando il problema è a Monti

In alcune sue presuntuose e saccenti interviste, Mario Monti dà il suo placet allo scontro tra il governo e la Corte dei Conti, schierandosi dalla parte del governo, che giustifica i pesanti ritardi sul PNRR, che mettono in pericolo i finanziamenti, con il ruolo di controllo della magistratura contabile: è colpa loro, non dei pasticci organizzativi, delle incapacità progettuali nonché delle furbate politiche che favoriscono i privati.

Come volevasi dimostrare: un degno rappresentante della borghesia italiana, un convinto liberale – con una lunga fedina piena di incarichi in banche, industrie, e prestigiose lobbies – ha palesato sincere simpatie verso l’autoritarismo di destra.

Manco a dire che sia una novità, in Italia certe simpatie – per non dire vere e proprie lune di miele – tra i liberali e i fascisti sono storicamente già avvenute con tutto quello che ne conseguì.

Il problema che sta a monte, o meglio, a Monti, è che – ieri come oggi – il vantaggio competitivo del consenso reazionario va sfruttato fino in fondo, nell'interesse esclusivo di oligarchie industriali e finanziarie, di grandi e piccole corporazioni e le rispettive camarille.

Lo Stato di diritto – i suoi organi di controllo istituiti dalla Costituzione – possono fare la fine dei pilastri dello Stato sociale, cioè essere svuotati, prima di significato e poi di funzione.

Mentre il senatore a vita si rimira allo specchio, compiaciuto del proprio ego reazionario, le regole democratiche vengono rottamate e con loro i diritti. Non è un caso che le prime vittime designate della revisione del PNRR siano proprio la sanità, la scuola e l’ambiente.

Quei soldi, invece che a favore dei beni pubblici, “meglio ai privati”, secondo i dettami della fede liberista. Privati come la Bocconi, per esempio, di cui il nostro eroe è stato presidente fino a ieri.

Che tanto il conflitto di interessi non esiste, anzi, è proprio il conflitto duro e senza mediazioni degli interessi privati contro quelli pubblici che invita alle danze Monti e Meloni.

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Guerra in Ucraina - Attacco di droni ucraini su Mosca

Le forze armate ucraine hanno usato otto droni per attaccare Mosca, ha comunicato il ministero della Difesa russo. “Nell’attacco sono stati coinvolti otto veicoli aerei senza pilota di tipo velivolo. Tutti i droni nemici sono stati colpiti”, è riportato nella nota diffusa in mattinata.

“Nell’attacco sono stati coinvolti otto veicoli aerei senza pilota di tipo aeronautico. Tutti i droni nemici sono stati colpiti. Tre di essi sono stati eliminati da dispositivi elettronici, hanno perso il controllo e hanno deviato dagli obiettivi prefissati”. Altri cinque droni “sono stati abbattuti dal sistema missilistico e di artiglieria antiaerea Pantsir-S nella regione di Mosca”, si legge ancora nella nota.

Al mattino presto, i droni ucraini hanno danneggiato edifici residenziali lungo Leninsky Prospekt e Profsoyuznaya Street nel sud-ovest di Mosca. Inoltre, un drone ha colpito una casa lungo Atlasova Street a New Moscow.

Tre condomini sono stati colpiti dai detriti dell’attacco di droni, ha riferito su Telegram il sindaco di Mosca, Sergej Sobjanin. “Per motivi di sicurezza, durante il lavoro dei servizi di emergenza, i residenti di due condomini colpiti da droni sono stati evacuati”, si legge nel messaggio. Secondo Sobjanin, l’attacco non ha causato vittime o feriti, e i danni causati non sono gravi.

I droni che hanno attaccato Mosca potrebbero anche essere arrivati ​​dai Paesi Baltici, e, ad esempio, Kharkov, ha detto a RIA Novosti Gleb Babintsev, direttore generale della Aeronext NTI.

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Il “vento di destra” è il “vento di guerra”

È davvero noioso leggere le interpretazioni sui risultati elettorali nei ballottaggi.

Che abbiano vinto i candidati della destra, che l’astensione sia il primo partito, che non ci sia una “sinistra” (una forza politica la cui pratica corrisponda all’”idea” che si ha della “sinistra”), è così evidente che bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni, piuttosto che – sui “giornaloni” come sui social – cercare di soppesare quanto abbia influito l’ininfluenza della Schlein o “l’abilità” della Meloni. Degli altri inutile parlare...

Mai come in questo caso restare con gli occhi e la mente inchiodati alle dinamiche italiche significa diventare ciechi.

La stessa tendenza – lo stesso “vento” – spira infatti su tutta Europa. Inchioda al muro la Spagna, la Grecia, la Slovenia, i paesi scandinavi, in varia misura anche la Germania e la Francia, dove pure per fortuna c’è ancora vivo e forte un movimento sociale contro Macron e il neoliberismo che non regala spazio a Le Pen et similia.

Qualche anno fa si era imposta una “alternativa populista” che sembrava in grado di modificare quadri politici ingessati da quelle che venivano lette – stupidamente – come “logiche di partito”, anziché come crisi del meccanismo della rappresentanza.

Ci si era insomma illusi che – a destra, al centro, “a sinistra” – bastasse sostituire gli esausti comitati elettorali dei “soliti noti” con formazioni “fresche, giovani, inclusive”, dai confini mobili e dalle caratteristiche organizzative “disinvolte”, per ottenere un cambiamento significativo. Se non del modello sociale e produttivo, almeno della sua capacità inclusiva, riscoprendo l’utilità di qualche diritto sociale smantellato e diversi diritti civili ormai scontati nella sensibilità del “senso comune” sociale.

In pochi mesi abbiamo visto collassare tutte le forze nate in quella stagione, qualsiasi fosse la percentuale – anche notevole – di consensi raccolti nel recente passato. È difficile trovare traccia nei risultati elettorali dei Cinque Stelle in Italia, di Podemos e Ciudadanos (centristi) in Spagna, la stessa Syiriza in Grecia (sia pure con un crollo meno catastrofico), ecc.

Se un fenomeno è comune a tutta l’Europa chiaramente non può essere analizzato ricorrendo alle solite argomentazioni ad hoc che si usano per giustificare o richiedere un cambiamento di linea o di leadership qui sotto casa.

Ed è altrettanto evidente che quelle linee politiche e le relative leadership sono il punto di arrivo di un processo di decadimento che sta arrivando al punto di decomposizione.

La “sinistra” è ormai un termine insignificante. Sta ad indicare formazioni in qualche modo derivanti alla lontana dalle ex socialdemocrazie europee, con agglomerati estremamente confusi – ad esempio in Italia – che hanno visto confluire ex comunisti ed ex democristiani, ma che hanno co-gestito negli ultimi 30 anni tutti i processi di privatizzazione-liberalizzazione attraverso cui è stato smantellato il welfare state.

Queste formazioni para-socialdemocratiche hanno insomma contribuito a quel continuo peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e della generiche “masse” su cui si è andata incistando l’ideologia fascista che oggi raccoglie consensi inquietanti, anche al lordo dell’elevatissima astensione.

Non è la prima volta che accade. Ma per le similitudini – e le lezioni della Storia – tocca tornare ad un secolo fa, alla nascita dei regimi nazifascisti in Italia e in Germania.

A leggere, per esempio, l’introduzione di Giorgy Lukacs alla sua Critica dell’ideologia fascista (chissà perché mai tradotta in italiano), dove possiamo ritrovare un meccanismo assolutamente contemporaneo, quello dell’”unità a prescindere per non far vincere la destra” che in realtà accetta il processo di fascistizzazione, ma cerca di limitarlo alle sue espressioni “meno peggio”.

“La famosa teoria del “male minore” si basa su questa visione fatalistica dell’inevitabilità del fascismo: Brüning è il male minore rispetto a Papen, Schleicher rispetto a Hitler, domani forse Hitler rispetto agli “estremisti nazionalsocialisti” ecc. E così all’infinito.”

Ma guai a interpretare le dinamiche politiche come il “motore” dell’evoluzione storica. La domanda centrale è infatti “qual è il momento generale? Ovvero, dov’è il centro di gravità degli interessi generali di classe della borghesia nel suo complesso?”

Detto altrimenti: non esiste oggi un “partito dei lavoratori e degli sfruttati”, dunque le forze politiche esistenti interpretano più o meno bene gli interessi di settori della borghesia. Che la parte numericamente dominante, in paesi come l’Italia, sia fatta di ristoratori, operatori turistici, piccola e piccolissima impresa, è certamente una disgrazia che impedisce persino di intravedere una ipotesi di “sviluppo”. A questa gente basta pagare salari da fame (o anche nulla) e vedersi togliere le tasse. Tutto il resto, per loro, non conta.

Ma in una crisi come l’attuale, che sta sfociando a passi sempre più grandi verso la guerra, non sono certo questi settori a poter “dare la linea” che mette insieme tutti i settori della borghesia.

O, se volete, è qui la ragione “strutturale” per cui un governo a guida neofascista come quello attuale segue pedissequamente – con qualche mal di pancia che mette in fibrillazione la gestione del PNRR – il solco tracciato da tutti i governi precedenti sotto la supervisione della Nato (per quanto riguarda la politica estera) e dell’Unione Europea (per quanto riguarda le politiche economiche).

“Non c’è differenza” tra le forze politiche in campo se non per le questioni puramente “ideologiche”. Ed allora ecco i Lollobrigida che ancora rimestano nei misteri della “difesa della razza”, i Pillon che vorrebbero inquisire cosa avviene sotto le lenzuola, i tanti mentecatti finalmente arrivati a poter “dire la loro” (ma è una stronzata...).

Lo stesso avviene con Vox e altre formazioni inguardabili, un po’ dappertutto, compresi gli Stati Uniti sull’orlo della guerra civile e con armi in casa sufficienti per farla davvero.

È l’Occidente neoliberista – o ”area euro-atlantica” – a trovarsi di fronte ad una perdita dell’egemonia sul resto del mondo, che comporta anche la perdita dei vantaggi competitivi storicamente sedimentati. Basti pensare alla possibilità della Francia di ramazzare l’uranio nel Sahel pagandolo con quanto bastava a nutrire l’appetito di qualche dittatore intercambiabile.

