Nell'ambito del lavoro sui «decenni smarriti» che stiamo portando avanti, pubblichiamo questo significativo articolo di Paolo Virno, originariamente pubblicato il 3 marzo 1988 su «il Manifesto» e che oggi è possibile leggere in Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione (DeriveApprodi, 2023), che poi sarà sviluppato nel testo «Ambivalenza del disincanto» contenuto in Sentimenti dell'aldiqua. Opportunismo paura cinismo nell'età del disincanto, di cui uscirà a breve una nuova edizione per DeriveApprodi. Intorno a questo libro si articolerà il Festival di DeriveApprodi, che si terrà a Bologna il 9-10-11 giugno.
Lo pubblichiamo su «Transuenze» perché è un testo capace di riassumere bene le trasformazioni nella produzione, nel lavoro e nelle soggettività che si sono determinate negli anni Ottanta.
Per Virno la formazione di soggettività si compie ormai per l'essenziale fuori dal lavoro. Dunque, nell'analizzare la situazione emotiva e il suo rapporto sempre più stretto con le nuove forme di vita, del lavoro e della produzione individua tre sentimenti prevalenti in quegli anni (l'opportunismo, la paura e il cinismo) che combaciano con la versatilità e la flessibilità delle moderne tecnologie elettroniche e che dunque, entrano in produzione.
Inoltre, se è vero che in questa costellazione sentimentale non c'è nulla di buono, essa rappresenta il dato di fatto irreversibile da cui pensare le nuove istanze di trasformazione.
Lo pubblichiamo su «Transuenze» perché è un testo capace di riassumere bene le trasformazioni nella produzione, nel lavoro e nelle soggettività che si sono determinate negli anni Ottanta.
Per Virno la formazione di soggettività si compie ormai per l'essenziale fuori dal lavoro. Dunque, nell'analizzare la situazione emotiva e il suo rapporto sempre più stretto con le nuove forme di vita, del lavoro e della produzione individua tre sentimenti prevalenti in quegli anni (l'opportunismo, la paura e il cinismo) che combaciano con la versatilità e la flessibilità delle moderne tecnologie elettroniche e che dunque, entrano in produzione.
Inoltre, se è vero che in questa costellazione sentimentale non c'è nulla di buono, essa rappresenta il dato di fatto irreversibile da cui pensare le nuove istanze di trasformazione.
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Una disamina della situazione emotiva degli anni Ottanta non è svagata peripezia letteraria, né pausa ricreativa posta a mezzo di ricerche ben altrimenti rigorose. Tutt’al contrario, questo approccio ha di mira questioni preminenti e concretissime: rapporti di produzione e forme di vita, acquiescenza e conflitto. È un «prologo in terra» sordo a ogni stormire angelico, inteso a regolare i conti con il decennio in corso, con il senso comune e l’ethos che ne sono scaturiti, con le categorie prevalse nella sua autocomprensione.
Parlando di situazione emotiva si fa riferimento a quei modi di essere e di sentire così pervasivi, da risultare comuni tanto al tempo di lavoro che al tempo della vita. Oltre a mettere a fuoco l’ubiquità delle loro manifestazioni, di tali modi di essere e di sentire occorre poi cogliere anche l’ambivalenza, in essi scorgendo un «grado zero» o un nocciolo neutro, da cui possono scaturire sia l’ilare rassegnazione, l’abiura inesausta e l’integrazione sociale, sia inedite istanze di trasformazione radicale dell’esistente. Ma prima di risalire verso questo nucleo essenziale e ambivalente, conviene soffermarsi sulle espressioni effettive della situazione emotiva negli anni seguiti al collasso dei movimenti di lotta. Espressioni assai dure e sgradevoli, si sa.
