Come ogni anno, la Commissione europea ha pubblicato le sue Raccomandazioni specifiche per Paese. Si tratta, come il nome stesso rivela, di particolari indicazioni e suggerimenti che la Commissione elargisce ai Paesi membri dell’Unione Europea in merito alle politiche nazionali di bilancio. Tutto ciò avviene nell’ambito del cosiddetto Semestre europeo, il meccanismo tramite il quale le istituzioni europee coordinano le politiche di bilancio dei vari Paesi membri e si accertano che esse siano in linea con gli obiettivi prefissati a Bruxelles.
Come abbiamo più volte fatto notare in passato, tali Raccomandazioni – e in particolare quelle rivolte all’Italia – sono sempre storicamente caratterizzate per l’assoluta monotonia, ripetitività e insistenza su un unico tema: stando a queste indicazioni, il debito pubblico italiano sarebbe troppo alto e rappresenterebbe una minaccia fondamentale per la stabilità economica e finanziaria, nostra e dell’Europa tutta. Ecco, quindi, che la ricetta non può che essere quella di ridurlo, introducendo politiche di austerità (leggasi, tagliando la spesa). Tra le sforbiciate da mettere in campo, assistiamo ad una particolare ossessione per la spesa pensionistica, da comprimere sempre di più nonostante decenni di controriforme abbiano condotto all’impoverimento graduale di centinaia di migliaia di pensionati e all’innalzamento continuo dell’età pensionabile.
L’ultimo capitolo di questa saga è datato 24 maggio 2023, con l’uscita delle ultime raccomandazioni. Incredibile a dirsi, non è cambiato praticamente nulla rispetto a quanto ci è stato detto negli scorsi anni (spoiler alert: non è così vero, come cercheremo di spiegare verso la fine di questo articolo). Ma andiamo con ordine. Secondo le parole della Commissione, l’Italia “presenta squilibri macroeconomici eccessivi…(e) persistono vulnerabilità connesse all’elevato debito pubblico”. Per scoprire cosa bisogna fare per far fronte a questa sfida è sufficiente andare poco avanti nella lettura. La ricetta è, non sorprendentemente, “politiche di bilancio prudenti, con avanzi primari adeguati”. Che tradotto in parole semplici significa implementare misure di austerità, ossia perseverare in una politica fiscale caratterizzata da uno Stato che sottrae all’economia – tramite tasse e tagli – più di quanto apporta attraverso la spesa pubblica. D’altronde, si tratta esattamente dell’orientamento che tutti i Governi che si sono succeduti negli ultimi trenta anni hanno seguito, senza distinzione di colore politico (con l’eccezione temporanea degli ultimi anni emergenziali caratterizzati da pandemia e guerra). Come detto in apertura, non può ovviamente mancare il riferimento alla necessità di “ulteriori iniziative politiche nel settore dei sistemi pensionistici”, per non smentire l’odio verso chi cerca di condurre una vita dignitosa dopo il termine della vita lavorativa. Né manca l’ennesimo invito ad un aumento dell’IVA, con le note conseguenze regressive che questo comporterebbe.
Le Raccomandazioni per l’Italia contengono ulteriori aspetti interessanti. Ad esempio, si evince in maniera lampante l’uso politico e strumentale che viene fatto degli investimenti pubblici, come vettore per imporre tagli. Il ragionamento proposto è paradigmatico perché presenta in maniera concreta cosa vuol dire il concetto di ‘scarsità’, uno dei princìpi cardine intorno a cui ruota la teoria economica dominante. Le Raccomandazioni si sperticano in lodi degli investimenti pubblici (e ci mancherebbe altro, visto che si tratta di un importante motore di crescita). Il problema è che gli investimenti pubblici sono, per lo Stato, una voce di spesa, e l’unica maniera di spendere un euro in più da una parte – all’interno del dogma del pareggio di bilancio – è di spenderne uno in meno da un’altra. Eccolo, il mito della scarsità delle risorse all’opera, con la conseguenza che se da un lato la Commissione chiede più investimenti pubblici, dall’altro e proprio in virtù di ciò richiede tagli alla spesa pubblica corrente, cioè tagli ai salari dei dipendenti pubblici, alle pensioni, ai sussidi e ai trasferimenti alle famiglie.
Un altro concetto che, secondo la migliore tradizione della mistificazione di concetti apparentemente neutri, viene brandito a discapito degli interessi della maggioranza della popolazione è quello di ‘produttività’, altro problema atavico che – ci dice la Commissione – piaga l’economia italiana e che va affrontato a suon di riforme del mercato del lavoro, cioè di maggiore precarietà e minori diritti per lavoratori e lavoratrici.
