“L’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario“, diceva Milton Friedman. Secondo i monetaristi come lui, l’inflazione si verifica quando la quantità di denaro in circolazione aumenta più rapidamente della produzione di beni e servizi.
Presumendo che la banca centrale abbia il controllo sulla quantità di denaro, i monetaristi ritenevano che le autorità monetarie fossero responsabili principali degli episodi inflazionistici.
Inoltre, i monetaristi sottolineavano l’importanza delle aspettative: man mano che l’inflazione aumenta, gli agenti economici rivedono al rialzo le loro aspettative di inflazione, rendendo difficile il ritorno alla stabilità dei prezzi.
Pertanto, le banche centrali non dovrebbero cercare di stimolare l’attività economica per ridurre la disoccupazione.
Queste idee sono state riprese e radicalizzate dagli economisti neoclassici negli anni ’70 e sono state incorporate nella sintesi neokeynesiana, che rappresenta ancora oggi la corrente principale della macroeconomia.
Secondo questi modelli, l’inflazione si scatena quando le aspettative di inflazione si sganciano e le banche centrali perdono credibilità nella loro capacità di mantenere la stabilità dei prezzi.
Di conseguenza, la ricetta per contrastare l’instabilità monetaria è sempre la stessa: aumentare i tassi di interesse, limitare la spesa, controllare la domanda e le aspettative di famiglie e imprese.
Pertanto, due anni fa molti credevano che l’aumento dell’inflazione sarebbe stato solo temporaneo. Uno degli argomenti avanzati era che le aspettative di inflazione rimanevano stabili a un livello basso. Tuttavia, nonostante tali aspettative non siano aumentate significativamente da allora, l’inflazione rimane ancora relativamente alta oggi.
Dieci anni fa, molti erano sorpresi dal fatto che la Grande Recessione non fosse stata accompagnata da deflazione e che la successiva ripresa non avesse portato a inflazione; oggi, invece, ci sorprende l’eccessiva inflazione. La visione dell’inflazione come fenomeno puramente monetario trascura chiaramente elementi cruciali.
In un nuovo working paper, gli economisti Guido Lorenzoni e Iván Werning (2023), due autorevoli economisti mainstream, sostengono che i loro colleghi abbiano trascurato una causa fondamentale dell’inflazione: il conflitto.
Attraverso due modelli, dimostrano l’importanza del conflitto nel meccanismo inflazionistico. Arrivano addirittura a escludere la moneta e il credito in uno di questi modelli per dimostrare che l’inflazione può derivare unicamente dal conflitto e non da un eccesso di creazione monetaria.
Non tutti gli economisti hanno trascurato l’origine conflittuale dell’inflazione, ma bisogna rivolgersi agli economisti eterodossi per vedere che essa gioca un ruolo di primo piano. Lorenzoni e Werning fanno esplicito riferimento ai lavori dei post-keynesiani, in particolare all’articolo fondamentale dell’economista marxista Robert Rowthorn (1977).
Secondo questa prospettiva, l’inflazione deriva da un conflitto nella distribuzione del reddito tra gruppi antagonisti, come imprenditori e lavoratori. Da un lato, le imprese possono cercare di preservare o aumentare i loro profitti aumentando i prezzi di vendita. Dall’altro lato, i lavoratori possono cercare di aumentare i loro salari nominali per preservare o addirittura aumentare i loro salari reali.
In entrambi i casi, tutto dipende dal rapporto di forza: le imprese possono facilmente aumentare i prezzi se hanno un potere di mercato significativo, ossia se sono in posizione di forza rispetto ai consumatori; i lavoratori possono facilmente ottenere aumenti salariali reali se sono in posizione di forza rispetto ai loro datori di lavoro. L’inflazione ha dei costi, ma persiste perché i gruppi in lotta cercano di evitare di sopportarli.
Va detto che i cambiamenti osservati nel mercato del lavoro a partire dagli anni ’80, insieme agli effetti della globalizzazione, rendono meno probabile uno scenario del genere: la diminuzione della sindacalizzazione e la crescita del lavoro precario hanno fatto perdere ai lavoratori potere contrattuale rispetto alle imprese.
Proprio questa sconfitta storica del lavoro ha reso possibile un quarantennio di prezzi incredibilmente stabili, la cosiddetta Great Moderation.
Detto ciò, i salari non sono l’unico reddito in grado di alimentare una spirale inflazionistica. Ad esempio, alcuni elementi suggeriscono che negli ultimi mesi potrebbe essere stata in atto una spirale prezzi-profitti.
Come la caccia ai profitti può alimentare l’inflazione
Adam Smith, l’economista e filosofo scozzese del XVIII secolo, spesso considerato come il padre dell’economia moderna aveva qualcosa da dire riguardo ai profitti eccessivi:
“I nostri mercanti e grandi produttori si lamentano molto degli effetti negativi dei salari elevati nell’aumento del prezzo, riducendo così la vendita dei loro beni sia in patria che all’estero. Non dicono nulla degli effetti negativi degli alti profitti. Restano in silenzio riguardo agli effetti dannosi dei loro guadagni. Si lamentano solo di quelli degli altri“.
Il brano è tratto dal Libro I, Capitolo 9 dell’opera ”Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni” (1776), dove Smith sta discutendo di come un aumento dei profitti abbia una capacità di propagazione attraverso le catene del valore molto più alta di quella dell’aumento dei salari.
Smith sottolineava che un aumento dei salari funziona come un interesse semplice, mentre un aumento dei profitti funziona come un interesse composto. Se ogni azienda aumentasse i salari del 5%, la parte del prezzo di un bene destinata ai salari aumenterebbe solo in proporzione aritmetica a tale aumento.
Al contrario, se le imprese in una filiera aumentassero i loro prezzi per incrementare i profitti del 5%, l’impatto finale di tale aumento di profitto che si propaga lungo la catena di fornitura sarebbe molto più significativo.
La studiosa tedesca Isabella Weber ha ripreso questo semplice concetto nel suo working paper del 2023 e lo ha integrato con la letteratura sui “prezzi amministrati” (Gardiner Means) per fornire una spiegazione plausibile dell’attuale fase inflazionistica.
Nel contesto del capitalismo monopolistico, in cui i capitalisti hanno un alto grado di potere di mercato e possono fissare i prezzi in modo relativamente autonomo rispetto alle dinamiche di domanda e offerta, le imprese di solito evitano di abbassare i prezzi per evitare dannose “guerre” con i concorrenti, ma alzeranno i prezzi se si aspettano che altre imprese facciano lo stesso, poiché sono sicure che la loro quota di mercato non ne sarà danneggiata.
Un aumento generalizzato dei costi, come quello sperimentato a partire dalla seconda metà del 2021, agisce quindi su due fronti: da un lato, giustifica l’aumento dei prezzi di fronte ai consumatori, che saranno più inclini ad accettarlo; dall’altro lato, funge da meccanismo di coordinazione tra le imprese stesse, segnalando loro che possono proteggere o aumentare i propri margini di profitto senza il rischio di perdere quote di mercato.
Pertanto, la tradizionale e “responsabile” politica delle banche centrali, che prevede di rispondere ad ogni accelerazione dei prezzi con un aumento dei tassi di interesse, rischia di non produrre gli effetti desiderati.
Al contrario, potrebbe avere conseguenze negative sull’occupazione e sulla dinamica salariale, scaricando il peso della congiuntura economica, come spesso accade, sui lavoratori e sulle fasce più deboli della popolazione.
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