Si tratta di afferrare l’immediata coincidenza tra produzione ed eticità, struttura e sovrastruttura, rivoluzionamento del processo lavorativo e sentimenti, tecnologie e tonalità emotive, sviluppo materiale e cultura. Tenendosi al di qua di tale fitta commistione, fatalmente si rinnova la scissione metafisica tra «sotto» e «sopra», animale e razionale, corpi e anime: e poco conta se, nel fare ciò, si mena vanto del proprio preteso materialismo storico. Ma soprattutto, tralasciando di rilevare i punti di identità tra prassi lavorativa e stili di vita, nulla si comprende dell’odierna produzione innovata, e molto si equivoca a proposito delle forme culturali correnti. È lo stesso processo produttivo post-taylorista che ostenta direttamente, sotto il segno di un dominio intensificato, la commessura tra i suoi moduli operativi e i sentimenti del disincanto.
Opportunismo, paura, cinismo, balenanti nel proclama postmoderno sulla fine della storia, entrano in produzione, ovvero ben combaciano con la versatilità e la flessibilità delle tecnologie elettroniche.
Quali sono i principali requisiti richiesti ai lavoratori dipendenti, oggi? Le ricognizioni empiriche concordano nella risposta: l’abitudine alla mobilità, la capacità di restare al passo con le più brusche riconversioni, prontezza nell’adattarsi sposata a qualche intraprendenza, la duttilità nel trascorrere dall’uno all’altro gruppo di regole, l’attitudine a una interazione linguistica tanto banalizzata quanto onnilaterale, la padronanza di flussi di informazione, la consuetudine a destreggiarsi tra possibilità alternative.
Ora, siffatti requisiti non sono il frutto del disciplinamento industriale, quanto piuttosto il risultato di una socializzazione che ha il suo baricentro fuori del lavoro, scandita da esperienze frammentarie, dalle mode, dalla ricezione dei media, dall’indecifrabile ars combinatoria che nelle metropoli intreccia sequenze di fuggevoli occasioni. Di recente è stato sobriamente ipotizzato (Aris Accornero e Fabrizio Carmignani, I paradossi della disoccupazione, Il Mulino) che la professionalità effettivamente richiesta e offerta consista infine nelle doti che si acquisiscono durante una prolungata permanenza in uno stadio pre-lavorativo o precario. La resistenza a piegarsi a un ruolo definito, tipica dei movimenti giovanili dei decenni trascorsi, diventa il contrassegno saliente della professionalità del lavoro vivo. Cercando lavoro, vengono sviluppati quei talenti genericamente sociali e quell’abitudine a non contrarre durevoli abitudini, che fungeranno poi, una volta trovato impiego, da veri e propri «ferri del mestiere».
Si ha qui un duplice passaggio. Per un verso, il processo di socializzazione, ossia l’intessersi della rete di relazioni mediante cui si fa esperienza del mondo e di sè, appare indipendente dalla produzione diretta, dai riti di iniziazione della fabbrica e dell’ufficio. Ma, per altro verso, l’innovazione continuativa dell’organizzazione del lavoro sussume l’insieme di propensioni, attitudini, sentimenti, vizi e virtù, maturati per l’appunto nella socializzazione extralavorativa. La permanente mutevolezza delle forme di vita fa il proprio ingresso nel «mansionario». L’assuefazione al cambiamento ininterrotto, i riflessi provati dalla catena di chocs percettivi, un forte senso della contingenza e dell’aleatorietà, una mentalità non deterministica, l’addestramento metropolitano a traversare quadrivi di differenti opportunità, tutto ciò assurge ad autentica forza produttiva. La ristrutturazione non lacera tradizioni consolidate e ripetitive (di Filemone e Bauci non c’è più traccia...), ma mette al lavoro gli stati d’animo e le inclinazioni generati dall’impossibilità di qualsivoglia verace tradizione. Le tecnologie dette avanzate non provocano uno spaesamento, tale da disperdere una pregressa familiarità, ma riducono a profilo professionale la stessa consuetudine con lo spaesamento più radicale.
