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23/05/2023

Il governo Meloni coglie il momento per sganciarsi dalla via della seta

De-risking Ue divisa sulla strategia sulla Cina. Il governo alle prese con la patata bollente del memorandum siglato da Conte. La bozza di Borrell non convince i 27 paesi membri dell’Unione.

Riaffermare l’immagine di “potenza responsabile”, nonostante la quasi-alleanza con la Russia di Putin, e convincere l’Unione Europea a non seguire gli Stati Uniti nel loro contenimento della Cina.

È questo l’obiettivo dell’offensiva diplomatica che la Cina di Xi Jinping ha intrapreso da quando, alla fine del 2022, ha rimosso le ultime restrizioni anti-Covid. Il dialogo è stato riavviato anche con gli Stati Uniti.

Mercoledì e giovedì della settimana scorsa, il responsabile della politica estera del partito comunista, Wang Yi, ha incontrato a Vienna per oltre dieci ore il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan.

Pechino non può più contare sulla simpatia interessata da parte dei paesi occidentali di cui ha goduto in passato, e ora deve limitare i danni che potrà infliggerle il cosiddetto “de-risking”, ovvero la riduzione della dipendenza dalla Cina da parte delle economie avanzate, in agenda sia nell’Ue sia negli Usa.

L’addio soft di Meloni alla via della Seta: perché Pechino potrebbe non lanciare alcuna “rappresaglia” contro l’Italia al vertice di Hiroshima (19-21 maggio)

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si presenterà come il capo di governo dell’unico paese del G7 che sostiene ufficialmente la Belt and Road Initiative lanciata nel 2013 dal presidente cinese Xi Jinping.

Durante la campagna elettorale per le politiche del 25 settembre scorso, Meloni aveva definito “un grosso errore” il memorandum d’intesa sulla nuova via della Seta sottoscritto con Pechino dal governo Conte I nel marzo 2019. Otto mesi dopo le elezioni che l’hanno portata a Palazzo Chigi, deve confrontarsi con le continue iniziative “anti-Pechino” dell’alleato statunitense, che al G7 ha proposto misure contro la “coercizione economica” della Cina.

In questo quadro, un addio al memorandum è più che probabile. Sulla vicenda è stato imposto il più stretto riserbo, ma alcune dichiarazioni degli ultimi giorni da parte di membri di spicco del governo confermano che l’orientamento è per un “superamento” di quel documento che – lo ricordiamo – non è un trattato internazionale.

Il ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti, il 15 maggio scorso ha dichiarato al TG1 che «una valutazione strategica di questo tipo si impone», mentre quello degli esteri, Antonio Tajani, lo stesso giorno ha confermato al Messaggero che «stiamo riflettendo se rinnovare il memorandum», aggiungendo che «la Cina è un nostro competitor. Vogliamo buoni rapporti ma le regole devono essere uguali per tutti». Soprattutto – secondo Bloomberg – qualche giorno fa Meloni avrebbe confermato allo speaker della camera Usa, Kevin McCarthy, che intende notificare al governo cinese entro la fine dell’anno la decisione di non rinnovare il memorandum, che scadrebbe nel marzo 2024.

Per il governo Meloni si tratta di un’operazione delicata, che andrà portata avanti con cautela, per non contrariare il decimo partner commerciale dell’Italia, destinatario nel 2022 del 2,6% del suo export, per un valore di 17,3 miliardi di dollari. Non si tratta dunque di “stracciare” il memorandum, ma di “superarlo” e, nello stesso tempo, di spiegare la decisione alla controparte, mantenendo informato il nuovo ambasciatore a Roma, Jia Guide.

Per Meloni potrebbe non ripresentarsi una finestra di opportunità migliore di quella attuale per intestarsi un’operazione gradita a Washington. Criticata nell’Unione Europea su più fronti (dai ritardi nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, alla gestione degli sbarchi di migranti), la presidente del Consiglio ha bisogno più che mai degli Usa, essenziali per il riconoscimento da parte dell’establishment internazionale dei suoi Fratelli d’Italia.