“Crisi” non è una parola magica da tirar fuori per indicare cosa non si sa descrivere dettagliatamente. È un fatto.

E la crisi di egemonia dell’imperialismo temporaneamente dominante produce guerra.

“Le masse”, i lavoratori, gli elettori insomma, “sentono” confusamente che sta avvenendo qualcosa che mette in discussione la loro vita grama, ma comunque in qualche misura migliore – grazie agli storici “vantaggi competitivi” – di quella dei popoli colonizzati.

In assenza di alternative tendono ad arruolarsi, a seguire i pifferai che provano ancora una volta ad illudere che possa esserci una soluzione “vincente”. Ovvero quella che rimette gli altri “al loro posto” e consente ai “nostri oligarchi” di andare avanti come prima.

È un’illusione, certo, perché il resto del mondo è cresciuto molto ed è ora più consapevole, sia della propria forza che della necessità di un “ordine mondiale” senza un dominus rapinatore.

Ma il velo dell’illusione non cade soltanto perché qualcuno lo indica. E il “vento di destra” non smette di soffiare fino a quando non si rompe il motore che lo aziona.

È il “vento di guerra” che va fermato. Il resto segue.

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Zelensky è finito intrappolato

di Fabio Mini

Mentre in Ucraina i russi aggiustano il tiro sulle difese contraeree di Kiev e fanno fuori il sistema Patriot fornito dagli americani (che però la propaganda segnala soltanto “danneggiato”) e mentre il presidente Zelensky torna a casa con il carniere pieno di colombe abbattute e promesse di guerra, il New York Times (16 maggio) pubblica un appello al negoziato e alla pace in Ucraina lanciato da 15 esperti militari, politici e accademici statunitensi. La cosa passa ovviamente quasi inosservata in Italia e non è gradita nemmeno negli Stati Uniti.

Non meraviglierebbe se la pubblicazione sul prestigioso quotidiano fosse stata possibile dietro un qualche “compenso”. Da tempo la libertà di espressione è proporzionale a quanto e quale sistema di pagamento si preferisce. Anche in Europa. Non meraviglia che tra i firmatari ci siano anche militari di alto livello. Sanno valutare la situazione e soprattutto capiscono i limiti e i rischi della propaganda, specialmente se si finisce per credere alla propria. E non meraviglia che a commentare il “manifesto” siano stati proprio Medea Benjamin e Nicolas Davies sul sito di Codepink.

Il nome della famosa associazione richiama come sfida e codice il rosa (pink) del femminismo e del dispregiativo affibbiato ai liberal e progressisti americani (pink commies, “comunisti rosa”, appunto). I due plaudono all’iniziativa e fanno notare come la politica occidentale abbia “intrappolato Zelensky” tra la necessità di vantare successi per avere altre armi e lo “scioccante” costo delle perdite umane che sta sostenendo. “La difficile situazione di Zelensky è certamente colpa dell’invasione della Russia, ma anche del suo accordo dell’aprile 2022 con il diavolo nelle sembianze dell’allora primo ministro britannico Boris Johnson, che promise a Zelensky che il Regno Unito e il “collettivo Occidente” lo avrebbero sostenuto a lungo termine per recuperare tutto l’ex territorio ucraino, purché l’ucraina avesse smesso di negoziare con la Russia”. Da allora Zelensky ha cercato disperatamente di convincere i suoi sostenitori occidentali a mantenere la promessa esagerata di Johnson, “mentre lo stesso Johnson”, costretto a dimettersi da primo ministro, ha approvato un ritiro russo solo dai territori invasi il 2022. Eppure quel compromesso era esattamente ciò che lui aveva fatto rifiutare a Zelensky nel 2022, quando la maggior parte dei morti in guerra erano ancora vivi. Da parte sua, il presidente Biden e altri funzionari statunitensi hanno riconosciuto che la guerra deve concludersi con un accordo diplomatico, ma alle condizioni di Kiev e hanno insistito sul fatto che stanno armando l’ucraina per metterla “nella posizione più forte possibile al tavolo dei negoziati”. Una frase fatta ormai ripetuta fino alla noia da tutti o quasi i leader e i burocrati europei. Ma, si chiede Codepink, “come può una nuova offensiva con risultati contrastanti e maggiori perdite mettere l’Ucraina in una posizione più forte a un tavolo di negoziato attualmente inesistente?”. È quello che tutti si chiedono, tranne i governanti europei che stanno gettando benzina sul fuoco della guerra pompando la retorica “l’Ucraina combatte per noi”. Nessun europeo ha mai avuto bisogno che qualcun altro difendesse i suoi valori. Abbiamo sempre difeso da soli i nostri regimi, anche iniqui e oppressivi; abbiamo versato sangue per le mire dinastiche e di casta per 2000 anni.

I cosiddetti Valori occidentali sono diventati i nostri valori quando siamo stati sconfitti e debellati, quando una parte minima delle nostre forze ha combattuto per la Libertà e la Democrazia. Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo riscoperto i Valori europei non tanto per contrapporci a un’ideologia (nata e sviluppata in Europa) contraria a quella dei vincitori, quanto per assecondare la loro idea di democrazia e libertà. E anche nella contrapposizione nessuno ha mai minacciato la nostra “riscoperta”. Anzi, proprio con la divisione dei blocchi, nessuno è mai intervenuto militarmente quando venivano calpestati i diritti e le aspirazioni degli altri Paesi. Furono le assicurazioni di sostegno occidentali a illudere i polacchi, i cecoslovacchi, gli ungheresi, i georgiani quando azzardarono le loro rivolte puntualmente soffocate con altrettante “operazioni speciali”. Sono state le politiche dell’unipolarismo occidentale a destabilizzare le regioni del mondo con le rivoluzioni colorate e profumate che non si curavano affatto della libertà e della democrazia di intere popolazioni costrette a godere del colore rosso-sangue e del tanfo di morte.

Gli esperti che hanno firmato l’appello pubblicato dal New York Times hanno ricordato che, “nel 1997, 50 alti esperti di politica estera Usa avvertirono il presidente Clinton che l’espansione della Nato era un errore politico di proporzioni storiche” e che, sfortunatamente, Clinton scelse di ignorare l’avvertimento. “Il presidente Biden, che ora sta commettendo il proprio errore politico di proporzioni storiche prolungando questa guerra, farebbe bene a seguire il consiglio degli esperti di politica di oggi contribuendo a forgiare un accordo diplomatico e facendo degli Stati Uniti una forza per la pace nel mondo”. E, questa sì, sarebbe una novità.

Vedere un Paese europeo disastrato, una popolazione europea decimata e offrire la prospettiva di ulteriori distruzioni e massacri non è solidarietà, così come non è patriottismo far annegare la patria in un mare di sangue per compiacere il più forte piuttosto che discutere del proprio destino e dei propri interessi. Naturalmente i commenti di Codepink sono di parte: sono propagandisti prezzolati, pacifisti, comunisti, antiamericani, antipatriottici, filoputiniani, filorussi e spie, vogliono la resa dell’Ucraina e la conquista dell’Occidente da parte dei demoni rossi e gialli. Sono le cassandre e i menagramo che si oppongono all’America liberatrice del mondo da mezzo secolo e quindi totalmente inattendibili. Ma i 15 esperti firmatari dell’appello no. Ognuno di essi rappresenta un vasto settore della società che si pone i loro stessi interrogativi e resiste alla frustrazione di non essere ascoltato. I militari, in particolare, sono patrioti che oltre ai rischi della guerra sul campo percepiscono il pericolo di una spaccatura interna del loro Paese, della cui Unità, Indipendenza, Autonomia, Valori, Libertà e Costituzione sono i difensori istituzionali. Una missione che non si esprime solo in tempo di guerra, perché la disgregazione di un Paese è più frequente per questioni interne, faziosità, interessi particolari e disprezzo delle istituzioni piuttosto che per minacce esterne. Come sappiamo bene dal passato e dal presente.

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Incontro di spie sul Lago Maggiore

Nella serata di domenica 28 maggio, una barca con a bordo 24 persone è affondata nel Lago Maggiore in seguito, probabilmente, al peggioramento delle condizioni atmosferiche.

A parte i membri dell’equipaggio, i passeggeri erano appartenenti ai servizi segreti italiani e a quelli israeliani del Mossad. Il comunicato ufficiale diramato dalle istituzioni italiane parla di una festa a bordo: erano riuniti sulla barca, si dice, per celebrare un compleanno. Oltre al capitano e a sua moglie, le altre 22 persone erano tutte di nazionalità italiana o israeliana.

Hanno perso la vita due membri dei servizi di intelligence italiani: Claudio Alonzi di 62 anni e Tiziana Barnobi di 53 anni. Sono stati, inoltre, ritrovati in mare i corpi senza vita di un agente del Mossad in pensione, Shimoni Erez, 50 anni e della moglie del capitano, Anya Bozhkova, di nazionalità russa.

10 agenti del Mossad sono stati immediatamente riportati in Israele con l’utilizzo di un aereo militare. Si mantiene il riserbo sulla loro identità così come su quella dei 10 membri dei servizi segreti italiani sopravvissuti al naufragio.

La barca, chiamata Goduria o Good… uria, di proprietà del 53enne Carlo Carminati, si è inabissata subito dopo l’incidente, quando le forti raffiche di vento ne avrebbero causato il capovolgimento. La Procura di Busto Arsizio ha aperto un’indagine per stabilire se tutte le condizioni di sicurezza fossero state rispettate (secondo alcuni media la barca trasportava più persone di quante fossero ammesse) e se, soprattutto, non siano altre, oltre al maltempo, le reali cause del naufragio. La barca verrà recuperata dal fondo del Lago Maggiore per procedere alle perizie del caso.

Nonostante la comunicazione ufficiale rilasciata dal Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, l’idea che venti 007 italiani e israeliani si ritrovino su di una barca al centro del Lago di Como per festeggiare un compleanno, pare grottesca e surreale. Impossibile non immaginare che tra gli obiettivi dell’incontro esistesse, invece, qualche attività sulla quale le fonti ufficiali non possono che tacere.

