Erdoğan è ancora presidente della Turchia. Lui dice di tutti i turchi, ma un po’ meno della metà degli elettori non lo pensa. Hanno votato per il suo antagonista Kemal Kılıçdaroğlu. Eppure la sterzata ipernazionalista degli ultimi giorni di propaganda per il ballottaggio, che ha caratterizzato più quest’ultimo che il presidente uscente, con accordi per incamerare i due milioni e mezzo dei voti xenofobi della coppia Oğan-Özdağ, è stata equamente divisa fra Erdoğan che percepiva i consensi del primo, e Kılıçdaroğlu che calamitava quelli del secondo. Un milione e rotti ciascuno e la distanza fra i competitori è rimasta invariata a quattro punti di percentuale, com’era accaduto nel primo turno. Il Consiglio Elettorale Supremo andrà a puntualizzare le percentuali definitive che stasera incoronano Baba Tayyip per la terza volta e, eğer Tanrı isterse, fino al 2028. 52,07% per lui, 47,93% per colui che resta presidente solo del partito repubblicano. L’elezione del centenario fa di Erdoğan il padre assoluto della nuova patria turca, nazionalista e islamica, molto più di quanto l’avesse forgiata Atatürk. Da oggi l’epiteto ‘sultano’ usato a mo’ di scherno dagli avversari e per indicarne il desiderio di dominio, diventa una qualifica reale e più una virtù che un vizio. Certo, fra i sovrani dell’Impero c’è chi ha conservato il potere più a lungo: trentasei anni Orhan, il guerriero (dal 1326 al 1362), trenta Mehmed II, il conquistatore (dal 1451 al 1481) e successivamente Solimano, il magnifico che rimase sul trono per 42 anni (1520-1566). Ma quelli che potranno essere i ventisei anni di Erdoğan, sempre se Allah vorrà, hanno un valore quasi secolare. Poiché la nazione che lo mise anche in galera per aver rivendicato l’orgoglio d’una militanza islamica da poter proporre alla luce del sole, rappresenta tuttora, e dopo le tante vicissitudini di cui è stato protagonista, un collante per una maggioranza della popolazione che non è più quella da lui presa per mano alla fine degli anni Novanta, prima come sindaco di Istanbul, poi come premier. La nazione è cambiata, cresciuta, anche nelle aree anatoliche per lungo tempo arretrate. Ha conosciuto un’estensione del benessere soggettivo e collettivo. Ha anche vissuto fasi tragiche con attentati interni da parte di quei gruppi jihadisti, che si presume il leader dell’Akp avesse sostenuto nella prima fase della guerra civile siriana.
Ha conosciuto il soffocamento, partito da Istanbul e seguito in grandi città, del movimento giovanile di protesta per la ristrutturazione al Gezi park. E poi il blocco del processo di pacificazione col leader kurdo Öcalan e la conseguente repressione rivolta alla popolazione del sud-est correlata a una ripresa di guerriglia del Pkk; una repressione che ha ricadute sul Partito Democratico dei Popoli con l’arresto di parecchi parlamentari accusati di sostegno del terrorismo. E ancora: lo scontro con l’ex alleato Fethullah Gülen, a detta del governo organizzatore con la confraternita Hizmet del tentato golpe nel 2016, cui sono seguite decine di migliaia di epurazioni fra le file di militari, poliziotti, docenti, magistrati, dipendenti pubblici e privati. Una stretta autoritaria che ha colpito testate d’opposizione, la libertà di stampa e di pensiero di giornalisti, intellettuali, artisti. All’epoca verso costoro il partito repubblicano non s’è mostrato così solidale come alcuni oppositori marxisti e progressisti si sarebbero aspettati. Gli accordi con cui Dimirtaş e colleghi hanno indirizzato il voto su Kılıçdaroğlu sono stati una scommessa obbligata per l’impossibilità di presentare un proprio candidato di peso, che in ogni caso avrebbe scontato un ruolo di minoranza, corposa ma minoritaria rispetto al voto nazionale. Del resto il ‘Tavolo dei sei’ era coalizzato unicamente sulla caduta di Erdoğan, un fattore che polarizza, tanto da metterlo seriamente in difficoltà davanti agli ulteriori problemi della nazione: l’emergenza post terremoto e quella inflattiva. Ma l’alleanza risultava limitata sul proprio programma interno (contrastare il caro vita e riformare il presidenzialismo) e ancor più sul fronte internazionale. Qui il pur contraddittorio personalismo del presidente uscente ha offerto alla Turchia un ruolo di primo piano nelle aree di crisi geopolitiche. Dunque sulla voglia di cambiamento ha prevalso il timore di perdere quella guida consolidata che il sultano offre da un ventennio. Kılıçdaroğlu, passato in una manciata di giorni da uomo d’una promettente primavera turca a sostenitore di rimpatri razzisti, è parso un opportunista che stordiva le speranze progressiste.
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