L’occasione per notificare alla controparte cinese che l’Italia intende uscire dal memorandum è doppiamente irripetibile, perché, particolarmente in questa fase, è improbabile che Pechino reagisca alla mossa di Roma con una rappresaglia, ad esempio un boicottaggio di prodotti italiani d’importazione.

Infatti, non soltanto a Pechino sono consapevoli che per i governi italiani è tradizionalmente difficile resistere alle pressioni degli Stati Uniti, e che ciò vale ancor di più per l’esecutivo attuale. Ma, soprattutto, negli ultimi mesi, la Cina ha concentrato proprio sull’Europa la sua “charm offensive”, nel tentativo di rilanciare i rapporti che si sono notevolmente raffreddati durante la pandemia.

Quindi per la Cina questo non è affatto il momento per uno scontro con la terza economia continentale. Soprattutto se – come da ipotesi che circola insistentemente – Meloni cancellerà il memorandum, ma siglerà contestualmente una nuova intesa commerciale che, nella sostanza, ribadisca l’interesse ai rapporti (commerciali in primis) con la Cina.

Fine del sostegno ufficiale dell’Italia alla principale iniziativa di politica estera di Xi Jinping, ma avanti con scambi e investimenti, seppur in un nuovo quadro. Una soluzione di compromesso che metterebbe tutti d’accordo: Meloni, che accontenterebbe Washington; gli Stati Uniti, che sarebbero rassicurati sul fatto che l’attuale governo, sostenuto da partiti con esponenti filo-russi, sulla Cina agisce in continuità con Mario Draghi; la Cina, che vedrebbe comunque confermato da un nuovo documento ufficiale (è questa l’ipotesi che circola) l’interesse per le relazioni con Pechino da parte della seconda manifattura e terza economia europea.

Se l’addio al vecchio memorandum fosse in seguito bilanciato da un viaggio di Meloni in Cina, per Pechino sarebbe ancora meglio. Detto ciò è chiaro che il relativo disimpegno dalla Cina favorito da Meloni – in contrasto con l’attivismo della Germania di Olaf Scholz e della Francia di Emmanuel Macron, che nelle ultime settimane hanno affermato chiaramente di voler mantenere le loro relazioni bilaterali con Pechino al riparo dall’influenza statunitense – non favorirà lo sviluppo dei rapporti tra Italia e Cina.

Se è vero, come è vero, che il memorandum non è un accordo vincolante e che non ha avuto alcun impatto sulle relazioni Italia-Cina, anche una sua “cancellazione” non potrà incentivarli, perché rivelerà la volontà di rimarcare uno schieramento di campo politico in una fase nella quale la Cina vede come fumo negli occhi la possibilità che si formino blocchi da Guerra fredda.

Una strategia più dura verso la Cina?

Accordo difficile nell’UE, nonostante le pressioni della Commissione, secondo la quale è necessario ricalibrare la politica dell’Unione Europea sulla Cina. Per questo i ministri degli esteri dell’Ue si sono incontrati a Stoccolma per preparare il terreno della discussione sulla Cina che il Consiglio europeo affronterà nella riunione del 29-30 giugno.

Josep Borrell ha fatto pervenire una bozza giovedì 11 maggio, la sera precedente l’incontro informale con i 27 stati membri, che, secondo l’alto alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, «hanno gradito il documento che abbiamo presentato» e «le linee fondamentali di questa ri-calibratura della nostra strategia sulla Cina».

Per l’esecutivo dell’Ue che Borrell rappresenta questa ri-calibratura è necessaria, in seguito ai «recenti sviluppi interni alla Cina e alle traiettorie di politica estera» per tre motivi fondamentali: la distanza sui valori tra Cina e Ue; la sicurezza economica dell’Unione; la sicurezza strategica dell’Europa a 27. Secondo Borrell l’Ue “deve fare i conti” col fatto che «abbiamo un sistema politico diverso. Comprendiamo in modo diverso cosa [sono] i diritti umani – diritti umani individuali e collettivi. Noi abbiamo sistemi politici multipartitici e un’economia di libero mercato».