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30/05/2023

Frusciante al Cinema: Beau ha paura (2023) di Ari Aster

Uranio impoverito, tracciante morale di malafede

di Massimo Zucchetti

Mi occupo di uso militare dell’uranio impoverito (DU) da ormai un quarto di secolo. (Libro gratis). Anni fa coniai la definizione, per il DU, di “tracciante morale” per la malafede e l’ignoranza di chi lo utilizzava, e di coloro che ne giustificavano l’uso con argomentazioni negazioniste.

Le vicende di queste settimane sono state un’ulteriore tragica prova di quanto sostenevo e sostengo. Sapete che recentemente i britannici hanno fornito all’Ucraina proiettili al DU. Io speravo che qualcuno cum grano salis (anche in Ucraina come in Russia ce ne sono molti, non bisogna demonizzare un’intera nazione per colpa dei loro governanti è da qualunquisti) respingesse al mittente l’offerta, basandosi sui un ragionamento semplice: il DU è radioattivo, emette radiazioni alfa che lo rendono pericolosissimo qualora incendiato, polverizzato, inalato, ingerito.

Contaminare con DU un campo di battaglia è una pratica non giustificabile secondo i più semplici principi di radioprotezione: tanto più – scusate il cinismo – se il campo di battaglia è casa tua. Contamina il tuo territorio, le conseguenze a lungo termine sono ben note.

Gli USA e la NATO infatti lo han sempre usato quando portavano democrazia in casa d’altri: Iraq, Afghanistan, Jugoslavia.

Purtroppo, non so se per dabbenaggine o per asservimento, l’Ucraina ha invece accettato. Immediata, si mobilitò l’Armata Negazionista sostenendo che il DU fosse “debolmente radioattivo” e quindi poco pericoloso, una risorgenza che speravamo di non dover vedere, a fronte – oltre che delle prove scientifiche – anche soltanto della sorte tragica toccata a tanti nostri soldati tornati dai Balcani.

Stancamente, è stato necessario ribadire alcune cose ovvie: addirittura con un video casalingo che divenne virale, con l’invito ai negazionisti a grattare la polvere di uranio per condire la pasta.


E dopo un po’, cala il silenzio: l’opinione pubblica italiana è ormai così, “merito” dei media italiani, hanno la memoria del pesce rosso.

Peculiare in quelle settimane l’atteggiamento degli ‘ambientalisti ed ecologisti di Stato’, sempre così queruli quando si parla di nucleare e radioattività, sempre così verdi, sempre pronti ad agitare lo spauracchio delle radiazioni anche quando non c’entrano. Ma in questo caso stanno con la bocca cucita dal diktat di partito e di governo, ligi al Verbo: le armi all’Ucraina “salvano vite”, sono cosa buona e giusta, anche se radioattive. Pacifinti con l’elmetto e senza contatore Geyger, ovviamente sulla pelle della popolazione ucraina.

Poi, verso il 12 di maggio, succede il patatrac: la Russia, individuato un importante deposito ucraino delle armi al DU, lo bombarda e lo distrugge. A Khmelnytskyi (Ucraina) sono colpiti magazzini con le armi all’uranio impoverito forniti all’Ucraina dal Regno Unito.

Prendono fuoco. Beh, naturale, il DU è anche piroforico. Si forma una bella nube dall’incendio, con fumo, con polveri fini e particolato da combustione.

Nube, come? Oh, nube “tossica” dicono qui i media, disperati. Cogliamo il rumore delle unghie sui vetri e gli ordini di scuderia: la parola “nube radioattiva” è tabù.

Qualcuno cum grano salis in Occidente (ne abbiamo anche qui) inizia ad associare le parole “incendio”, “nube”, “uranio”, ma non appare nessuna fonte affidabile che confermi che la contaminazione da radiazioni è significativa.

Noi dobbiamo ricorrere, molto incuriositi anche per mestiere (insegno ‘Protezione dalle Radiazioni’ al Politecnico dì Torino sin dagli anni ’90) ai canali non ufficiali.

Gli ucraini, povere stelle, dichiarano nei commenti ufficiali che sono state danneggiate le infrastrutture. Come dire: si è incendiato il deposito dei botti a Fuorigrotta, ma han preso fuoco solo tavoli e sedie.

Arrivano i dati che temevamo. Un aumento del rateo di dose da fondo naturale, normalmente intorno a 0.080 microSievert/ora dalle parti di Khmelnytskyi, viene rivelato da semplici misure del rateo di radiazioni gamma intorno al 12 maggio; si vedano per curiosità le figure 1-2: si arriva ad un raddoppio del fondo naturale, nelle rilevazioni che possiamo esaminare, fatte non intorno al deposito incendiato, ma nella cittadina nelle vicinanze.

Figura 1

Figura 2

Questo dimostra che c’è stato incendio da DU e contaminazione radioattiva della zona: senza nessun dubbio. Natura non facit saltus.

Attendevamo qui, nei giorni successivi, la sollevazione degli scienziati nucleari con laurea in radiazioni presso la ‘Google University’, ed eccola puntuale: “l’Uranio è radioattivo alfa, non gamma, le particelle alfa non sono rilevabili con quelle misure, quindi quei valori non possono essere causate dall’incendio!”.

Che fatica... chi ha perfezionato la laurea su Google con quella universitaria in discipline adeguate (esempio: Ingegneria nucleare sì, Scienze politiche no) sa che l’Uranio è – sì – “radioattivo alfa”, ma tiene famiglia: i prodotti del suo decadimento sono una bella schiera, sono radioattivi, sia alfa, che beta, che – guarda un po’ – gamma. È pratica comune la rivelazione dell’Uranio mediante spettrometria gamma.

Agevoliamo in figura 3 l’album di famiglia con tutti i figli radioattivi dell’Uranio-238, ed in figura 4 una spettrometria gamma dell’Uranio.

Figura 3

Figura 4

Allora c’è la nube radioattiva, allarmi allarmi, invaderà tutta l’Europa, “come Chernobyl”? Calma. Diciamo che ce lo meriteremmo, di pagar qualcosa anche noi europei in termini di salute, mica solo gli ucraini.

Infatti, credo per divertimento e “per vedere l’effetto che fa”, dalla Russia con amore ci avvertono che verremo investiti da una nube radioattiva: e chi è causa del suo mal pianga se stesso, avete dato armi radioattive all’Ucraina? Beh ecco qui le conseguenze (figura 5).

Figura 5

Però la radioprotezione è una scienza, e non è al servizio di nessun politicante, europeo, ucraino o russo che sia. Qui seguono alcuni punti che è necessario sapere, per una corretta valutazione del rischio.

Quanto DU ha preso fuoco? Sono poi disponibili misure oneste dei livelli di radiazione ambientale nei dintorni? Perché un conto è il doppio del fondo naturale, un altro conto è dieci o cento volte.

Ci sono misure in diversi punti del territorio e nel tempo? Questo ce lo potrebbero dire solo gli Ucraini. Quindi quei dati, almeno fin quando non sarà finita la guerra, non li avremo mai. Dati verificabili, intendo.

Potevano andare gli inglesi, sul posto, a far misure: magari lo hanno anche fatto, ma anche qui, zero titoli sui giornali, zero report ufficiali e scientificamente verificabili.

L’uranio per fortuna è pesante (1 litro pesa 19 chili) e quindi, per dirla semplice, fa fatica a viaggiare a grandi distanze. Nel nostro gergo, questi elementi radioattivi così pesanti li chiamiamo “particolato”: ad esempio, dall’incendio di Chernobyl uscì di tutto, ma quello che arrivò in Occidente – la “nube” – era composta essenzialmente da due elementi, lo Iodio-131 e il Cesio-137, molto adatti a stare nell’aeriforme e fare anche migliaia di chilometri.

Uscì da Chernobyl anche parecchio Plutonio, ma essendo pure lui pesante come l’Uranio, contaminò solo l’area circostante.

D’altra parte, se ricordate, nel 1995 e 1999 la NATO rimpinzò la Jugoslavia di bombe al DU, ma qui in Italia non arrivò nessuna nube. Oddio, arrivarono quei poveri militari mandati dal ministro della difesa Mattarella a sgombrare le macerie a mani nude e in braghe corte: da allora, ne sono morti a centinaia, di linfomi, leucemie, altre malattie orribili.

Ma questa è una storia diversa. Popolo sardo a parte, poligoni di tiro e prova di quelle armi a parte, niente “nube da Uranio” in Italia.

Non dobbiamo quindi preoccuparci? Sì, invece, e molto. Dovremmo preoccuparci per la popolazione Ucraina, diciamo nel raggio di alcuni (decine di?) chilometri intorno al luogo del disastro.

Ma anche qui, come nel caso dell’Iraq, costoro stanno subendo tanti di quei danni di ogni tipo che – voglio sperare – un provvedimento di emergenza che abbia raccomandato di stare al chiuso (“sheltering”) per un po’ abbia ridotto gli ulteriori rischi a lungo termine sulla loro salute, povera gente.

Monitorerei il terreno, le acque, non due misure in croce come ho letto abbiano fatto i locali: potessi, bombe o no, guerra o no, vi assicuro che andrei io stesso con alcuni dei miei sodali del Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra. Ma, come è facile immaginare, lo scrivente è, da quelle parti, persona non grata.

Le rilevazioni fatte in Polonia e nel resto d’Europa dalle agenzie atomiche nazionali ed internazionali hanno confermato che – tolta l’Ucraina – non è arrivato nulla.

Come diceva la pubblicità di un salame, negli anni ‘70: “Sceriffo, anche questa volta è andata bene, ringraziamo la nostra buona stella”. Possiamo continuare a imbottire l’Ucraina di armi sempre più sofisticate, sempre armi “che salvano vite”: non ci rimetteremo in salute, almeno fin quando non ci sarà l’escalation al conflitto nucleare.