Il mulinello dello sradicamento è stato variamente diagnosticato e descritto dalla grande filosofia di questo secolo. Ma, in essa, i tratti peculiari di una esperienza depauperata e ormai priva di solida struttura ossea si manifestano per lo più ai bordi della prassi produttiva, quasi intonando un controcanto scettico e corrosivo rispetto ai processi di razionalizzazione del processo lavorativo. Le tonalità emotive e le disposizioni etiche, che più rivelano la drastica mancanza di fondamento che affetta l’agire, fanno capolino dopo l’orario di lavoro, quando ci si riversa nelle strade. Compaiono come mero risvolto negativo, o segnale d’allarme. Si pensi al dandysmo e allo spleen di Baudelaire. O anche allo «spettatore distratto» di Benjamin, che affina, sì, la propria sensibilità per costruzioni spaziotemporali del tutto artificiali, ma, appunto, al cinema. Si ponga mente specialmente a due famose figure della «vita inautentica» secondo Heidegger: la chiacchiera e la curiosità.
La prima è un discorso infondato, incessantemente diffuso e ripetuto, che non trasmette più alcun contenuto reale, ma si impone come il vero evento degno di attenzione. La seconda, che rincorre il nuovo in quanto nuovo, è «puro e irrequieto vedere», incapacità di raccoglimento, agitazione senza fine e senza un fine. Bene, entrambe queste figure si affermano, secondo Heidegger, allorché si interrompe il serio e grave «prendersi cura» dello strumento e dell’oggetto di lavoro, quando viene meno un rapporto pragmatico e operativo con il mondo circostante. Ora, la novità cospicua di questi nostri anni sta nel fatto che i modi della «vita inautentica» e le stigmate dell’«esperienza povera» diventano autonomi e positivi modelli di produzione, mettendo le tende nel cuore medesimo della razionalizzazione. Il discorso infondato e la rincorsa del nuovo in quanto tale guadagnano la posizione in altorilievo di criteri operativi. Anziché manifestarsi dopo il lavoro, la chiacchiera e la curiosità si dotano di loro propri uffici.
La sussunzione nel processo produttivo del paesaggio culturale ed emotivo tipico di uno sradicamento senza rimedio si palesa in modo esemplare nell’opportunismo. Opportunista è colui che fronteggia un flusso di possibilità interscambiabili, tenendosi disponibile per il maggior numero di esse, piegandosi alla più prossima e poi deviando repentinamente dall’una all’altra. Questo stile di comportamento, che sigla la moralità degli intellettuali che scrivono su «la Repubblica», ha però anche un suo rilievo tecnico. Il possibile, con cui l’opportunista si misura, è quanto mai disincarnato: assume, sì, questa o quella veste particolare, ma per l’essenziale è una pura astrazione di occasioni. Non l’opportunità di qualcosa, bensì l’opportunità senza contenuto, simile a quella che si profila dinanzi a chi gioca d’azzardo.
Ma è proprio la sensibilità per le opportunità astratte a presentarsi come una qualità professionale in taluni modelli di attività post-taylorista, laddove il processo lavorativo non è regolato da un singolo scopo particolare, ma da una classe di possibilità equivalenti, da specificare volta per volta. La macchina informatica, anziché mezzo per un fine univoco, è premessa per successive e «opportunistiche» elaborazioni. L’opportunismo si fa valere come indispensabile risorsa ogni qual volta il concreto processo di lavoro è permeato da un diffuso «agire comunicativo», senza più identificarsi, dunque, con il solo «agire strumentale» muto. Mentre l’«astuzia» taciturna, con cui lo strumento meccanico profitta della causalità naturale, richiede uomini dal carattere lineare e sottomesso alla necessità, la «chiacchiera» informatica abbisogna di un «uomo di occasioni», prono a tutte le chances.
La fantasmagoria di astratte possibilità, in cui si aggira l’opportunista, è colorata dalla paura e secerne il cinismo. Infinite sono anche le chances negative e privative, le occasioni minacciose. La paura per pericoli determinati, sebbene soltanto virtuali, abita il tempo di lavoro come una tonalità ineliminabile. Anch’essa, peraltro, assurge a requisito operativo o speciale virtù di mestiere. Infatti, l’insicurezza circa la propria collocazione di fronte all’innovazione periodica, il timore di perdere prerogative appena conseguite, l’ansia di «non restare indietro», tutto ciò si traduce in flessibilità, duttilità, prontezza a riconvertirsi. A differenza di quanto avviene nella parabola hegeliana sulla relazione tra servo e signore, la paura non è più ciò che spinge alla sottomissione prima del lavoro, ma è componente attiva della stabile instabilità che contraddistingue tutte le interne articolazioni del processo produttivo.