In secondo luogo la strategia del cosiddetto “de-risking” si giustifica perché «abbiamo un problema sulla sicurezza economica. Le nostre relazioni commerciali sono molto sbilanciate. Devono essere equilibrate e le dipendenze devono essere evitate». Infine ci sono le questioni di sicurezza strategica.

Su queste ultime Borrell ha spiegato: su Taiwan, niente di nuovo. La nostra posizione rimane coerente con la “politica di una sola Cina”. Vogliamo impegnarci con la Cina e con gli Stati Uniti per mantenere lo status quo e allentare le tensioni nello Stretto di Taiwan, così importante per il commercio mondiale e, in particolare, per noi. E sull’Ucraina, le relazioni Unione Europea-Cina non si svilupperanno normalmente se la Cina non spingerà la Russia a ritirarsi dall’Ucraina. Chiediamo alla Cina, in qualità di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di influenzare la Russia per fermare questa guerra e di svolgere un ruolo costruttivo per raggiungere una pace giusta per l’Ucraina.

Lo stesso giorno della riunione europea a Stoccolma, Qin Gang ha risposto proponendo, da Oslo, “tre princìpi per le relazioni Cina-Unione Europea”: adesione a una visione globale inclusiva; valutazione del progresso della storia; cooperazione reciprocamente vantaggiosa.

Al di là degli slogan, il ministro degli esteri ha spiegato che Pechino si aspetta che Cina e Unione Europea rispettino i diversi percorsi di sviluppo scelti dai loro popoli (ovvero che l’Ue non critichi il sistema cinese guidato dal partito comunista) e che entrambi i blocchi si oppongano alla separazione delle filiere produttive e che mantengano la «corretta direzione della globalizzazione, rafforzando il coordinamento macroeconomico, la cooperazione e la stabilità delle catene di fornitura industriali globali».

Prima di concludere il suo tour europeo a Oslo, Qin è stato in visita ufficiale in Germania e Francia, i principali partner della Cina nell’Ue. Pechino sta conducendo un’intensa azione di lobbying contro il cosiddetto de-risking, nel tentativo almeno di limitarne la portata. Gli argomenti – in favore del libero commercio e dello sviluppo economico – con i quali Pechino sta facendo campagna in Europa contro il “de-risking” sono riassunti in questo articolo dell’agenzia Xinhua, che esprime la posizione ufficiale del governo cinese.

Nell’attesa di vedere se/come Bruxelles ricalibrerà la politica Ue sulla Cina, il governo tedesco ha dato il via libera definitivo (nonostante i mal di pancia di verdi e liberali, partner di coalizione dei socialdemocratici del cancelliere Olaf Scholz) all’acquisizione da parte della cinese COSCO della maggioranza (il 24,99%) delle azioni del terminal merci “Tollerort” deplorato di Amburgo, il maggior scalo commerciale dell’Ue.

Non sarà facile per la Commissione guidata da Ursula von der Leyen far passare una linea più dura nei confronti della Cina, tra l’altro nel momento in cui il tentativo di mediazione tra russi e ucraini guidato dall’inviato speciale di Xi Jinping, Li Hui, potrebbe dare i primi frutti in direzione di un possibile cessate il fuoco in estate. I 27 (anche) sulla Cina sono divisi.

Si va dai paesi baltici, “falchi anti-Cina” guidati dalla Lituania, all’Ungheria che è il paese più vicino (anche politicamente) alla Cina, a chi – Germania e Francia in primis – negli ultimi mesi ha fatto capire chiaramente che intende continuare a scommettere sulle relazioni economiche bilaterali con la Cina. Posizioni difficilmente conciliabili nell’elaborazione di una nuova strategia comune.

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