Ci rimetteremo nulla più che la situazione economica disastrosa del regime di guerra, e ci rimetteremo alla lunga la faccia davanti alle generazioni future. Ma per alcuni, compresi quegli pseudoscienziati che parlano di “bufala dell’uranio”, questo non è un problema: tanto, hanno la faccia come il deretano.

Nota. L’autore desidera ringraziare l’amico Adriano Ascoli di Pisa per l’aiuto nel reperire i dati e per le utili discussioni sull’argomento.

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La Spagna va a destra e ad elezioni anticipate

Lunedì 29 maggio, Pedro Sanchez, primo ministro spagnolo, ha deciso lo scioglimento del Parlamento e la convocazione di elezioni politiche anticipate per il 23 luglio.

La decisione è stata annunciata in una conferenza stampa all’indomani delle elezioni municipali e regionali che hanno visto l’affermazione del Partido Popular e la sconfitta dei socialisti del PSOE anche in alcuni dei suoi bastioni storici.

I popolari si affermano in 9 regioni (comunidades autónomas) e in 31 capoluoghi di provincia.

Mentre la destra neo-falangista di VOX raddoppia i suoi voti, le formazioni alla sinistra dei socialisti a parte le formazioni “autonomiste” – in particolare Unidas Podemos (UP) – scompaiono di fatto dal quadro politico.

UP marca una presenza solo “a macchia di leopardo” nella penisola iberica. Lì dove era “virtualmente” nata, a Madrid nel 2011, non supera il quorum del 5% e rimane fuori dalle istanze rappresentative locali.

Come ha dichiarato Sanchez nella citata conferenza stampa: “anche se le elezioni avevano una portata municipale e regionale, il senso del voto reca in sé un messaggio che va più lontano, e come Presidente del governo e segretario generale del Partito socialista mi prendo la responsabilità dei risultati”.

Si tratta di un atteggiamento coerente con il valore che il leader socialista aveva voluto dare a queste elezioni, impegnandosi particolarmente nella campagna, per farne una sorta di plebiscito a favore o contro l’attuale gestione del potere, che vede un governo di minoranza composto dal PSOE e Unidas Podemos.

Dal lato opposto dello scacchiere politico la destra tutta – dal PP di Alberto Núñez Feijóo a Vox di Santiago Abascal – ha fatto propria la battaglia contro il “sanchismo” e si appresta a trattative per governare insieme lì dove i popolari non hanno, nonostante il successo, i numeri per farlo (in sei regioni e differenti ayuntamientos), preparando il terreno per una possibile futura coalizione governativa, ma lasciando ai singoli notabili locali del PP le contrattazioni.

Vox è propenso a tale ipotesi e chiama il PP alla possibilità di costruire dalle istanze governative locali in alternativa ad un esecutivo di “socialisti, comunisti, separatisti e terroristi”, come detto da Abascal, che ha ricordato che la sua formazione è “un partito nazionale, per cui la sua posizione sarà nazionale e, per tanto, centralizzata”.

Il leader dei popolari aveva fino ad ora escluso un accordo a livello nazionale con l’estrema destra di Abascal, ma è chiaro che le elezioni anticipate in parte cambiano lo scenario.

Da canto suo Feijóo ha ribadito lunedì che “la Spagna ha compiuto ieri un primo passo per aprire un nuovo ciclo politico”.

Vediamo sommariamente i risultati.

Il PP ha riassorbito quasi totalmente i voti indirizzati ai populisti di destra di Ciudadanos, praticamente scomparsi dalla geografia politica spagnola.

Ha ottenuto il 31% complessivo dei suffragi, con un + 8,88% rispetto al 2019, crescendo di circa 2 milioni di voti, superando il PSOE di quasi 800mila voti.

Il Partito socialista perde certamente voti, ma la sua non è una vera e propria emorragia, anche se il suo declino nelle preferenze ha un peso rilevante a livello di effetti politici.

Il PSOE ha ottenuto in realtà il 28% dei voti (-1,27 punti percentuali), perdendo 400mila elettori, senza quindi che ci fosse un travaso di preferenze in questa direzione da parte degli ex elettori di UP.

Un’oscillazione che però gli fa perdere l’Estremadura, l’Aragona, la regione di Valencia, le Baleari e la Rioja, e ben 11 dei 22 capoluoghi di provincia che governava.

Il PP recupera Valencia e governerà in Andalusia (in 7 capoluoghi di provincia su 8), storica riserva di voti socialista.

Mentre la “sinistra radicale” di UP, perde, l’estrema destra di Vox, guadagna.

Unidas Podemos ottiene complessivamente il 3,2%, e non avrà rappresentanti nei parlamenti regionali di Madrid e di Valencia, ed in alcuni contesti – come alle Baleari e nella Regione di Valencia – i suoi scarsi risultati impediscono al PSOE di formare alleanze per governare a livello locale.

Vox ottiene invece il 7,18% dei votanti totali. Raccoglie il risentimento contro il “sanchismo” – accusato di appoggiarsi, per governare, alle formazioni autonomiste basche e catalane (EH Bildu ed ERC) – da quando, dopo le elezioni dell’autunno del 2019, ha iniziato a governare con UP, spostando a sinistra l’asse centrista dei precedenti esecutivi socialisti.

La vice-presidente del Parlamento è l’attuale ministra del lavoro, Yolanda Diaz, la creatrice di “Sumar”, succeduta nella carica di vice al co-fondatore di Podemos Pablo Iglesias, che si era dimesso a sorpresa per candidarsi senza successo alla carica di sindaco di Madrid.

Nonostante ci stesse lavorando da un anno, ed il 2 aprile avesse annunciato la sua candidatura accanto alla sindaca uscente Ada Colau (capofila del partito catalano En Comun Podem), insieme ad altre figure di spicco, la sua candidatura “ricompositiva” non ha visto però la presenza di Podemos.

I rapporti tra la Diaz e la segretaria generale di Podemos, nonché Ministra dei diritto sociali, Ione Bellara, così come la numero due del partito, Irene Montero, nonché ministra dell’uguaglianza, sono tesi.

Iglesias aveva avvertito del pericolo della direzione che stava prendendo la Diaz quando nel novembre del 2022, aveva avvisato che sarebbe stato “stupido” pensare che “una candidatura di sinistra possa avere un buon risultato alle elezioni legislative se Podemos ottiene un cattivo risultato alle municipali e alle regionali”.

Ed infatti sembrano piuttosto lontani i tempi in cui, alle legislative di 8 anni fa, nel 2015, Podemos ottenne il 20% delle preferenze con più di 5 milioni di consensi, tallonando il PSOE di Sanchez che pure aveva scartato la possibilità di formare una coalizione governativa insieme ad Iglesias.

La mossa di Sanchez ora costringe a trovare un accordo per formare una coalizione “a sinistra” in dieci giorni – questi sono i tempi legali – e lo spauracchio di un possibile governo PP-VOX sembra possa sedare la litigiosità finora dominante ed accelerare in tal senso, per continuare nell’opera intrapresa dall’esecutivo in 4 anni.

Dal suo canale televisivo su YouTube Canal Red è stato Iglesias a lanciare una proposta di coalizione con Sanchez come leader. “La destra andrà divisa tra PP e Vox e Pedro Sánchez potrà collocarsi come candidato di un amplio fronte popolar-progressista”, ha detto.

All’attuale esecutivo va senz’altro riconosciuta un’azione legislativa tesa ad alleviare la precarietà lavorativa e l’impoverimento crescente dei ceti subalterni, un’attenzione particolare all’allargamento della sfera dei diritti individuali ed un atteggiamento meno vendicativo nei confronti di alcuni leader “autonomisti” protagonisti della mobilitazione legata al referendum sull’indipendenza catalana.

Un esperimento che però non ha mai messo in discussione la collocazione euro-atlantica del Paese, il suo regime monarchico ed il suo assetto istituzionale.

E se il contenimento della destra era un obiettivo di questa “strategia” – alla luce delle elezioni di domenica, ma non solo – può considerarsi di fatto fallito.

Le elezioni anticipate di luglio vedranno probabilmente da una parte un ampio schieramento democratico e progressista che ha perso notevoli consensi e peso politico nella sua componente più “radical-riformista”, ed uno schieramento conservatore con un baricentro fortemente spostato a destra a causa del peso che stanno esercitando i neo-falangisti di Vox, prima imponendo le proprie tematiche nel dibattito politico, poi conquistando sempre più consensi fino a poter divenire l’ago della bilancia per far tornare il Partido Popular al governo.

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Kosovo - Tensione e scontri. Feriti 11 militari italiani del contingente Nato

Giorni di tensione e scontri nel nord del Kosovo dopo l’insediamento dei nuovi sindaci albanesi nei comuni dell’area a maggioranza serba. Gli scontri sono iniziati venerdì scorso quando le forze di polizia kosovare sono entrate negli edifici dei comuni di Leposavic, Zubin Potok e Zvecan usando gas lacrimogeni e granate assordanti, al fine di disperdere gli esponenti della comunità serba che cercavano di impedire l’ingresso nei comuni ai sindaci di etnia albanese.

Ci sono stati una dozzina di feriti e diverse auto date alle fiamme, tra cui almeno una della polizia. I sindaci vincitori delle elezioni municipali tenute il 23 aprile nell’area non sono riconosciuti da Belgrado e una porzione significativa della comunità serba, che in quell’area del Paese è a maggioranza, ha boicottato l’appuntamento elettorale che ha segnato così una misera affluenza del 3,4 per cento.

La presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, aveva convocato le elezioni dopo le dimissioni in massa presentate da tutti i funzionari pubblici della componente serba nel novembre scorso.

Le dimissioni erano giunte in segno di protesta dopo le tensioni che si erano verificate a seguito della decisione del governo di Pristina di imporre targhe automobilistiche emesse dal Kosovo anche nell’area nord a maggioranza serba.

In conseguenza di quanto accaduto venerdì scorso, il presidente serbo Aleksandar Vucic nella stessa giornata aveva predisposto il massimo livello di allerta per le forze armate serbe e ha ordinato loro di muoversi immediatamente in direzione del valico con il Kosovo, convocando il giorno dopo una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale.