Il documento di cui ci stiamo occupando svela anche alcune cose forse ovvie per chi si fosse dato la briga di andare a guardare al di là della propaganda, ma che cozzano con la grancassa mediatica: la spesa pubblica finanziata tramite i contributi a fondo perduto del programma Next Generation EU ammonta allo 0,9% del PIL nel 2022, e sarà pari all’1,4% nel 2023: si tratta, in buona sostanza, di una piccola goccia nel mare della recessione in cui siamo intrappolati. Risulta illuminante anche il passaggio in cui la Commissione spiega perché i sussidi che tutti i Governi europei hanno elargito a famiglie e imprese per provare a contrastare gli effetti più estremi del caro energia vadano smantellati al più presto: questi aiuti, nonostante abbiano tutelato famiglie e imprese vulnerabili, “non preservano appieno il segnale di prezzo necessario per ridurre la domanda”. Anche qui, detto in parole semplici: secondo la Commissione europea, la maniera giusta per fare fronte al caro energia – e quindi al caro bollette, benzina, riscaldamento, etc. – è tenere la luce meno accesa, non attivare i riscaldamenti e andare a lavorare a piedi, in maniera tale che le conseguenze della follia bellicista siano pagate e sofferte interamente dal singolo individuo. Non a caso, a marzo scorso il Governo Meloni ha già chiuso i rubinetti sul fronte degli aiuti all’economia per il contrasto al caro bollette.
Le Raccomandazioni si lasciano anche andare ad una minaccia neanche troppo velata, allorquando ricordano che la Commissione, ancora nella primavera 2023, ha deciso di non avviare procedure (tradotto, di non presentare il conto attraverso sanzioni) contro quei Paesi che presentassero disavanzi di bilancio eccessivi. La pacchia, tuttavia, è finita. La Commissione, infatti, “proporrà al Consiglio di avviare, nella primavera del 2024, procedure per i disavanzi eccessivi basate sul disavanzo in base ai dati di consuntivo per il 2023. L’Italia dovrebbe tenerne conto nell’esecuzione del bilancio 2023 e nella preparazione del documento programmatico di bilancio 2024”. Il ritorno del Patto di Stabilità e Crescita è alle porte, e non saranno più concessi gli sgarri degli anni della pandemia da Covid-19. Come si può leggere nel documento relativo alle raccomandazioni specifiche per l’Italia, sarebbe in particolare necessario un aggiustamento di bilancio, come minimo, dello 0,7% del PIL, cioè poco meno di 15 miliardi di euro. Si tratta di miliardi da reperire principalmente e tramite i tagli della spesa pubblica netta primaria finanziata a livello nazionale (il nuovo parametro stabilito dalla recente riforma del Patto di Stabilità e Crescita su cui i governi dovranno agire per imporre l’austerità).
Fino a qui, niente altro che l’ennesima riproposizione delle ricette che hanno condannato l’Italia, e non solo l’Italia, a stagnazione, salari al palo e disoccupazione, da ben prima della pandemia e della guerra. Niente di nuovo, quindi, sotto il sole? Non del tutto, perché la Commissione sembra aver trovato finalmente nel Governo Meloni il complice e sodale perfetto. Dopo aver notato, infatti, che fino ad ora l’Italia ha “tenuto sufficientemente sotto controllo la crescita della spesa corrente finanziata a livello nazionale”, le Raccomandazioni offrono un’ultima gemma. Per tenere a bada i conti pubblici, la Commissione calcola che la spesa primaria netta (cioè la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito pubblico) dovrebbe avere nel 2024 un aumento massimo, in termini nominali, dell’1,3%. È cruciale notare che, vista l’inflazione attesa per il 2024 (3% stando alle stime Eurostat), un tale aumento in termini nominali (euro spesi) corrisponde a una diminuzione in termini reali (beni e servizi che vengono erogati dallo Stato) dell’1,7%. Questo poiché se gli euro spesi crescono meno di quanto crescono i prezzi, il quantitativo di beni e servizi acquistati dallo Stato diminuisce. La solita, vecchia austerità di matrice europea, come dicevamo. Ma qui viene la sorpresa. Proseguendo nella lettura, si scopre infatti che: “le previsioni di primavera 2023 della Commissione prospettano una crescita della spesa primaria netta finanziata a livello nazionale pari allo 0,8 % nel 2024, ossia al di sotto del tasso di crescita raccomandato”. Più realista del re, più dedito ai tagli di chi i tagli li ha inventati e istituzionalizzati, il Governo Meloni si porta avanti con il lavoro e si fa interprete e portatore di austerità – cioè di miseria, tagli alla sanità pubblica e all’istruzione e così via – in misura ancora maggiore di quanto richiesto dalla Commissione.
Tutto ciò accade mentre la premier Meloni dichiara che il Governo si appresta a spendere miliardi per la ricostruzione in Emilia-Romagna. Specifica, tuttavia, che le coperture economiche saranno trovate qua e là nelle pieghe del bilancio (ossia, tagliando altre voci di spesa). Al di fuori della retorica messa ogni giorno in campo dai rappresentati del Governo, questi numeri certificano, qualora ce ne fosse ancora bisogno, lo spirito antipopolare del Governo Meloni. Oltre ai continui attacchi al mondo del lavoro, l’esecutivo Meloni si mostra ancora più austero del già rigorosissimo governo Draghi. Promettere più austerità di quanta ne prescrivano le istituzioni europee significa perpetrare politiche di massacro sociale e attacco alle fasce più deboli, continuando nel preciso progetto politico di smantellamento dello stato sociale. Solo una lotta senza campo a questo esecutivo potrà arginare questo sfacelo.
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