Il cinismo, poi, è strettamente correlato a questa stabile instabilità.
Essa pone in piena vista, nel lavoro come nel tempo libero, le nude regole, che artificialmente strutturano gli ambiti di azione, così istituendo noveri di opportunità e sequenze di timori. Alla base del cinismo contemporaneo c’è che gli uomini e le donne fanno anzitutto esperienza di regole ben più che di stati di cose, ben prima che di eventi concreti. Ma fare diretta esperienza di regole significa anche riconoscere la loro convenzionalità e infondatezza.
Sicché non sì è più immersi in un «gioco» predefinito, partecipandovi con vera adesione, ma si intravede nei singoli «giochi», destituiti di ogni ovvietà e serietà, ormai solo il luogo dell’immediata affermazione di sé. Affermazione di sé tanto più brutale e arrogante, o insomma cinica, quanto più si serve, senza illusioni ma con perfetta aderenza momentanea, di quelle stesse regole di cui è stata percepita la convenzionalità e la mutevolezza.
L’attenzione qui prestata all’ethos di questi anni, agli stili di vita e ai sentimenti predominanti, vorrebbe cominciare a rendere conto di una socializzazione, e dunque di una formazione delle soggettività, che si compie per l’essenziale fuori del lavoro. Le sue modalità e inflessioni sono ciò che realmente unifica, oggi, l’insieme frastagliato del lavoro dipendente. Si è detto che i «vizi» e le «virtù» sviluppati in questa socializzazione extralavorativa sono poi anche messi al lavoro, cioè sussunti nel processo produttivo, ridotti a requisiti professionali: ma ciò vale, bisogna aggiungere ora, soltanto o principalmente nei punti in cui l’innovazione è andata fino in fondo. Altrove, tali «vizi» e «virtù» restano invece semplici connotati delle forme di vita e delle relazioni sociali in genere.
Diversamente dal taylorismo e dal fordismo, l’attuale riorganizzazione produttiva è di natura selettiva, si dispiega a macchie di leopardo, si affianca a moduli lavorativi tradizionali. L’impatto tecnologico, al suo acme, non è universalistico: più che determinare un univoco e trainante modo di produzione, esso mantiene in vita una miriade di modi di produzione differenziati, resuscitandone anzi di sorpassati e anacronistici. Il paradosso sta proprio qui: una innovazione particolarmente irruenta coinvolge soltanto alcuni segmenti della forza-lavoro sociale, costituendo una sorta di ombrello, sotto il quale si replica tutto il passato della storia del lavoro, da isole di operaio massa a enclaves di operaio professionale, da un rigonfiato lavoro autonomo fino a ripristinate forme di dominio personale.
I modi di produzione succedutisi nel lungo periodo si ripresentano sincronicamente, quasi alla stregua di una Esposizione Universale. Ma ciò esattamente a causa dell’innovazione informatico-telematica, che, se in proprio coinvolge solo una parte del lavoro vivo, rappresenta però lo sfondo e il presupposto di siffatta sincronia tra diversi modelli lavorativi. Allora, che cosa unisce il tecnico del software all’operaio di Arese e al lavoratore «sommerso»? Bisogna avere il coraggio di rispondere: più nulla, quanto ai modi e ai contenuti del processo produttivo. Ma anche: tutto, quanto ai modi e ai contenuti della socializzazione. Comuni sono, cioè, le tonalità emotive, i sentimenti, le inclinazioni. Solo che questo ethos omogeneo, mentre nei settori innovati è incluso in produzione e delinea profili professionali, per i lavoratori adibiti a settori tradizionali o arretrati innerva piuttosto il «mondo della vita». Per dirla con una battuta: il punto di sutura va ricercato fra l’opportunismo al lavoro e l’opportunismo universalmente sollecitato dall’esperienza metropolitana. Da tale angolo visuale, sottolineando cioè il tratto unitario della socializzazione sganciata dal processo produttivo, appare fuorviante la teoria della «società dei due terzi» (due terzi protetti e integrati, un terzo impoverito e marginale). Indulgendo a essa, il rischio è di limitarsi a ripetere con risentimento: «non tutto è rose e fiori». Oppure di condurre analisi segmentate e tra loro incomunicanti, ricalcando così quella topografia sociale a macchie di leopardo che invece bisogna spiegare.