Il ministro della Difesa serbo Milos Vucevic ha affermato che sarebbe stato completato “entro il primo pomeriggio” il “pieno dispiegamento delle formazioni dell’esercito, secondo i piani prestabiliti”, e ha sottolineato che per l’esercito rimane “il massimo livello di prontezza al combattimento” deciso venerdì.

La premier Ana Brnabic ha sottolineato che la situazione in Kosovo è “difficile come mai” e ha accusato l’Unione europea e la KFOR di aver reagito “in ritardo”.

Il presidente serbo Aleksandar Vucic, rivolgendosi alla nazione, ha affermato che da diversi mesi le autorità kosovare cercano di provocare un sanguinoso conflitto tra Belgrado e la Nato. Allo stesso tempo, le forze di pace della KFOR non proteggono i civili, ma i “falsi sindaci” eletti con una scarsa affluenza alle urne.

Ai manifestanti serbi è stato impedito di avvicinarsi all’edificio dalla polizia del Kosovo e dalle forze della NATO. Le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sui manifestanti, usato manganelli, spruzzato gas lacrimogeni e lanciato circa 30 granate assordanti sulla folla.

Negli ospedali risultano ricoverati 50 feriti tra i civili e si registrano 41 militari della KFOR feriti, tra cui 11 soldati italiani. I ferimenti sono avvenuti nei gravi scontri fra truppe NATO e dimostranti serbi a Zvecan, nel nord del Kosovo. Degli 11 feriti italiani, tre sono gravi, ma non in pericolo di vita: avrebbero riportato ustioni e fratture

La missione KFOR della NATO ha aumentato da ieri la propria presenza nei quattro comuni del Kosovo settentrionale per garantire la “sicurezza” dell’area. I militari italiani del contingente NATO sono stati dislocati a Mitrovica.

Davanti alle sedi municipali si sono radunati centinaia di cittadini insieme ai rappresentanti della Lista serba (gruppo politico rappresentativo dei serbi del Kosovo) i quali chiedono il ritiro delle unità della polizia del Kosovo dall’area, oltre che le dimissioni dei neoeletti rappresentanti comunali.

La polizia ha usato in alcuni casi gas lacrimogeni per fermare i manifestanti che cercavano di entrare con la forza negli edifici.

La missione KFOR invita tutte le parti ad astenersi da azioni che potrebbero infiammare le tensioni o causare un’escalation e, in linea con il proprio mandato, è pronta a intraprendere tutte le azioni necessarie per garantire un ambiente sicuro in modo neutrale e imparziale.

“Una grande esplosione si sta preparando nel centro dell’Europa. Proprio nel luogo in cui nel 1999 la NATO ha effettuato l’aggressione contro la Jugoslavia in violazione di tutti i principi concepibili dell’Atto finale di Helsinki e dei documenti dell’OSCE”, ha affermato il ministro degli Esteri russo Lavrov.

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Governo Meloni e Commissione europea: un amore nel segno dell’austerità

Come ogni anno, la Commissione europea ha pubblicato le sue Raccomandazioni specifiche per Paese. Si tratta, come il nome stesso rivela, di particolari indicazioni e suggerimenti che la Commissione elargisce ai Paesi membri dell’Unione Europea in merito alle politiche nazionali di bilancio. Tutto ciò avviene nell’ambito del cosiddetto Semestre europeo, il meccanismo tramite il quale le istituzioni europee coordinano le politiche di bilancio dei vari Paesi membri e si accertano che esse siano in linea con gli obiettivi prefissati a Bruxelles.

Come abbiamo più volte fatto notare in passato, tali Raccomandazioni – e in particolare quelle rivolte all’Italia – sono sempre storicamente caratterizzate per l’assoluta monotonia, ripetitività e insistenza su un unico tema: stando a queste indicazioni, il debito pubblico italiano sarebbe troppo alto e rappresenterebbe una minaccia fondamentale per la stabilità economica e finanziaria, nostra e dell’Europa tutta. Ecco, quindi, che la ricetta non può che essere quella di ridurlo, introducendo politiche di austerità (leggasi, tagliando la spesa). Tra le sforbiciate da mettere in campo, assistiamo ad una particolare ossessione per la spesa pensionistica, da comprimere sempre di più nonostante decenni di controriforme abbiano condotto all’impoverimento graduale di centinaia di migliaia di pensionati e all’innalzamento continuo dell’età pensionabile.

L’ultimo capitolo di questa saga è datato 24 maggio 2023, con l’uscita delle ultime raccomandazioni. Incredibile a dirsi, non è cambiato praticamente nulla rispetto a quanto ci è stato detto negli scorsi anni (spoiler alert: non è così vero, come cercheremo di spiegare verso la fine di questo articolo). Ma andiamo con ordine. Secondo le parole della Commissione, l’Italia “presenta squilibri macroeconomici eccessivi…(e) persistono vulnerabilità connesse all’elevato debito pubblico”. Per scoprire cosa bisogna fare per far fronte a questa sfida è sufficiente andare poco avanti nella lettura. La ricetta è, non sorprendentemente, “politiche di bilancio prudenti, con avanzi primari adeguati”. Che tradotto in parole semplici significa implementare misure di austerità, ossia perseverare in una politica fiscale caratterizzata da uno Stato che sottrae all’economia – tramite tasse e tagli – più di quanto apporta attraverso la spesa pubblica. D’altronde, si tratta esattamente dell’orientamento che tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi trenta anni hanno seguito, senza distinzione di colore politico (con l’eccezione temporanea degli ultimi anni emergenziali caratterizzati da pandemia e guerra). Come detto in apertura, non può ovviamente mancare il riferimento alla necessità di “ulteriori iniziative politiche nel settore dei sistemi pensionistici”, per non smentire l’odio verso chi cerca di condurre una vita dignitosa dopo il termine della vita lavorativa. Né manca l’ennesimo invito ad un aumento dell’IVA, con le note conseguenze regressive che questo comporterebbe.

Le Raccomandazioni per l’Italia contengono ulteriori aspetti interessanti. Ad esempio, si evince in maniera lampante l’uso politico e strumentale che viene fatto degli investimenti pubblici, come vettore per imporre tagli. Il ragionamento proposto è paradigmatico perché presenta in maniera concreta cosa vuol dire il concetto di ‘scarsità’, uno dei princìpi cardine intorno a cui ruota la teoria economica dominante. Le Raccomandazioni si sperticano in lodi degli investimenti pubblici (e ci mancherebbe altro, visto che si tratta di un importante motore di crescita). Il problema è che gli investimenti pubblici sono, per lo Stato, una voce di spesa, e l’unica maniera di spendere un euro in più da una parte – all’interno del dogma del pareggio di bilancio – è di spenderne uno in meno da un’altra. Eccolo, il mito della scarsità delle risorse all’opera, con la conseguenza che se da un lato la Commissione chiede più investimenti pubblici, dall’altro e proprio in virtù di ciò richiede tagli alla spesa pubblica corrente, cioè tagli ai salari dei dipendenti pubblici, alle pensioni, ai sussidi e ai trasferimenti alle famiglie.

Un altro concetto che, secondo la migliore tradizione della mistificazione di concetti apparentemente neutri, viene brandito a discapito degli interessi della maggioranza della popolazione è quello di ‘produttività’, altro problema atavico che – ci dice la Commissione – piaga l’economia italiana e che va affrontato a suon di riforme del mercato del lavoro, cioè di maggiore precarietà e minori diritti per lavoratori e lavoratrici.

Il documento di cui ci stiamo occupando svela anche alcune cose forse ovvie per chi si fosse dato la briga di andare a guardare al di là della propaganda, ma che cozzano con la grancassa mediatica: la spesa pubblica finanziata tramite i contributi a fondo perduto del programma Next Generation EU ammonta allo 0,9% del PIL nel 2022, e sarà pari all’1,4% nel 2023: si tratta, in buona sostanza, di una piccola goccia nel mare della recessione in cui siamo intrappolati. Risulta illuminante anche il passaggio in cui la Commissione spiega perché i sussidi che tutti i Governi europei hanno elargito a famiglie e imprese per provare a contrastare gli effetti più estremi del caro energia vadano smantellati al più presto: questi aiuti, nonostante abbiano tutelato famiglie e imprese vulnerabili, “non preservano appieno il segnale di prezzo necessario per ridurre la domanda”. Anche qui, detto in parole semplici: secondo la Commissione europea, la maniera giusta per fare fronte al caro energia – e quindi al caro bollette, benzina, riscaldamento, etc. – è tenere la luce meno accesa, non attivare i riscaldamenti e andare a lavorare a piedi, in maniera tale che le conseguenze della follia bellicista siano pagate e sofferte interamente dal singolo individuo. Non a caso, a marzo scorso il Governo Meloni ha già chiuso i rubinetti sul fronte degli aiuti all’economia per il contrasto al caro bollette.

Le Raccomandazioni si lasciano anche andare ad una minaccia neanche troppo velata, allorquando ricordano che la Commissione, ancora nella primavera 2023, ha deciso di non avviare procedure (tradotto, di non presentare il conto attraverso sanzioni) contro quei Paesi che presentassero disavanzi di bilancio eccessivi. La pacchia, tuttavia, è finita. La Commissione, infatti, “proporrà al Consiglio di avviare, nella primavera del 2024, procedure per i disavanzi eccessivi basate sul disavanzo in base ai dati di consuntivo per il 2023. L’Italia dovrebbe tenerne conto nell’esecuzione del bilancio 2023 e nella preparazione del documento programmatico di bilancio 2024”. Il ritorno del Patto di Stabilità e Crescita è alle porte, e non saranno più concessi gli sgarri degli anni della pandemia da Covid-19. Come si può leggere nel documento relativo alle raccomandazioni specifiche per l’Italia, sarebbe in particolare necessario un aggiustamento di bilancio, come minimo, dello 0,7% del PIL, cioè poco meno di 15 miliardi di euro. Si tratta di miliardi da reperire principalmente e tramite i tagli della spesa pubblica netta primaria finanziata a livello nazionale (il nuovo parametro stabilito dalla recente riforma del Patto di Stabilità e Crescita su cui i governi dovranno agire per imporre l’austerità).

Fino a qui, niente altro che l’ennesima riproposizione delle ricette che hanno condannato l’Italia, e non solo l’Italia, a stagnazione, salari al palo e disoccupazione, da ben prima della pandemia e della guerra. Niente di nuovo, quindi, sotto il sole? Non del tutto, perché la Commissione sembra aver trovato finalmente nel Governo Meloni il complice e sodale perfetto. Dopo aver notato, infatti, che fino ad ora l’Italia ha “tenuto sufficientemente sotto controllo la crescita della spesa corrente finanziata a livello nazionale”, le Raccomandazioni offrono un’ultima gemma. Per tenere a bada i conti pubblici, la Commissione calcola che la spesa primaria netta (cioè la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito pubblico) dovrebbe avere nel 2024 un aumento massimo, in termini nominali, dell’1,3%. È cruciale notare che, vista l’inflazione attesa per il 2024 (3% stando alle stime Eurostat), un tale aumento in termini nominali (euro spesi) corrisponde a una diminuzione in termini reali (beni e servizi che vengono erogati dallo Stato) dell’1,7%. Questo poiché se gli euro spesi crescono meno di quanto crescono i prezzi, il quantitativo di beni e servizi acquistati dallo Stato diminuisce. La solita, vecchia austerità di matrice europea, come dicevamo. Ma qui viene la sorpresa. Proseguendo nella lettura, si scopre infatti che: “le previsioni di primavera 2023 della Commissione prospettano una crescita della spesa primaria netta finanziata a livello nazionale pari allo 0,8 % nel 2024, ossia al di sotto del tasso di crescita raccomandato”. Più realista del re, più dedito ai tagli di chi i tagli li ha inventati e istituzionalizzati, il Governo Meloni si porta avanti con il lavoro e si fa interprete e portatore di austerità – cioè di miseria, tagli alla sanità pubblica e all’istruzione e così via – in misura ancora maggiore di quanto richiesto dalla Commissione.

Tutto ciò accade mentre la premier Meloni dichiara che il Governo si appresta a spendere miliardi per la ricostruzione in Emilia-Romagna. Specifica, tuttavia, che le coperture economiche saranno trovate qua e là nelle pieghe del bilancio (ossia, tagliando altre voci di spesa). Al di fuori della retorica messa ogni giorno in campo dai rappresentati del Governo, questi numeri certificano, qualora ce ne fosse ancora bisogno, lo spirito antipopolare del Governo Meloni. Oltre ai continui attacchi al mondo del lavoro, l’esecutivo Meloni si mostra ancora più austero del già rigorosissimo governo Draghi. Promettere più austerità di quanta ne prescrivano le istituzioni europee significa perpetrare politiche di massacro sociale e attacco alle fasce più deboli, continuando nel preciso progetto politico di smantellamento dello stato sociale. Solo una lotta senza campo a questo esecutivo potrà arginare questo sfacelo.

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Italia e Francia evitano un nuovo «schiaffo di Tunisi» parlando di migranti, grandi opere e giustizia

Nel lessico giornalistico e storiografico lo «schiaffo di Tunisi» è il nome dato alla crisi diplomatica che segnò lo stabilirsi del protettorato francese in Tunisia, bruciando sul tempo le mire di Roma. In questi giorni invece Tunisi è al centro della ricomposizione delle relazioni tra Italia e Francia.

Il 25 maggio la ministra degli Esteri dell’Esagono, Catherine Colonna, ha incontrato a Roma il suo omologo italiano, Antonio Tajani, per procedere su diversi dossier su cui i due governi sono impegnati. In particolare, quello dell’immigrazione rappresenta uno dei nodi più urgenti.

A inizio maggio il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, aveva accusato Giorgia Meloni di incapacità nella gestione dei flussi migratori, e non poteva essere altrimenti avendo fatto “promesse sconsiderate” ai suoi elettori. Il viaggio di Tajani a Parigi era stato dunque subito cancellato.

Al Consiglio d’Europa Macron aveva subito cercato di riaprire il dialogo, riconoscendo che l’Italia non può essere lasciata sola su questa questione. Del resto, gli interessi strategici convergenti rendono questo scambio una semplice scaramuccia, tipico anticipo di trattative su pratiche delicate.

E dunque, alla Farnesina, alla fine l’incontro tra i ministri degli Esteri si è svolto, e l’esito è stato “molto positivo”, parole dello stesso Tajani. Sia lui sia la Colonna hanno sottolineato che la collaborazione deve continuare nello spirito e attraverso i canali del Trattato del Quirinale, che ha dato vita a un nuovo asse nelle gerarchie dell’Unione Europea.

Al centro del confronto c’è stata la questione migratoria, a partire dal ruolo della Tunisia, da cui oggi partono la maggior parte dei migranti. “Dobbiamo aumentare la nostra cooperazione con la Tunisia attraverso il canale europeo, ovviamente, e anche attraverso i reciproci rapporti bilaterali”, ha detto la Colonna.

Durante l’incontro si è discusso anche della Libia e del Sudan, dopo il riesplodere della crisi politica e militare. Non è mancata attenzione anche alla rotta balcanica, in contemporanea alle elezioni in Turchia e al continuare della guerra in Ucraina, verso cui hanno ribadito il sostegno dentro la cornice di rafforzamento di una difesa europea.

Si è continuato a parlare dell’aiuto promesso da Macron per l’alluvione in Romagna. Sul tavolo è stato messo anche il traforo del Monte Bianco, dopo che governo e Valle d’Aosta, d’accordo con Confindustria e con la società italiana di gestione della struttura (SITMB), avevano avviato il confronto con la Francia per un eventuale raddoppio del tunnel.

Infine, durante il colloquio Tajani ha sollevato anche il tema degli esuli politici in Francia. La Cassazione francese a marzo ha confermato il rifiuto ad estradare dieci militanti che appartenevano alle Brigate Rosse, ennesimo capitolo di una lunga storia di cui spesso da noi si dimentica di ricordare tutti i dettagli.

Il ministro degli Esteri italiano ha “dovuto ricordare il voto di ieri del parlamento della Repubblica”, cioè la richiesta al governo di sostenere i familiari delle vittime nel loro ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Tajani ha comunque evidenziato che Macron si era espresso in favore dell’Italia, ma è stata ovviamente la magistratura francese a prendere la decisione.

Insomma, il governo dei post-fascisti che non si è nemmeno costituito parte civile al processo di Piazza della Loggia tenta ancora di chiudere il capitolo del grande ciclo di lotte sociali e politiche degli anni Settanta e Ottanta in maniera vendicativa. E lo fa approfittando di altri dossier delicati.

Per ora, dunque, le relazioni tra Italia e Francia si sono ricomposte, anche se alcuni aspetti rimangono in bilico. Ma è evidente che proprio la gestione delle migrazioni, mentre guerra e devastazione ambientale continuano a macinare nelle contraddizioni della crisi capitalistica, rendono necessario parlarsi. Staremo a vedere quali (non) soluzioni troveranno.

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L’economia italiana è in panne: motivi interni e internazionali

L’economia italiana è in panne. Industria, costruzioni ed export giù. Il commercio internazionale si è fermato, dopo il buffer di liquidità governativa e delle famiglie a seguito del lockdown.

La fine degli incentivi al Superbonus ha bloccato la crescita degli investimenti (9,5% 2022, derivanti per lo più da quest’ultimo settore). Le imprese negli ultimi anni hanno raggiunto una liquidità, esclusi gli investimenti finanziari, pari al 28% del pil, tuttavia gli investimenti sono fermi. Germania in recessione, Usa arrancano sul debito pubblico.

Quanto alla Cina, come ho riportato la settimana scorsa, le industrie si aspettano un fatturato minore del 2022. Il governo non interviene con misure fiscali, almeno ad ora, è come se attendesse la fine dell’immenso buffer di liquidità dei cittadini dopo tre anni di chiusura (stesso fenomeno accaduto da noi a partire da maggio 2020, altro che Draghi) che si riversa in viaggi, turismo in genere e servizi ad esso legato (come da noi 2023).

È come se la Cina si accontentasse di una crescita parziale, concentrandosi concentrata su di un probabile conflitto con Taiwan fomentato dagli Usa.

L’eccezione cinese alla crisi capitalistica degli ultimi 50 anni trova un parziale blocco per motivi di politica internazionali, se in Occidente ci sono extra profitti industriali e commerciali, derivanti da dinamiche inflazionistiche che loro stessi fomentano (ieri il centro studi Confindustria ha riconosciuto che in Italia hanno extraprofitti, anche se minori da Ue), la dinamica disinflazionistica cinese, che è perseguita da anni, porta il governo ad accettare una parziale caduta dei profitti industriali e commerciali.

Il lockdown serviva alla strategia disinflazionistica, l'astensione dall'uso della leva fiscale serve al governo cinese per mobilitare l’enorme buffer di liquidità detenuta dai cittadini e che, a partire da dicembre 2022, ha preso a riversarsi riversando nell’economia.

Un solo motore, pur di frenare l’inflazione. Mentre da noi gli extraprofitti alimentano un’inflazione perdurante che uccide le classi medio basse.

Ovviamente in Cina tale strategia non passa dalla politica monetaria come in Occidente. In Usa e Ue essa è semplicemente attrazione di capitali che altrimenti non avrebbero. Semplicemente in Cina tutelano le classi medio basse perché l’unica loro paura, non Taiwan o Usa, sono le rivolte sociali. Sono gli unici al mondo che lo fanno, a costo di bassi profitti o perdite di borsa.

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Turchia - Erdogan vince e resta al potere

Erdogan, ha vinto le elezioni con il 52,1 per cento delle schede al ballottaggio contro lo sfidante Kemal Kilicdaroglu, che si è fermato al 47,9 per cento dei consensi. Tra i due il divario è stato di 2,3 milioni di voti, erano stati 2,5 milioni al primo turno di 2 settimane fa.