A questo punto, occorre chiedersi: c’è qualcosa nella costellazione sentimentale del presente che manda segni di rifiuto e di conflitto? Insomma, c’è qualcosa di buono nell’opportunismo o nel cinismo? Ovviamente no, nessun equivoco deve sussistere al proposito. Tuttavia, queste figure incresciose e talvolta orride rendono testimonianza indiretta sulla fondamentale situazione emotiva da cui derivano, ma di cui non sono l’unica declinazione possibile.
Come si è detto in principio, occorre risalire a quei modi di essere e di sentire, che sottostanno all’opportunismo e al cinismo come un nocciolo neutro, passibile di espressioni tutt’affatto diverse.
In breve, questi modi di essere e di sentire consistono nell’abbandono senza riserve alla propria finitezza, nell’appartenenza spasmodica al determinato «qui e ora» in cui si è confitti. Al cospetto di tale abbandono e di tale appartenenza, la stessa laicità di un «progetto» appare un estremo tentativo di trascendimento.
Il «progetto», infatti, muove dalla lucida rappresentazione della finitezza, traendo da essa la decisione a un agire razionale di lunga lena. Ma lo sguardo consapevole sulla caducità, presupponendo pur sempre un margine di esternità, sublima o decurta la caducità come tale, ancora ne cerca un oltrepassamento. Viceversa, l’abbandono radicale alla finitezza vi si rimette come a un limite non contemplabile «da fuori», irrappresentabile e perciò davvero intrascendibile: un limite che non può venire messo a frutto come propellente di «decisioni» o nerbo d’identità definitive. Questo sentimento integrale della finitezza è suscitato, peraltro, dallo sradicamento senza requie che ritma la storia della modernizzazione. Proprio il carattere artificiale, convenzionale, astratto di tutti i contesti di esperienza restituisce appieno il tenore della propria contingenza e precarietà. La «formalizzazione del mondo» e la percezione non decurtata della caducità vanno di pari passo. Lo sradicamento rende strenua l’aderenza al «qui e ora» più labile.
L’opportunismo e il cinismo volgono questa situazione emotiva, segnata dal radicale abbandono alla finitezza, in rassegnazione, asservimento, sollecita acquiescenza. Ma così, e sia pure orribilmente, la mettono in luce come il dato irreversibile a partire dal quale pensare anche il conflitto e la rivolta. Bisogna domandarsi se e come si lasciano intravedere segni di opposizione e di lotta, rispecchianti la medesima situazione di appartenenza al fragile «qui e ora», da cui si dipanano opportunismo e cinismo. Se e come il rapporto con le opportunità cangianti può non essere «opportunista», e l’intimità immediata con le regole non essere «cinica».
Chi detesta la moralità corrente, proprio costui, deve sapere che le nuove istanze di trasformazione non potranno che ripercorrere con altro segno gli stessi sentieri lungo i quali si è consumata l’esperienza dell’opportunista e del cinico.
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Paolo Virno ha insegnato filosofia del linguaggio all’Università Roma Tre e fa parte del comitato scientifico della collana editoriale «Forme di vita» (DeriveApprodi). È autore di numerosi lavori, tra cui Grammatica della moltitudine (DeriveApprodi, 2003), Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica (Bollati Boringhieri, 2013), Dell’impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica (Bollati Boringhieri, 2021), Negli anni del nostro scontento. Diari della controrivoluzione (DeriveApprodi, 2022). I suoi libri sono tradotti in più di venti lingue.
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