Leggermente più bassa, ma comunque altissima l’affluenza al voto, 83,6%, al primo turno era stata dell’88%, percentuali di partecipazione che nei paesi occidentali sono ormai un lontano ricordo. Per fare un paragone l’affluenza alle urne al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi dello scorso anno, che ha contrapposto Emmanuel Macron a Marine Le Pen ed è stata considerata esistenziale per la Francia, è stata inferiore al 72% e Macron è stato eletto con il 58,54% dei voti.

Questo risultato sancisce l’inizio del terzo mandato di Erdogan, che rimarrà alla guida del Paese fino al 2028.

Nella giornata di ieri, a urne ancora aperte, Erdogan aveva dichiarato che è tempo di “difendere la volontà del popolo fino all’ultimo”. Lo sfidante Kilicdaroglu ha dichiarato: “Queste elezioni hanno chiaramente indicato che la nazione ha una reale volontà di combattere e cambiare il governo autocratico”.

Contro Erdogan ha votato la costa Egea e quella Mediterranea, ma anche le grandi città come Istanbul e Ankara, mentre il presidente turco ha dominato anche nelle aree colpite dal devastante sisma dello scorso 6 febbraio. Il sud est a maggioranza curda ha visto un leggero vantaggio a favore di Kilicdaroglu, che era sostenuto dai filo curdi di HDP, ma ha perso voti in seguito alle alleanze concluse da Erdogan con gli ultranazionalisti tra il primo e il secondo turno.

Kilicdaroglu aveva messo insieme un’alleanza elettorale basato sul suo partito – il CHP – di centrosinistra, cinque partiti di destra chiamati la Tavola dei Sei, e il sostegno del partito curdo HDP. Anche lui aveva fatto appello ai nazionalisti turchi con la promessa di rimpatriare tutti i 3,7 milioni di rifugiati siriani nel Paese.

Le dichiarazioni sempre più nazionaliste del candidato dell’opposizione e l’accordo con il Partito della Vittoria (di destra) hanno allontanato parte degli elettori curdi. Al ballottaggio si è registrato un calo dell’affluenza alle urne nelle aree dominate dai curdi, che è scesa dall’81,70% al 75,74%.

Erdogan fino alle elezioni del 2015 aveva governato da solo con il suo partito Akp. Da allora è stato costretto a governare in coalizione perdendo consensi, senza però che questa perdita fosse sufficiente a porre fine al suo potere.

Il primo a inviare le sue congratulazioni ad Erdogan è stato l’emiro del Qatar, – e capofila della Fratellanza Musulmana – Tamim bin Hamad Al Thani, che si è congratulato con “il mio caro fratello Recep Tayyip Erdogan”.

Curiosamente però tra i primi a congratularsi con Erdogan per la vittoria è stato anche il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, fino a ieri “rivale” della Turchia in Medio Oriente. A seguire sono arrivati gli auguri di Mohammed bin Zayed degli Emirati Arabi Uniti e del presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al Sisi. A seguire i presidenti di Francia, Russia e Ucraina, rispettivamente Emmanuel Macron, Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin, oltre che dal cancelliere tedesco, Olaf Scholz.

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29/05/2023

I primi della lista (2011) di R.Johnson - Minirece

ITA, Lufthansa procede nell’acquisizione a prezzi di saldo

Giovedì 25 è stata la diffusa la nota del Mef che “confermava la conclusione dell’accordo di investimento…” in ITA, da parte della holding Lufthansa. Un messaggio ambiguo sulla effettiva sottoscrizione che apre un piccolo giallo. In ogni caso c’è l’affermazione del graduale disimpegno dello Stato e dell’ingresso del gruppo di Francoforte che acquisisce la piccola compagnia ITA pagandola a prezzi di saldo, una cifra intorno ai 350 mln di euro.

Un matrimonio molto discutibile guardando agli interessi italiani. Oramai il mercato italiano, il secondo in Europa, negli ultimi decenni è stato lasciato nelle mani di Ryanair impoverendo le risorse e gli introiti fiscali dello Stato. Dal canto suo ITA chiude l’esercizio con una perdita oltre i 480 mln di euro.

Fuori da questo accordo al momento i 3700 cassaintegrati del bacino Alitalia in attesa di lavoro che hanno attivato i contenziosi. È questo il limite più grande dell’operazione del ministro Giorgetti che si trova a garantire all’AD Carsten Spohr che non ricadranno sulle sue spalle esclusioni illegittime dalle assunzioni.

Dalle notizie emerse sugli obiettivi del piano industriale, USB non può che criticare il ruolo ancillare al quale sarà relegata ITA. La dimensione della piccola ITA sarà funzionale ai processi industriali della compagnia tedesca e nulla di più. Niente sviluppo nessuno spazio commerciale fuori dalla previsione.

Dal canto nostro, USB ricorda a Lufthansa che i lavoratori in piazza giovedì 25 per l’occupazione e le richieste sugli ammortizzatori sociali non faranno nessun passo indietro. Sarebbe molto sano per tutti trovare soluzioni negoziali per restituire ai dipendenti tutto ciò che è stato ingiustamente tolto.

USB Lavoro Privato

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Lo sciopero del 26 maggio “fa notizia”. In Cina, non in Italia...

Lo stato dell’informazione in Italia, scriviamo spesso, è comatoso. Il servilismo verso il padrone di turno (nel “servizio pubblico” cambia con qualche frequenza, ma senza grandi differenze...) è tale da non poter più nemmeno essere rilevato come un “problema”. “Si fa così l’informazione libera, no?”

E infatti nelle classifiche mondiali sulla libertà di stampa questo paese viene dopo il Burkina Faso e la Nuova Guinea, appena prima del Botswana e del Belize...

Lasciamo stare la “copertura” della guerra in Ucraina, dove “l’informazione” Rai, Mediaset, La7 e giornali nazionali vari si limita alla traduzione delle veline del ministero della difesa di Kiev (con contorno di Pentagono ed intelligence britannica...).

Ma se si vuole avere una prova provata del servilismo basta guardare a come viene “silenziata” ogni protesta sindacale indipendente, a meno che non provochi “disagi alla circolazione”.

Lo sciopero generale del 26 maggio, promosso dall’Unione Sindacale di Base, è stato a detta di molti, il più riuscito da molti anni a questa parte. Certo, tenendo presente le forze in campo, i limiti del radicamento del sindacalismo di base, l’assoluta censura mediatica – appunto – e tutto quello che volete.

E molti hanno anche verificato che questa crescita di adesioni è avvenuta nel “privato”, ossia nelle aziende dove scioperare significa rischiare anche molto.

Ma è inutile provare a fare “contro-propaganda”. Siamo consapevole dei nostri limiti di fronte alle corazzate nemiche dell’informazione.

Che qualcosa stia succedendo, però, è certo.

È la prima volta che la televisione pubblica cinese, per esempio, con un servizio anche abbastanza lungo, “copre” uno sciopero italiano così anomalo rispetto al panorama ufficiale.

Come per la guerra, insomma, il resto del mondo si muove in maniera diversa – e spesso opposta – al conformismo liberista in affanno.

Ed è sicuramente una buona notizia “fare notizia” presso un pubblico potenziale di “appena” 1,4 miliardi di persone, che fanno correre la “manifattura del mondo”.

A voi il servizio...

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25 maggio: festa europeista “degli eroi nella lotta al totalitarismo”

Che le famigerate “risoluzioni” del cosiddetto Parlamento europeo su “coscienza europea e totalitarismo”, succedutesi per una decina d’anni, fino all’obbrobrio del 2019 sulla “memoria europea per il futuro dell’Europa”, avessero preso avvio dalla tracotante impotenza di qualche capitale sanfedista affacciata sul mar Baltico, in ciò incitata da capitali euro-atlantiche “in doppiopetto”, è cosa più che nota.

Che l’obiettivo della cosiddetta “memoria”, avesse prospettive a lungo termine e, mentre impone di equiparare “Germania nazista e URSS comunista” in un unico fronte “totalitario”, guardi allo scopo attualissimo di mettere al bando “l’ideologia comunista” e i comunisti, anche questo, in buona parte, è noto al pubblico.

Insomma, come avevano decretato congiuntamente nel 2016 Sejm polacca e Rada ucraina, il 23 agosto 1939 due “regimi totalitari” avevano siglato un “patto” che poi aveva “portato alla guerra, all’aggressione tedesca e sovietica, a repressioni di massa e poi a Jalta, che causò la schiavitù di tutta l’Europa centrale e orientale”.

Ancora più trivialmente, nel 2017 il Ministero della guerra polacco aveva proclamato che, senza quel “patto”, non ci sarebbe stato l’Olocausto. Questo, sulla coscienza dei pan polacchi.

Un po’ meno noto, anche perché la rappresentazione della figura in se stessa non costituisce certo il motivo trainante della campagna, è forse il nome del rotmistr (capitano) Witold Pilecki, associato, nell’ennesima omelia europeista, alla data del 25 maggio, festa “degli eroi nella lotta al totalitarismo”.

Ancora una volta, tutto ciò che è legato alla Polonia d’anteguerra (meno, s’intende, i massacri di polacchi a opera dei nazionalisti ucraini) e a quella post-socialista, viene inserito nel piano anti-comunista cui si rifanno i “valori europei” delle democrazie liberali.

Il 2023 non fa eccezione. Tanto più che il conflitto in Ucraina offre ai liberali il pretesto per tracciare un arbitrario segno di equivalenza tra Unione Sovietica socialista e Russia borghese putiniana, associando così esorcismi contro lo spettro comunista ad anatemi contro pericolosi concorrenti geopolitici.

Così, lo scorso gennaio, il polonista russo Stanislav Stremidlovskij ricordava come, quest’anno per la prima volta, Varsavia non avesse invitato l’ambasciatore russo Sergej Andreev alle iniziative in ricordo della liberazione di Auschwitz-Birkenau a opera dell’Esercito Rosso: lager in cui almeno un milione di ebrei erano stati sterminati dai nazisti e dai loro “Komplizen”.

Un tasto dolente, per Varsavia, quello della “esclusività”, o meno, delle SS nell’annientamento degli ebrei polacchi, tanto da proibire per legge qualsiasi affermazione contraria alle tesi ufficiali e intentare processi internazionali contro chiunque osi presentare circostanze diverse, come ad esempio gli autori di Night without End: The Fate of Jews in German-Occupied Poland”, Jan Grabowski e Barbara Engelking.

Il pretesto formale per la decisione polacca del gennaio scorso erano state, ovviamente, le operazioni militari in Ucraina. In realtà, la questione si inquadra ormai da anni nel tentativo dell’Occidente e, in particolare, di alcuni “alleati” est-europei, di minimizzare il contributo determinante dell’URSS alla sconfitta delle armate hitleriane e dei loro satelliti.

Nell’operazione di Varsavia, che si erge oggi a “leader” della coalizione anti-russa, rientrano dunque anche le aperte carognate legate alle cerimonie in ricordo dell’Olocausto: ma, a senso unico.

Di tanto in tanto, infatti, Varsavia ricorda ai nazi-golpisti di Kiev che nessuno di loro, tantomeno Vladimir Zelenskij, si sia ancora scusato per i massacri della popolazione civile polacca in Volynia a opera dei banderisti filo-nazisti di OUN-UPA.

Lo ha ricordato ancora, lo scorso 20 maggio, il portavoce del Ministero degli esteri polacco, Lukasz Jasina: «Noi, polacchi, come stato polacco, ci siamo assunti la responsabilità dei delitti compiuti dal nostro paese nei confronti degli ucraini. Manca tale responsabilità da parte dell’Ucraina, anche se molto è cambiato in meglio».

Il riferimento alle responsabilità polacche sembra legato alla polonizzazione forzata delle regioni occidentali ucraine tra il 1920 e il 1939 e molto meno all’autentica carneficina di prigionieri di guerra della Russia sovietica, fatti morire (le cifre variano da 80mila a 120mila) nei lager polacchi dopo la guerra russo-polacca del 1920.

In altre occasioni, però, come, per l’appunto, quella del 27 gennaio, i reazionari polacchi “dimenticano”, in nome della lotta contro il “nemico comune”, che allo sterminio di ebrei (e non solo) polacchi presero parte attiva anche quei terroristi innalzati oggi a “eroi nazionali” nell’Ucraina majdanista.

Addirittura, il presidente polacco Andrzej Duda, in occasione delle visite annuali al cimitero degli “Orleta Lwowskieche” (gli aquilotti di L’vov), in quella che Varsavia considera la “più polacca delle città” – L’vov, appunto – afferma sfacciatamente che lì sono sepolti «i difensori della Repubblica polacca, i difensori di L’vov dall’aggressione sovietica».

Questo nonostante la stessa storiografia polacca sostenga che in quel cimitero siano sepolti i giovani che nel 1918 combatterono contro gli allora nazionalisti della Rada ucraina, proprio per il riconoscimento di L’vov come città polacca.

Dunque, così come auspicato dalla cosiddetta risoluzione del 19 settembre 2019, il 25 maggio è festa “degli eroi nella lotta al totalitarismo”, nell’anniversario dell’esecuzione di “Witold Pilecki, eroe di Auschwitz”, fucilato in Polonia nel 1948 per spionaggio a favore del governo emigrato del generale Anders e per tutta una serie di delitti contro la Repubblica popolare polacca: uno «stato fantoccio comunista, dietro la cortina di ferro. Ma Pilecki rimase fedele alle idee della Polonia libera e continuò a inviare informazioni ai servizi segreti britannici», recitava una nota del Washington Post del gennaio 2020.

Se al processo del 1947 il rotmistr Pilecki era stato accusato di aver creato una rete di intelligence filo-britannica, di aver organizzato attentati contro funzionari statali, di ricevere sovvenzioni da un governo straniero, di possesso illegale di armi da fuoco ecc., (tutte accuse riconosciute da Pilecki, affermando che stava adempiendo al suo dovere militare al servizio del governo da lui riconosciuto) il suo passato eroico quale sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz dovevano ben motivare nel 1990, la sua elezione a “eroe polacco” della “nuova” Polonia che si rifà alla dittatura di Jozef Pilsudski.

La versione ufficiale recita che Pilecki, membro della clandestinità antifascista, nel 1940 si consegnò volontariamente ai tedeschi, per essere rinchiuso a Auschwitz e raccogliere informazioni sui crimini nazisti, per poi fuggire nel 1943. Nel 1944 prese parte alla rivolta di Varsavia. Catturato di nuovo, fu infine liberato dagli anglo-americani.

Pilecki era nato nel 1901 a Olonets, in Carelia, dove la sua famiglia era stata esiliata dopo la rivolta polacca del 1863. Sin da giovane entrò a far parte di un’organizzazione nazionalista, tra il 1918 e il 1920 prese parte, in Lituania e Polonia, alla guerra civile e si trasferì quindi in Polonia, da dove si distinse nell’aggressione polacca alla giovane Russia sovietica.

Nel 1939, fu arruolato nell’esercito e quando il governo polacco fuggì a Londra, si nascose, per poi, su ordine dei comandi, farsi rinchiudere a Auschwitz e qui raccogliere le informazioni con cui il governo in esilio mise a punto il primo rapporto ufficiale sul genocidio degli ebrei.

Nella storiografia in lingua russa, ci si continua però a chiedere come Pilecki sia riuscito a sopravvivere tre anni in un campo di sterminio in cui la vita media dei prigionieri era di alcuni mesi. E non soltanto sopravvivere, ma, per tre anni, trasmettere informazioni con una trasmittente assemblata dai prigionieri “all’insaputa” dei tedeschi.

La cosa è quantomeno strana, al pari della fuga da Auschwitz nel 1943 e di altri dettagli della sua biografia. Tralasciando il fatto che la sorte degli ebrei a Auschwitz era nota già prima delle trasmissioni di Pilecki, attraverso l’ufficiale dell’intelligence polacca Jan Karski, si legge che, dopo la fuga dal campo, Pilecki entrò nell’organizzazione anticomunista “Nie”, nei ranghi dell’Armia Krajowa (AK), impegnata più nella resistenza all’avanzata delle forze sovietiche, che non in quella contro i tedeschi.

Nel 1945 tornò in Polonia, per raccogliere informazioni, questa volta per i servizi segreti occidentali e organizzare distaccamenti “partigiani” nella Polonia orientale, finché non fu arrestato nel 1947.

Dunque, notano su Colonel Cassad, pare che la combinazione dell’episodio di Auschwitz e la fucilazione in epoca “stalinista” costituiscano il lato “eroico” della biografia di Pilecki, promosso a “uno dei più grandi eroi della seconda guerra mondiale“. Il che è offensivo per la memoria di veri eroi che, nella lotta contro il nazifascismo, furono torturati, impiccati, fucilati dagli hitleriani.

E chiude anche, aggiungiamo, il “circuito totalitario” per cui “l’eroe” riesce miracolosamente a sopravvivere alle camere a gas tedesche che, a quanto pare, per qualcuno non erano così mortifere, per poi cadere vittima di un regime che, quello sì, era davvero “spietato”, “sanguinario”, in quanto «stato fantoccio comunista».

Così, sembra che Varsavia, di fronte alla comunità mondiale, avesse bisogno della figura di un nazionalista polacco, che in qualche modo avesse aiutato degli ebrei: sulla questione, ci sono infatti «grossi problemi in vaste aree dell’Europa orientale, dove i valori nazionali e liberali si erano spesso armoniosamente combinati con uno zelante lavoro al servizio dei Sonderkommand», proprio nello sterminio di ebrei, soldati sovietici prigionieri, minoranze nazionali, ecc.

Tra l’altro, in un servizio di Katarzyna Markusz sulla Jewish Telegraphic Agency, si parla diffusamente della collaborazione coi nazisti da parte di membri della resistenza polacca e del capitano Witold Pilecki a Auschwitz.

Scrive ad esempio la Markusz che a «Auschwitz, Pilecki si rifiutò di aiutare prigionieri ebrei, lavorando invece a fianco del medico collaborazionista Vladislav Dering (fatti menzionati dallo storico Michal Wujczyk in “Rivolte dimenticate nei campi di sterminio: Treblinka, Sobibor, Auschwitz-Birkenau”) che, su ordine delle SS, castrò 80 prigionieri, alcuni dei quali morirono. Pilecki sapeva dei crimini di Dering, ma non interferì. Il salvataggio degli ebrei a Auschwitz non rientrava nei suoi piani, né in quelli dei comandi dell’Armia Krajowa».

Ancora: sapendo da Pilecki che centinaia di migliaia di ebrei venivano rinchiusi nel campo, l’AK non intraprese alcuna azione di rilievo per salvarli. Anzi: «Alcuni membri della cellula di Pilecki uccidevano altri prigionieri. Se un qualsiasi prigioniero collaborazionista aiutava i polacchi, Pilecki non era turbato dai suoi crimini contro gli ebrei».

Varsavia tiene a far sapere che 7.000 polacchi sono riconosciuti da Israele “Giusti tra le nazioni”, più dei rappresentanti di altre nazioni, ed è la verità; ma c’è il rovescio della medaglia: furono i polacchi a fornire la più attiva collaborazione ai nazisti nei rastrellamenti e nelle esecuzioni di ebrei. Dei 6 milioni di cittadini polacchi morti durante gli anni dell’occupazione, il 50% erano ebrei polacchi.

Membri dell’AK, ormai clandestina, continuarono a uccidere ebrei in Polonia anche dopo il 1945. Indicative sono le ricerche, ad esempio, di Jan Gross, storico americano di origine polacca, che nel 2001 pubblicò “Neighbors: The Destruction of the Jewish Community in Jedwabne, Poland”, cui nel 2006 fece seguire “Fear: Anti-Semitism in Poland After Auschwitz“; oppure l’opera pubblicata nel 2013 dal già ricordato Jan Grabowski “Caccia agli ebrei: tradimenti e omicidi nella Polonia occupata dai tedeschi“.

In conclusione: al pari delle “guerre umanitarie”, delle “armi per la pace”, della “lotta di una democrazia contro una dittatura”, anche alcuni “eroi” dell’universo euro-atlantista tornano utili alla crociata della “libertà” nel servire sempre e ovunque gli interessi dell’“impero del bene”.

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